“Che dire dei concetti, talvolta così difficili da formulare? – si domanda Michel Serres, in “Non è un mondo per vecchi. Perché i ragazzi rivoluzionano il sapere” (Bollati Boringhieri, Torino 2013) – Ditemi che ne è della Bellezza. I ragazzi rispondono: una bella donna, una bella puledra, una bella aurora… Un momento, vediamo: vi chiedo un concetto, e voi mi citate mille esempi, non la finirete mai con le ragazze e le puledre! L’idea astratta equivale a una grandiosa economia di pensiero: la Bellezza stringe in pugno mille e una bella, come il cerchio geometrico comprende miriadi infinite di cerchi… O meglio: non posso delimitare la pagina senza appellarmi all’idea che tappa le fughe di questa enumerazione infinita. L’astrazione fa da tappo”.
Eppure il concetto di bellezza potrebbe tradursi agilmente in prassi. L’idea di bellezza collegata alle proporzioni, nasce con i pitagorici, per divenire pienamente riconoscibile con Fibonacci. Euclide definì il “rapporto aureo” nei termini di “proporzione estrema e media”, Piero della Francesca se ne interessò nella doppia veste di pittore e matematico, mentre, verosimilmente Albrecht D?rer, più sicuramente Leonardo, Bramante, Leon Battista Alberti, Melozzo da Forlì, Marco Palmezzano, Francesco di Giorgio Martini, Giovanni Antonio Amadeo, Jacopo de’ Barbari, Giovanni da Verona, avrebbero avuto, e ricevuto, influenza su, e da, Luca Pacioli che sancì definitivamente la questione con gli Elementi di Euclide e De Divina Proportione (1509).
Il concetto di incommensurabilità scompagina l’ideale greco, per espandersi all’infinito. Prende il sopravvento l’astrazione del sublime ed è la conoscenza individuale a determinare il gusto, di cui si rivaluta l’individualità, in base alla relatività della percezione.
L’arte non è generalizzabile ed è l’opera singola che va inquadrata nella sua originalità irripetibile. Fuoriuscire dai canoni dell’armonia classica, alla ricerca della mobilità e del dinamismo, procura vaghezza, instabilità, inquietudine. All’ordine prestabilito s’oppone un’anarchia che accoglie nell’esperienza estetica anche la delusione e lo sconforto.
La ricerca del Sé richiede uno slancio trascendentale. L’elevazione però non può precedere quella che potrebbe essere considerata, allo stesso tempo, come una sorta di rinuncia e di riconoscimento, un perdersi per ritrovarsi. Forse, anche l’opera, in un certo qual senso, si rivolge a noi osservatori per guardarci e coinvolgerci nell’atto creativo.
“Allontanandosi dall’idea di misura evidente, – scrive Remo Bodei (1995) – l’età moderna procede dunque verso l’irrazionalità, l’arbitrarietà e l’indefinibilità del bello… Alla ricerca di un’ostinata armonia, che deve celarsi per non apparire subito evidente e scontata, le teorie e le pratiche artistiche si spostano in direzione di una complessità che si inventi, di volta in volta, le proprie regole… Il bello si articola così virtualmente nel suggerire un universo di significati, di volta in volta dischiusi e intimamente costitutivi del raffigurato”.
E’ il nostro personale sentimento di piacere, o gusto che dir si voglia, a divenire misura estetica. Ma, nel momento in cui l’arte non è più esclusiva, e può diffondersi in tutta la realtà che ci circonda e spalmarsi ovunque sulla stessa nostra vita, si ottiene come risultato un’anestesia, e l’assuefazione richiede l’immediata soddisfazione di nuove esigenze sensitive.
John Berger racchiude l’idea di bellezza all’interno di uno spostamento (shift) nella consapevolezza, un “Quantum leap” dall’osservatore all’osservato: “quel che è bello al mio sguardo” va inteso nel senso reciproco di quello da cui voglio essere guardato. “L’angelo era bellissimo. Mi riferisco alla sua presenza, non alla sua riuscita come opera d’arte. Ho fatto un disegno per cercare di capire meglio l’espressione del suo volto. E, mentre la disegnavo, ho capito qualcosa di molto diverso. Il suo viso vi dà la certezza che vi sta guardando. Qui la bellezza non è quel che vi piace contemplare, ma ciò da cui volete essere guardati! La bellezza è la speranza di essere riconosciuti dall’esistenza di quel che state guardando, e di esservi inclusi. La speranza di essere guardati e riconosciuti non si manifesta solo davanti ai ritratti delle bellezze fiorentine. Il leone che tremila anni fa fu disegnato nell’oscurità su una parete rocciosa offre, a prescindere dall’eleganza del suo profilo, un’inclusione nel mondo in cui esso esiste. E forse è altrettanto vero quando il bello non è opera dell’uomo, quando lo si trova in un tramonto, una pianta, un animale, una montagna. Ognuna di queste cose è bella quando risponde alla medesima speranza che il viso dell’angelo sembrava appagare” (2004).
