Centaurismo – dai miti greci di Eros alla caccia selvaggia di Nastagio degli Onesti – una misura dell’anima

Tra il modo d’essere della femmina e il modo d’essere del maschio esisterebbe un’antinomia strutturale, forse insolubile, che si esprimerebbe con ingenua spontaneità sin dall’infanzia.

“Nella donna, il gioco ripete l’essere. – sintetizza Luigi Zoja in “Centauri. Mito e violenza maschile” (Laterza, Bari 2010) – Nel maschio, l’essere ripete il gioco”. Il bambino che maneggia delle armi giocattolo, ontogeneticamente, ripercorre la memoria della specie, e filogeneticamente, la preistoria degli ominidi, la caccia, la guerra. In uno scritto del 1916, “Fragment gegen das Männergeschlecht“, Franz Werfel intravede per la bambina una continuità di vita: la bambola le farebbe sperimentare una premonizione, qualcosa che potrebbe avverarsi di lì a poco, un impegno nella cura della prole; l’immagine ludica maschile invece è meno preparatoria, sembra più un’invenzione, quasi un esorcismo. Per emanciparsi dagli istinti, gli uomini avrebbero sviluppato cultura e società, affermando la superiorità del patriarcato, mentre le donne sarebbero state, forse tacitamente consenzienti, consapevoli di una loro maggiore prossimità ai dettami della natura.

La lotta tra i sessi si sarà potuta esplicare nell’esigenza maschile di annientare la parte femminile che ogni individuo ospita dentro di sé, cosicché, nello stabilire legami di gruppo, avrebbe potuto prendere il sopravvento la necessità di possedere le femmine in comune, con la violenza. Le tradizioni maschili hanno inquadrato le donne nelle proprietà inviolabili, per cui una volta abusate perdono valore, in quanto ciò che è incrinato non può più rispecchiare la perfezione della sua funzione originaria.

Crisi di virilità provengono da problemi d’identità della psicopatologia individuale e fanno dell’aggressione un comportamento sessuale quasi obbligato, amplificato dal gruppo. Una maggiore regressione, inconsciamente, riconduce la strategia maschile alla stessa stregua della marchiatura del territorio ed alla peculiarità biologica della massima diffusione dei propri geni. Questa fondamentale proto-psicologia, nel singolo seduttore, si esalta con il collezionismo delle conquiste, nei non competitori, che hanno rinunciato alla lotta fratricida, nel trionfo collettivo sulla vittima del branco.

L’influenza dell’ambiente è minima su queste che sembrano autonome immagini originarie dell’inconscio collettivo. “Il centauro è un archetipo: modello potenziale lontano, ma più o meno profondamente presente nella psiche maschile, che in determinate circostanze storiche e culturali si può riattivare”. A questa conclusione giungono sia Luigi Zoja (“Centauri. Mito e violenza maschile“, 2010) che Renos K. Papadopoulos (“Destructiveness, atrocities and healing: epistemological and clinical reflections“, 1998), estendendo alla relazione sessuale il concetto dell’aggressività quale elemento fondatore del comportamento umano. Un’idea proveniente dalla riflessione psicoanalitica di Wolfgang Giegerich, dagli studi antropologici di René Girard, e dalla ricerca sui miti e i culti della Grecia classica di Walter Burkert. Meno di recente, Raymond Arthur Dart ha supposto che l’homo sapiens fosse il risultato dell’evoluzione di primati particolarmente aggressivi e questa sua teoria della “scimmia killer” è stata in seguito ripresa da Robert Ardrey nell’ipotesi evolutiva della caccia. Lo stesso Freud di Totem und Tabu (1912-3) poneva all’origine della struttura sociale un parricidio, laddove la Bibbia annovera le ben note rivalità fra fratelli. L’eventualità dell’aggressione è allora insita nella natura umana? Caino lo dimostrerebbe quale espressività congenita?

