Che cosa sono io: personalità, memoria, coscienza, rappresentazione del tempo, disorientamento, amnesia… autoreferenzialità degli studi neuropsicologici

“Se l’esperienza è davvero la somma dei nostri ricordi e la saggezza è la somma delle esperienze, avere una memoria più efficiente significa non solo conoscere meglio il mondo, ma anche se stessi” Joshua Foer: “L’arte di ricordare tutto” (trad. it. Elisabetta Valdré, Longanesi, Milano 2011).
La mnemotecnica denominata “palazzo della memoria”, che si fa risalire a Simonide di Ceo, consiste semplicemente nel pensare secondo i metodi più adatti a ricordare. Quest’ars memorativa è stata definita pure quale metodo dei “loci” o sistema del “percorso”, codificata in regole da eminenti autori latini, come Cicerone e Quintiliano, e sperimentata nel medioevo dai predicatori per meglio declamare i sermoni. All’avvento della pagina stampata, l’invenzione di Gutenberg ebbe l’effetto di relegarla nell’ambito delle tradizioni ermetiche riesumate nel periodo rinascimentale. L’illuminismo l’avrebbe adibita a fenomeno da baraccone, accantonandolo nei recessi dell’occultismo meno raffinato. I surrealisti invece avrebbero riesumato il concetto destinandolo a un’interpretazione relativistica.
Ne “La persistenza della memoria”, ovvero “Gli orologi molli”, il celeberrimo olio su tela di Salvador Dalì, realizzato nel 1931 e conservato nel MoMA di New York, gli orologi fluidi stanno a dimostrare l’elasticità di un tempo poco definibile, in contrasto con le rigide regole della puntualità. Il trascorrere dell’età viene ricordato meglio quanto più è distante, perché, indipendentemente dalla dicotomia “memoria a breve/lungo termine”, le umane rimembranze non seguono le leggi dello scorrere meccanico delle ore e dei giorni. Il ricordo ha del tempo una percezione relativa, a volte persino umorale, che lo rende pesante e lento nelle fasi di tristezza e molto più dinamico e veloce nei momenti di gioia.
“Quando un uomo siede un’ora in compagnia di una bella ragazza, gli sembra sia passato un minuto. Ma fatelo sedere su una stufa per un minuto e gli sembrerà più lungo di qualsiasi ora. Questa è la relatività!” (Albert Einstein, 1879-1955)

Il tempo è forse un concetto astratto che ha una sua rappresentazione nelle dimensioni misurabili dagli orologi (Weger e Pratt, 2008).
L’ammonimento famoso di Agostino d’Ippona, circa la nostra presupposta conoscenza del tempo fino a quando non si voglia approfondirla, dichiara l’impossibilità del linguaggio di descrivere questa pur importante dimensione dell’esistenza. Eppure tutte le nostre azioni presuppongono il rispetto del senso del tempo. “Cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so… se infatti là è il futuro, allora non c’è ancora, e se là è passato, non c’è più. Perciò dovunque sono, qualunque cosa sono, non sono che presente” (Confessiones, XI, XIV, 17; XI, XVIII, 23). Gli fa eco William James (1842-1910): “… il momento presente della vita. L’esperienza più sconcertante che ci possa capitare: dov’è questo presente?” (“The Principles of Psychology”, 1890).
Una risposta sufficientemente valida venne fornita da Orazio: “Dum loquimur fugerit invida aetas: carpe diem, quam minimum credula postero” (Odes 1, 11, 8). Data la fugacità che lo contraddistingue, il presente è destinato a sgretolarsi rapidamente, osserva Seneca nel “De Brevitate vitae”, ma, a saperlo ben amministrare potrebbe diventare quasi tangibile, se non abbastanza duraturo. Una tale concezione fu ripresa da Benjamin Franklin (1706.1790), in “Necessary hints to those that would be rich” (1736) e in “Advice to a young tradesman” (1748), come semplice equazione “time is money” (“il tempo è danaro”).

Il nostro cervello avverte il trascorrere dei minuti con il fluire della coscienza, se essa s’interrompe non si trattiene ricordo di quest’esperienza, a scapito della stessa integrità personale. Dalla direzione degli eventi, che si presentano con una loro simultaneità, durata, e successione, se ne deduce l’univoca asimmetria.