Il rinvio, il rimando, la citazione fanno riferimento ad altre forme, immagini ed emozioni e costituiscono un’apertura al mondo esterno altrettanto bene di un ampliamento della coscienza.
“L’appagamento che deriva dalla contemplazione della bellezza dura un attimo, la consapevolezza della sua labilità rimane incisa nella nostra mente, e ci insegna per mezzo dell’emozione. – dichiara Fausta Squatriti – Amica e nemica, la bellezza si accompagna all’ansia di perfezione, modello culturale acquisito nel corso dei millenni dall’uomo consapevole. Nulla è abbastanza bello per noi, che pensiamo alla perfezione come modello del divino. Lungo la strada, numerosi incidenti danno spazio al brutto rendendogli l’onore della sua esistenza che vive solo se contrapposta al bello. Il brutto può anche essere più attraente, più eccitante, più erotico, del bello-perfetto, che porta in sé la fine della ricerca. Ma il tormento è dato dalla fragilità della perfezione che ci induce ad amare la bellezza che della vita raffigura e quantifica il valore, e con essa, l’dea della morte. La bruttezza è una maestra migliore della bellezza, come ogni antitesi entro i cui termini si colloca la capacità critica di restare dentro alla vita praticando confronto, mutazione, progresso. Il mito della perfezione non si colloca in alto, trova spazio nella zona di confine, terra di nessuno tra bello e brutto, disuguale, mutevole, mentre sia perfezione che bellezza recano con sé l’immobilità, e senza movimento c’è solo contemplazione” (“Non tutto il bello è fatto per piacere”, 2009).
La visione del bello sembra richieda una maggiore attività da parte dell’area corticale orbito-frontale mediale, nota per il coinvolgimento nei meccanismi di ricompensa. Al contrario la categoria del brutto sollecita la corteccia motoria. L’attività della corteccia orbito-frontale mediale non giustifica la localizzazione in quell’area della percezione della bellezza, ma la correlazione alla personale sensazione gradevole, del tutto soggettiva. E’ questa una necessaria condizione, implicata nella fenomenologia estetica, che convalida giudizio e gusto, grazie a meccanismi di ricompensa e gratificazione.
La ricerca di continuità e stabilità ci riporta all’assioma eracliteo: “Nulla permane, tranne il cambiamento”. Se la conoscenza è di per sé ambigua e si è predisposti alla gestione dell’equivoco, l’enfasi sul ruolo attivo svolto dall’organo percettore e sul conseguente completamento culturale della procedura di interpretazione non è eccessiva.
Con “Una musica sentita così profondamente/ che non è affatto sentita, ma voi siete la musica/ finché essa dura” (The Dry Salvages, 1941), T. S. Eliot sottolinea questo modo d’essere, d’interagire, d’identificarci, basato su di una partecipazione dinamica. I “neuroni specchio” ci fanno ipotizzare tanta condivisione in emozioni, sensazioni e azioni e probabilmente anche nell’acquisizione e nella trasmissione di conoscenza. La ricerca di significato, però, esula dal problema estetico e richiede un netto controllo sulla doppiezza.
Alain Resnais ha confessato il suo desiderio di “fare film che fossero guardati come una scultura e ascoltati come un’opera” (2008). In “L’année dernièr à Marienbad” (1961), verità e sogno si alternano, allo scopo di spiazzare lo spettatore, e, in una particolare immagine della pellicola, solo le figure umane presentano la loro ombra, seguendo una definizione dimensionale temporale, e lasciando che il paesaggio rimanga cristallizzato, come ha notato Gilles Deleuze (1985), in una compresenza di tutti gli stati della transitorietà. L’illusione è quella di vivere in un eterno presente, in bilico tra reale e immaginario. Mark Polizzotti ne evidenzia l’aspetto contraddittorio: “In un contesto rigidamente regolamentato, localizzato in uno spazio puramente fabbricato, Resnais ci conduce attraverso i corridoi imprevedibili e molteplici della memoria e del desiderio umani” (2009). Robbe-Grillet l’avrebbe definita “la storia d’una persuasione”.
Ognuno può rendersi persuaso di qualcosa di diverso, senza trovare una vera soluzione, ma ipotizzandone svariate. In questo senso, potrebbe essere considerata emblematica la “Gioconda coi baffi” di Duchamp, sia per quel titolo che è tutta una provocazione: L. H. O. O. Q. (“Elle a chaud au cul”), con irriverente riferimento sessuale alla sodomia omosessuale, sia perché costringe a fare delle riflessioni più serie sull’essenza del capolavoro e della sua riproducibilità.
“Se, come ci ha insegnato Duchamp, il significato risiede non solo in chi crea, ma anche in chi guarda, allora l’opera d’arte deve cessare di esistere come oggetto: – concludono Ludovica Lumer e Semir Zeki, ne “La Bella e la Bestia: Arte e Neuroscienze” (Laterza, Bari 2011) – deve diventare esperienza e dev’essere vissuta in tempo reale”.