“Pene maggiori avrò,/ sospinta nel letto di un greco…/ maledetta sia quella notte e quel destino” canta il Coro de Le Troiane di Euripide(202-204), nella consapevolezza rassegnata di un’immane, incombente tragedia, che include un obbligo sessuale. E solo allorquando l’anonimo oltraggio collettivo si tramuta in disagio individuale sembra avviarsi ad un compromesso sopportabile. Con l’arcaico rito di sottomissione, la vittima si affranca dall’esercizio della prostituzione indiscriminata per essere acquisita nel seno della gerarchia patriarcale. E’, in fondo, ciò che rammentano le usanze di rapimento della novella sposa, o il costume della dote maschile, intesa quale indennizzo per la famiglia a cui viene sottratta la proprietà della figlia. Una prevaricazione, accettata dal contratto sociale, che affonda le sue radici nella leggenda delle Sabine, spose e madri per i romani e sorelle e figlie per le loro famiglie di provenienza, o nel mito di Persefone che alterna una convivenza “sottoterra” con il temibile rapitore ad una “superiore” con l’amorevole madre divina.

In un epitalamio attribuito a Saffo viene deplorata la definitiva perdita della condizione adolescenziale. Ma, precisa Claude Calame, in “I Greci e l’Eros. Simboli, pratiche e luoghi” (Laterza, Bari 2010), “più che la perdita della verginità, certamente lamentata nel rito matrimoniale arcaico, il paragone tragico fra la morte della fanciulla e le nozze nell’Ade tende a mettere in luce la violenza inerente al passaggio verso la maturità femminile e alla sottomissione ad un nuovo padrone“.

Plutarco (Mulierum virtutes 249bc) riferisce un aneddoto che attribuisce alle giovinette di Mileto un “turbamento dello spirito”, tanto avvertito da essere convogliato in impulsivo desiderio suicidario, tale da spingerle a procurarsi la morte mediante impiccagione. La letteratura classica offre tutto un catalogo di tragici sacrifici prematrimoniali di vergini, poiché il destino delle ragazze che non convolano a giuste nozze diventa paradigma della promessa non mantenuta. In ogni caso, per il tramite sacrificale, reale o metaforico, è sempre una transizione che si compie, verso l’età adulta o verso l’Ade.

Solo le seconde nozze di Elena si dimostrano funeste per l’intera famiglia dello sposo, facendo prevalere, a Troia, sull’Eros dell’infatuazione l’Erinni della legittimità.

Nell’Ifigenia in Aulide, Euripide mette in scena il pretesto del migliore dei partiti nell’intento di nascondere la ragion di stato dietro una misericordiosa menzogna. La polis prevale sull’oikos, ma la metafora della procedura del rito sacrificale rende contestabile la cerimonia medesima dell’istituto matrimoniale.

Nell’Antigone di Sofocle, il rito mortuario coinvolge lo sposo Emone, quasi anticipando le vicende shakespeariane degli amanti di Verona. E l’equazione sepolcro=camera nuziale avviluppa sacrificio e suicidio quali modalità violente di nozze funeste. La transizione matrimoniale, almeno nei suoi risvolti più rischiosi, verrebbe interpretata come un’eco metaforica di un’altra transizione, quella definitiva, tombale.

Un epigramma attribuito a Saffo conferma questo rito funebre all’origine del sacrificio della chioma, celebrato quale addio al nubilato. Mentre, la complementarietà del matrimonio con il rito sacrificale, prospettata da Sofocle nelle Trachinie, sembrerebbe essere allusiva di un’iniziazione tutta al femminile.