Che il tempo si possa concepire senza questa continuità di successione veniva escluso da David Hume (1711-1776) in “A Treatise of Human Nature: Being an Attempt to introduce the experimental Method of Reasoning into Moral Subjects” (1739-1740), ma nella realtà succede che, mentre gli accadimenti vengono percepiti dagli organi di senso, lo scorrere del tempo costituisce un’informazione esclusiva della coscienza. Quindi, è questo il motivo per cui si parla solitamente di “senso” (feeling) piuttosto che di “percezione” (perception) del tempo.
Il tempo scorre, “tempus fugit”, come poeticamente si esprime Virgilio nel terzo libro delle Georgiche: “Sed fugit interea fugit irreparabile tempus”. La rappresentazione tridimensionale dello spazio ingloba questo flusso, nonché la grandezza e la proprietà della quantità (Walsh, 2003).
Arnaldo Benini, in “Che cosa sono io. Il cervello alla ricerca di se stesso” (Garzanti, Milano 2009), evidenzia come il passare delle ore possa essere registrato dalla nostra mente anche durante il sonno, dal quale ci si può svegliare con buona approssimazione. E neppure creatività, immaginazione e fantasia riescono a fare a meno del tempo.
Riusciamo però a fare a meno degli avvenimenti, se è vera la definizione di Richard Phillips Feynman (1918-1988): “il tempo è ciò che succede, quando non succede nulla”, che lo psicobiologo Ernst Pöppel (2006) fa corrispondere all’a priori temporale kantiano.
La somma dei nostri ricordi costituisce l’esperienza temporale che ricuce gli eventi vissuti dalla coscienza e li ripropone in un compendio di esperienze. Da esse saper trarre insegnamento struttura la personalità nel suo persistente conflitto con le istanze inconsce. Per cui il senso del tempo può essere assimilato a una dimensione della realtà e perfino a una categorizzazione progettuale e organizzativa di essa (Dawson, 2004).
Il cervello, grazie a queste esperienze temporali, prende coscienza dei cambiamenti che gli avvengono intorno, della loro inarrestabile uni-direzionalità, e del loro essere effetti di cause spesso identificabili in base alla sequenza (Friedman, 1989).

“L’Universo ha avuto un inizio? E in tal caso che cosa c’era prima? Da dove è venuto l’universo e dove sta andando?” (Stephen W. Hawking: “A Brief History of Time”, 1988).
“In answer to the question of why it happened, I offer the modest proposal that our Universe is simply one of those things which happen from time to time” (Edward P. Tryon: “Is the Universe a Vacuum Fluctuation”, 1973).
Prima dei greci non esisteva il concetto di tempo, inteso né come chronos, e neppure aion, caos, kairos… (Whitrow, 1989).
Sollecitato da Albert Einstein, Jean Piaget (1896-1980) intraprese uno studio (1946) sulla comparsa e lo sviluppo della nozione del tempo nei bambini, ma successivamente i progressi delle neuroscienze hanno fornito dei dati più precisi. Il lattante che piange per fame dimostra di avvertire gli intervalli. Per l’idea del “qui e ora” occorre aspettare il diciottesimo mese; a due anni e mezzo si acquisisce anche l’accezione del futuro, mentre la concezione del passato è da ricondurre ad una prima maturazione dei centri della memoria, a tre anni circa. Pertanto, dal punto di vista linguistico, il termine “domani” e più precoce e chiaro di “ieri”. A tre anni e mezzo si raggiunge la piena coscienza di passato, presente e futuro, anche se l’astrazione del tempo è molto più tardiva, comparendo con la pubertà.
Insieme con spazio, movimento, causalità, l’innata categorizzazione temporale organizza organicamente gli eventi esistenziali. Il senso del trascorrere appare con l’autocoscienza (Mental Time Travel) che ne avverte la sequenza unidirezionale (Arzy S. et al. 2008). E’ la memoria a rappresentarsi questa direzione, in modo da trascinare il passato nel presente, come una freccia (la freccia del tempo) che parte da sinistra per andare verso destra (Santiago J. et al. 2007), in cui far confluire esperienze e aspettative.