L’esplicitazione di tanta tensione che ci distingue e ci delinea unici e inconfondibili, invece di introiettarsi nell’immaginario, può esternarsi nel consegnare all’oggettivazione la soggettività, fino a fare un’opera d’arte del proprio corpo.
La psicologia enumera diversi Sé che ci rappresentano, proprio in funzione della continua ridefinizione dinamica cui vanno incontro nell’interazione con gli altri, nell’avvicendamento delle esperienze, nel passaggio da un ruolo all’altro, attorno a un nucleo centrale che ne costituisce il senso minimo.
“In effetti, – declama il Simposio di Platone – anche nel tempo in cui ogni singolo vivente si dice che vive e si dice che sia lo stesso – per esempio si dice che è la stessa persona chi dalla fanciullezza arriva alla vecchiaia – in realtà, non mantiene mai in se stesso le medesime cose, eppure è considerato identico, ma sempre diventa nuovo, perdendo altre cose, sia per quel che riguarda i capelli, sia per la carne, sia per le ossa, sia per il sangue, sia per tutto quanto il corpo. E non solo per quel che riguarda il corpo, ma anche per l’anima: modi, abitudini, opinioni, desideri, piaceri, dolori, paure, ciascuna di queste cose non rimane mai la stessa in ognuno, ma alcune nascono, altre muoiono”.
Noi diveniamo ciò che siamo a furia di farci plasmare dalle relazioni con gli altri. La capacità di imitare i comportamenti altrui rientra nella capacità di stabilire relazioni d’equivalenza fra modalità differenti d’esperienza.
“L’imitazione precoce ci aiuta a capire meglio l’intelligenza sociale, in quanto mostra che i legami e le relazioni interpersonali sono stabiliti all’esordio della vita, quando non è ancora disponibile alcuna rappresentazione soggettiva del mondo, per il semplice motivo che il soggetto cosciente dell’esperienza non si è ancora costituito. – scrive Vittorio Gallese (2003) – L’assenza di un soggetto auto-cosciente non preclude, tuttavia, la costituzione d’uno spazio primitivo ‘Sé/Altro’, caratterizzando così una forma paradossale d’intersoggettività priva di soggetto. Il neonato condivide questo spazio ‘noi-centrico’ con gli altri individui che popolano il suo mondo”.
L’attività dei “neuroni specchio” sosterrebbe la capacità di simulazione incarnata. “Alcune forme del senso del Sé esistono molto prima dell’autoconsapevolezza e del linguaggio… – precisava Daniel N. Stern (1985) – Quando dico ‘Sé’ mi riferisco a uno schema stabile di consapevolezza che si presenta solo in occasione di azioni o di processi mentali dell’infante. Un tale schema è una forma di organizzazione; è l’esperienza soggettiva organizzante di ciò a cui in seguito ci si riferirà verbalmente come al Sé… I cambiamenti di organizzazione all’interno del bambino e la loro interpretazione da parte dei genitori si favoriscono a vicenda. Come risultato, il bambino sembra avere un nuovo senso di chi è lui – o lei- e di chi sei tu, nonché un nuovo senso del tipo di interazioni che possono aver luogo”.
Alcune regioni cerebrali, i cui circuiti sono denominati “cervello sociale”, sembrano adibite allo svolgimento di compiti di comprensione, previsione, immedesimazione. E’ ciò che viene chiamata capacità di “mentalizzazione”, e teoria della mente. I maggiori cambiamenti, sia strutturali che funzionali, avvengono nel corso della pubertà, in un corpo che repentinamente diviene sede privilegiata di trasformazioni e territorio minato di conflitti tra opposte fazioni, anagrafiche (bambino-adulto), storiche (passato-futuro), spaziali (interno-esterno), sociali (individuo-gruppo), affettive (separazione-abbandono), psicologiche (sé e altro da sé), di coscienza etica, di riconoscimento delle emozioni, d’orientamento sessuale, d’immagine e d’identità.
Quando il corpo è causa della sensazione, “non solo è strumento d’azione – sostiene Lea Vergine (2000) – ma contribuisce alla vita della coscienza e della memoria in un parallelismo psicofisico di processi che prendono significato e rilievo solo nella loro connessione” . “Il corpo parla un linguaggio – specifica Alexander Lowen (1958) – che anticipa e trascende l’espressione verbale”. E se il corpo è icastico, l’arte diventa psicosomatica.
Giuseppe M. S. IERACE
Bibliografia essenziale:
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Polizzotti M: “Last year at Marienbad: which year at where?”, http://www.criterion.com/current/posts/1177-last-year-at-marienbad-which-year-at-where
Precht R. D.: “Ma io, chi sono? (ed eventualmente, quanti sono?)”, Garzanti, Milano 2009
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Squatriti F.: “Non tutto il bello è fatto per piacere”, http://www.lietocolle.info/it/f_squatriti_non_tutto_il_bello_e_fatto_per_piacere.html
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Vergine L.: “Body art e storie simili. Il corpo come linguaggio”, Skira, Milano 2000
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Zemignan R. (a cura di): “Alain Resnais: l’avventura dei linguaggi”, Il Castoro, Milano 2008