Eschilo ha fatto delle Supplici la tragedia del punto di vista femminile circa il giogo matrimoniale e della resistenza ad ogni brutale costrizione. Le Danaidi intendono sfuggire alla bia (violenza) ed alla Hybris (dismisura), ma soprattutto ad una distruttiva comunione con la sventura. Fa loro da contraltare il coro delle serventi che intona l’inno alla “dea che ordisce astute trame” e che si accompagna al desiderio (Pothos) ed alla persuasione (Peithò) “ammaliatrice”. La maturità sessuale della donna “in età da marito” non può sfuggire al dominio di Afrodite, per quanto contestabile si possa considerare, soprattutto per quella potenzialità procreatrice riformulata a conclusione della trilogia sofoclea (della quale sono però andati perduti Gli egizi e Le Danaidi, nonché il dramma satiresco Amimone). Il carattere endogamo del contesto suggerirebbe che il timore per i figli di Egitto, nipoti di Danao, sia da ricondurre alla consuetudine ateniese dell’epiklerate, la regola che assegna la figlia orfana all’asse ereditario dell’oikos, rendendola pertanto rivendicabile in epidikasia dai parenti prossimi (ankhisteis). Altrimenti è il signore del casato (kurios) a concedere la mano della nubenda, in un atto di ekdosis, preceduto da una specie di fideiussione (engue). La sottomissione è molteplice, comunque, per le rifugiate ad Argo, in quanto naturalmente soggette all’Eros e alla volontà del padrone di casa, e pure alla coabitazione forzata e all’unione sessuale con il parente prossimo.

La costrizione simbolizzata dall’inseguimento e dal rapimento, nella pratica sociale, si trasforma in un addomesticamento culturale e nell’accettazione arrendevole, altrimenti è costretto a sfociare nel delirio. Nelle Troiane di Euripide, Cassandra, in stato di possessione dionisiaca, dà sfogo alla sua follia amorosa nella parodia dell’imeneo che, con solipsismo chiaroveggente, in seno alle nozze funeste, intravede la generale rovina. Nel tempio di Apollo, da poco violato da Aiace Oileo, la duplice invocazione ad Imeneo e ad Ecate sottolinea il contrasto tra la sacralità rituale stravolta nel suo senso primitivo e il contesto di una dolorosa situazione reale. “Giacché tu, madre, fra lacrime e gemiti/ il padre morto e la cara patria/ continui a piangere,/ io allora sulle mie nozze/ accendo la luce del fuoco/ per lo splendore, per il bagliore,/ e consacro a te, o Imeneo,/ a te consacro, o Ecate, questa luce/ per le nozze verginali/ come vuole il rito” (315-324).

L’affinità tra follia, Afrodite e Persefone trova eco nel vanto che, nell’Antigone Sofoclea, il coro dei vecchi tebani eleva all’invincibile potere del Desiderio: “non dio immortale,/ non essere umano, creatura d’un giorno,/ fuggire ti può./ E delira chi ti possiede./ Tu anche il cuore dei giusti/ a ingiustizia, a distruzione/ travii;/ tu anche questa discordia/ fra consanguinei hai acceso” (786-794). Indipendentemente dall’esito tragico, i coreuti inscrivono tra le vetuste thèmistes (leggi) dell’universo la sola immancabile vittoria di Eros.

Le vittime di Afrodite sono possedute come delle baccanti: Semele concepisce addirittura il dio dell’estasi. Fedra, da donna sposata, vorrebbe inoltrarsi nei boschi a cacciare, mentre, in questa inversione dei ruoli, Ippolito venera Artemide quasi fosse una fanciulla. Nell’innamoramento c’è un aspetto dionisiaco, che ammalia e sottomette a quanto di distruttivo contiene l’immenso potere dell’Eros. L’Ippolito di Euripide celebra l’istituzione di quel rito prematrimoniale di consacrazione della chioma che sancisce il passaggio delle fanciulle dalla giurisdizione della Kourothrophos, figlia di Leto, a quella di Cipride, nata tra le spume delle onde. Passaggio al quale, per altro, Ippolito invano aveva opposto strenua resistenza. Del resto, il rifiuto della sessualità, intesa nella sua funzione riproduttiva, risulta intollerabile alla stessa esistenza sulla terra ed offende una ineludibile norma da rispettare.

Amore, sacralità e follia si mescolano  nella Medea di Euripide, in cui le coreute si appellano al ritegno ed alla “misura” della divinità, invitandola ad una opportuna correzione morale. La violenza priva del piacere, il turbamento del talamo precipita nella disperazione, l’estraneità dell’alcova fa perdere il senso del focolare.