Nella mente il passato è sentito quale rievocazione di ricordi, mentre il presente è ciò su cui agire (Giulio L. F. 1991). E tuttavia si tratta d’un’esperienza sconcertante, per come la considera William James, proprio in quanto sfuggevole, effimera, “di passaggio” in una successione più solida e tangibile tra ciò su cui non influiamo più e quanto possiamo ancora condizionare.
In questo senso, le strutture cerebrali deputate all’archiviazione dei ricordi sono sollecitate a modificarsi continuamente per effetto delle mutazioni, più lente nel corso delle età, più rapide nella percezione dell’ambiente, nell’attività interna, razionale e affettiva. Gerald Edelman, premio Nobel per la medicina nel 1972,  parla della percezione come di un atto di adattamento; l’informazione arriva come conseguenza della trasformazione adattativa. Cosicché il passato verrebbe continuamente rielaborato dalle ripetute modificazioni della materia cerebrale, rendendo attuabile quanto scrisse Elias Canetti (1904-1994) a proposito dei ricordi inattendibili: “una giovinezza inventata, che diventa realtà nella vecchiaia” (“Erfundene Jugend, die im Alter wahr wird”). Proprio a causa di questa continua trasformazione morfologica del repertorio mnemonico, ogni “storia” non potrà che essere “contemporanea”, come ebbe ad asserire, seppure in altro contesto,  Benedetto Croce (1866-1952).
La concezione del futuro si costituisce quale preparazione; a seconda se anticipazione, aspirazione, presagio, predisporrà a congrue emozioni di speranza, gioia, paura, ansia, scoramento (Carstensen L. L. 2006). Nonostante le immagini fornite dalle categorie mentali, che organizzano l’esistenza, non possano essere specchio fedele della realtà, sono esse ad offrire alla coscienza quei punti di riferimento entro cui poter rappresentare interiormente gli avvenimenti vissuti (Pinker S. 2007).
Dal punto di vista soggettivo, come nello spazio-tempo a quattro dimensioni di Hermann Minkowski (1864-1909), il mondo non “diviene”, come in fisica classica, bensì “è” (McCall S. 1991). Questo tempo soggettivo, interno, psicologico, fenomenologico, che non può corrispondere a quello fisico, oggettivo, misurabile, “assoluto, vero e matematico, che di per sé e per sua natura fluisce in modo eguale, senza relazione con alcuna cosa esterna” (Kern S. 1983), è del tutto “relativo”, perché equivalente al vissuto individuale, a ciò che Henry Bergson (1859-1941) avrebbe identificato come “durata”: “la vita continua di una memoria che prolunga il passato nel presente… Senza questo sopravvivere del passato nel presente non vi sarebbe durata ma solo istantaneità” (1903). Non un dato, dunque, ma un’esperienza malleabile, in quanto condizionata dall’affettività (Carstensen L. L. et al. 1999).
Nelle circostanze in cui si succedono molte stimolazioni, il “senso” del tempo subisce un’accelerazione; in caso di panico un rallentamento. Ma poiché una quantità di ricordi occupa un maggiore “spazio” temporale, un periodo ricco di eventi viene ricordato in seguito più “allungato”. La riduzione di luminosità di oggetti che scorrono, comprimendo il senso del tempo degli intervalli tra di loro, si traduce nella percezione di quasi simultaneità (Terao M. et al. 2008).
Con l’età, e la consapevolezza che la maggior parte della vita è trascorsa, cambia anche la coscienza del tempo; a volte basta un diverso ritmo esistenziale, con l’incremento o la diminuzione di responsabilità e traguardi da raggiungere. “Quanto breve mi sembra ora una giornata a paragone di quelle dell’infanzia” esclamava Ernst W. J. W. Mach (1838-1916) nel suo saggio analitico (1886) sulle sensazioni e sulle relazioni tra fisico e psichico, che si occupava pure dell’esperienza temporale nei sogni (Piolino P. et al. 2006).
Siccome la suggestione del tempo non potrà mai fungere da base attendibile per la misurazione oggettiva del suo trascorrere, sarà impossibile, come sottolineato da Paul Ricoeur (1913-2005), in “Temps et récit” (1983-1985), un’integrazione delle due dimensioni, fisica e psichica, di esso (Teichert D., 2004). Eppure a interrompere l’accesa discussione gustosamente immaginata da Arthur S. Eddington (1882-1944), in“The Nature of Physical World” (1928), in cui Bergson, con la sua ipotesi soggettiva della durata, stava sopraffacendo l’interlocutore astronomo, è il banale orario dei treni.