Come effetto di “dismisura” ogni eccesso deve affrontare un destino tragico. Trincerandosi dietro l’immunità procurata dalla consacrazione della sua tragedia ad una divinità, Dioniso, Euripide si azzarda a muovere una critica stringente ad un’altra divinità, la Cipride. Nel corso della rappresentazione rituale in maschera, mette in scena la concezione arcaica classica di una condizione in cui il desiderio può farsi delirio e l’innamoramento, con il senno, far perdere la vita.

Il trionfo di tanta ambiguità viene confermato da Plutarco (Amatorius 769cd), quando ammette come “la natura, dotando la donna del fascino dello sguardo, della dolcezza persuasiva della voce e dell’attrattiva della bellezza fisica, se fornisce grandi mezzi a colei che è dissoluta per sedurre i suoi amanti e trascinarli alla voluttà, ne dona anche a colei che è saggia, per acquistare l’amicizia e l’affetto del compagno”.

La reversibilità dello sguardo amoroso e la reciprocità del sentimento provato all’unisono sarebbero il giusto coronamento dell’infatuazione dei sensi. Ma la vicenda della vergine Io, che infiamma di desiderio (hìmeros) Zeus, venendo a sua volta perseguitata dal pungiglione del tafano, conferma lo squilibrio insito nel dominio di Eros, insieme malia e ossessione, tormento ed estasi.

“Potrei dire che in principio venne alla città d’Ilio/ una sensazione di sereno senza vento,/ un gentile ornamento di ricchezza,/ un dolce dardo degli occhi,/ un fiore d’amore che pungeva il cuore./ Ma poi, cambiando all’improvviso, portò a termine/ un amaro compimento delle nozze,/ avventandosi contro i Priamidi,/ funesta compagna e funesta abitante/ inviata da Zeus protettore dell’ospite,/un’Erinni che causa pianto alle spose” (Eschilo, Agamennone,  737-748).

Nelle donne il rifiuto della sessualità si esprime in vari modi, che possono essere profondamente psicosomatici, con la sterilità, bloccando la regolarità mensile, oltre che più semplicemente respingendo le profferte amorose.

Il non nascere – dice Andromaca rivolgendosi ad Ecuba, nelle Troiane di Euripide (traduzione di Ester Cerbo) – è uguale al morire, ma è meglio morire che vivere nel dolore. Chi è morto nulla soffre, – e forse allude al recente sacrificio di Polissena –  in quanto non percepisce più i suoi mali. Chi invece è stato felice e poi piomba nella sventura, nel suo animo avverte la mancanza della precedente prosperità. Costei, proprio come non avesse visto la luce, è morta e nulla sa dei suoi mali. Io invece, avendo ottenuto la buona fama a cui miravo, di più ho mancato la buona sorte. E infatti le cose sagge che sono state trovate per le donne, in queste io mi impegnavo nella casa di Ettore. Per prima cosa, mentre, ci sia o non ci sia reale motivo di biasimo per le donne, già di per sé questo comporta una cattiva fama, se una donna esce di casa – e qui si richiama la contestazione a questo principio da parte di Medea -. Dentro le stanze non lasciavo penetrare le forbite chiacchiere delle donne, e mi accontentavo di avere il mio personale senno come buon maestro – il confronto è con il personaggio di Fedra nell’Ippolito -. Il silenzio della lingua e lo sguardo calmo offrivo allo sposo; ben conoscevo le cose in cui dovevo vincere il mio sposo e quelle in cui lasciare a lui la vittoria – il rimando va alla Clitemnestra dell’Agamennone di Eschilo, rinforzato da Euripide nell’altra tragedia che vede protagonista direttamente Andromaca: non si fa a gara col consorte -. E in conseguenza di ciò la fama è giunta all’esercito acheo e mi ha rovinata – il comportamento ossequioso non la premia, ma le procura un danno, quanto dannosa si rivela la bellezza per Elena nell’altra omonima opera euripidea e per Deianira ne Le Trachinie di Sofocle, quasi per un’ineffettualità dei valori -. Infatti, dopo che fui catturata, il figlio di Achille volle prendere me come sua sposa; e dunque sarò schiava in casa di assassini. E se respingendo il caro capo di Ettore aprirò il mio cuore all’attuale sposo, spregevole apparirò a colui che è morto. Se invece detesterò l’altro sarò odiata da chi ha su di me il potere. Eppure dicono – nell’Ippolito Fedra analogamente si esprime riferendosi all’adulterio – che una sola notte allenta l’ostilità di una donna per il letto di un uomo” (636-666).