La valutazione della durata (duration estimation) di quanto accade è condizionata dalla quantità di informazioni e dal loro contenuto. Un disturbo della durata degli eventi, nel senso di un’accelerazione della loro sequenza (Zeitrafferphänomen) presuppone un coinvolgimento della corteccia parietale (Alexander I. et al., 2005) o frontale (Binkofski F. & Block R. A., 1996).
Come i Parkinsoniani (Koch G. et al., 2005), gli emicranici avvertono invece un rallentamento del fluire degli eventi, prima e durante le crisi (Anagnostou E.& Mitsikostas D. D., 2004).
Attacchi confusionali possono essere sostenuti da encefalite limbica, una sindrome paraneoplastica, o autoimmune, consistente in un’infiammazione strettamente circoscritta alla parte mediale dei lobi temporali e agli ippocampi (Drayer B. P. & Tien R. D., 1997). In tali casi si avverte come il passato si ripresenti, senza la “doppia” consapevolezza dei soggetti stimolati da Wilder Penfield (1891- 1976), che rivivevano trascorsi frangenti di autocoscienza, pur sapendo di trovarsi realmente in sala operatoria.
In seguito a forti stress psicofisici, compare repentinamente Amnesia globale transitoria, un’amnesia antero-retrograda, coinvolgente cioè il periodo successivo all’insorgenza e parte di quello precedente. Quest’ultimo viene recuperato ben presto alla memoria, mentre l’altro non verrebbe registrato affatto (Quinette P. et al., 2006).
A fungere da metronomo sono i nuclei soprachiasmatici dell’ipotalamo, che regolano i ritmi crono-biologici, quali l’alternarsi del sonno e della veglia, la variazione della temperatura corporea, o le secrezioni umorali. Una mancanza di sincronia con l’ambiente procura il noto “jetlag” dei viaggi intercontinentali. E un ancora più importante sincronizzazione interna mantiene la stretta collaborazione tra tutte le cellule dell’intero organismo (Dunlap J. C., 1999).
Insito nella percezione, che per giungere alla sua destinazione finale ha bisogno di un sia pur brevissimo spazio di tempo, c’è una certa retrodatazione. Di quest’intervallo non se ne ha coscienza, per evitare un crollo nel nostro castello di carte mentale (Libet B., 2004).
Il senso del tempo prende forma con la memoria continua, che si sviluppa a partire dal 18° e fino al 48° mese, insieme con il senso dello spazio tridimensionale, la capacità di camminare e il linguaggio (Goody W., 1969). Nella rappresentazione della temporalità sono coinvolti i centri della memoria nelle strutture ippocampali (Lytton W. W., Lipton P., 1999), la corteccia dei lobi frontali (Knutson K. M. et al., 2004) e parietali (Lewis P. A., Walsh V., 2005), il tronco encefalico (Harrington D. L. et al., 1998), il cervelletto (Vodolazhskaya M. G. et al., 2004). Persino il nucleo striato sarebbe preposto a stabilire la durata delle percezioni, successivamente posizionate in sequenza cronologica dalla corteccia parietale.
I centri cerebrali non sono comunque in grado di apprezzare intervalli troppo limitati, intorno ai 30 millesimi di secondo. Altra costante il “punto di indifferenza” individuato da Karl von Vierordt (1818-1884) che coincide con quanto supponiamo essere il presente (Der Zeitsinn nach Versuchen, 1868). Una “breve” durata tende a venire sovrastimata, viceversa sono sottovalutati i “lunghi” periodi. La linea di demarcazione tra questi due estremi costituisce il punto di indifferenza. Intorno ai tre secondi la coincidenza tra tempo soggettivo e tempo fisico è maggiore.
Il centro dell’elaborazione temporale andrebbe necessariamente ricercato laddove avverrebbe il coordinamento di percezione, attenzione, memoria e affettività. Venendo meno il funzionamento delle strutture cerebrali collegate ad affettività e memoria, quell’innata dimensione temporale, che categorizza passato, presente e futuro, subisce una distorsione. I disturbi del senso del tempo sono il prodotto dell’alterazione di questa categorizzazione emersa in autocoscienza, probabilmente assieme al linguaggio. Nel porsi come oggetto della propria analisi, il cervello però non può andare oltre l’autoreferenzialità.

Nel “Novum Organon” (1620), Francis Bacon (1561-1626) riconduceva la questione dell’autocoscienza a problema di “subtilitas”: “la sottigliezza della natura supera di molto la sottigliezza del senso e dell’intelletto, tanto che tutte quelle belle meditazioni, speculazioni, e controversie umane sono cose senza senso, solo che non v’è alcuno che se ne renda conto” (I, aforisma 10, trad. di Paolo Rossi).
Nel settimo paragrafo della Monadologia (1714), Gottfried W. von Leibniz (1646-1716) immagina di avventurarsi all’interno del cervello, come dentro un mulino a vento, senza però trovare cosa sia la mente. Ma neppure una correlazione fra attività elettrochimiche della materia cerebrale, sarebbe in grado di dirci qualcosa di più circa il funzionamento psichico e l’essenza della coscienza (McGinn C., 1989).
”Noi possiamo descrivere qualcosa solo impiegando la coscienza, per definire o descrivere la quale si finisce inevitabilmente in un cerchio…” dichiarò John Dewey (1859-1952). E addirittura,  forse, “la mente non è né una sostanza distinta né una identica al cervello” (Bennett M. R. & Hacker P. M. S., 2007).
Sembra che le spinte al mutamento sin’ora agenti, siano state del tutto casuali e presentino la caratteristica costante di aumentare la complessità sovrapponendo il “nuovo” senza coordinazione con il “vecchio”, quasi come farebbe un gelataio sommando il contenuto di una spatola sul precedente (Linden D. J., 2007).
L’errore maggiore Arthur Koestler (1905-1983) lo intravedeva nello sviluppo, senza adattamenti di sorta, della neocorteccia, razionale, sul cervello rettiliano, deputato a impulsi, istinti, aggressività.
Comunque, dal punto di vista evoluzionistico, è molto più probabile che la mente si sia formata per capire il mondo esterno. Pertanto, il suo studio non può che ricorrere all’introspezione da ridurre a meccanismi elettrochimici, secondo un procedimento da condividere tra i dati psicologici e la metodologia delle neuroscienze (Jack A.I. & Shallice T., 2001). Un eventuale controllo evolutivo della mente, con lo “sfondamento della soglia dell’autocoscienza” renderebbe “le basi naturali della nostra esistenza” un prodotto culturale (Schiavone V., 2007).
Inizialmente a fondamento della cultura era la memoria, in seguito con la pittura rupestre prima, la scrittura poi, i ricordi sono stati via via soppiantati da sovrastrutture di supporti mnemonici esterni. Al momento attuale, la nostra cultura è interamente edificata all’esterno della nostra mente, e di qualsiasi immaginazione. L’elaborazione esterna della memoria, in controtendenza a qualsiasi mnemotecnica interiorizzata, ne ha eluso la transitorietà, consentito l’addizionabilità, migliorato l’efficienza della trasmissione.
Paul Ricoeur sostiene che le risposte fornite dai filosofi. circa l’essenza della temporalità, siano aporie. In quel classico paradigma letterario de “À la recherche du temps perdu” (1913-1927), Marcel Proust (1871-1922) ha concentrato ambiguità, imprevedibilità, varietà di intensità dei ricordi (Poggi S., 1997). Nel 17° capitolo di  “Padri e figli” (1862), ritroviamo un’attenta quanto profonda considerazione di Ivan S. Turgenev (1818-18883): “… a volte vola come un uccello, a volte striscia come un verme; ma l’uomo sta particolarmente bene quando non nota nemmeno se il tempo passa in fretta o lentamente”.
Parafrasando Qoèlet, “c’è un tempo…” per gli affetti, soggettivo, e uno per la razionalità, autocosciente. Nel loro fluire convogliamo identità e cambiamenti, avvenimenti e impressioni, causalità e sincronicità, realtà falsate e verità indicibili.
Giuseppe M. S. IERACE

 

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