Le dinamiche della resa sembrano decrescere in parallelo alla possessione psichica collettiva che, da psicosi di massa si diffonde in epidemia infettiva, fino a  cedere alle varie forme di prevaricazione individuale le quali, oltre il corpo, colpiscono la stessa identità femminile.

All’aggressione risponde il disagio, la malinconia, il senso di colpa, la vergogna, quasi a restaurare un rapporto e dare senso sia al ruolo sia al gesto. Pur di sopravvivere, la razionalità si lascia forzare. Eppure, la confusione tra eros e thànatos accentua l’ambivalenza dell’aggressore che, nel dare la morte, compie l’atto con cui normalmente si concepisce la vita.

L’orgia selvaggia è dapprima una selvaggia caccia.

“In qualsivoglia tipo di rito, le vittime migliori sono di genere femminile” scriveva Servio nel suo Commento all’Eneide (VIII, 641). Dopo l’idealizzazione in ciò che potrebbe configurarsi come il prototipo della prostituzione sacra, l’infliggere tormenti, lo stupro, l’omicidio e il cannibalismo sarebbero finalizzati alla sottrazione dell’anima animale di una giovane donna, facile preda dalla carne tenera e fresca.

Con finalità di carattere “magico”, gli stupri erano praticati in tempi remoti ed in particolari contesti culturali ad opera di organizzazioni iniziatiche maschili di carattere teriomorfo (Männerbund). E residui di tali usanze si rintracciano nel patrimonio mitico e fiabesco. Boccaccio ce ne offre un esempio nell’ottava novella della quinta giornata del suo Decameron, successivamente illustrata dal Botticelli in quattro tavole di cui il Magnifico fece dono in occasione delle nozze di Giannozzo Pucci con Lucrezia Bini.

Nastagio degli Onesti, sofferente per un amore non corrisposto con una de’ Traversari, si ritira in solitudine nella pineta di Classe, vicino Ravenna, dove assiste all’inseguimento di una fanciulla ignuda da parte di una coppia di mastini, aizzata da un cavaliere misterioso, il quale si presenta come un fantasma, al pari della giovane. La scena che ripropongono di continuo è il giusto contrappasso del suicidio a cui lui fu costretto dall’alterigia della donna adesso inseguita a causa della mancata compassione di un tempo. Il suo nome, Guido degli Anastagi, è quasi un anagramma dell’atterrito spettatore, con cui facilmente potrebbe identificarsi. Mostrando di poi quella scena alla propria amata, Nastagio ne vince definitivamente le ritrosie. Cosicché un’espiazione si pone alla base del vincolo  matrimoniale.

Per fornire un metro che rapporti l’importanza della vergogna e dell’umiliazione con gli alti livelli di diseguaglianza e di violenza, Richard Wilkinson e Kate Pickett, in “La misura dell’anima” (Feltrinelli, Milano 2009), citano lo studioso di geografia della salute mentale Danny Dorling: “Non esiste un livello naturale di omicidi… i tassi di omicidio in una data area aumentano,… se le persone sentono di non valere nulla. Allora ci sono più risse, più alterchi, più tafferugli…”.

Più che attraverso motivazioni coscienti, la violenza di gruppo si intuisce con quelle inconsce, soprattutto quando vengono a cadere le tenui difese delle convenzioni sociali e riemerge il saccheggio; e, con le suppellettili, anche le donne fanno parte del bottino. Il contesto storico si limita a fare da contenitore, ma non ci aiuta a capire il contenuto. Compierlo in gruppo elimina i sensi di colpa, rientrando in una sindrome collettiva, in cui la psicopatologia non configura l’individuo, bensì le circostanze, quella proverbiale “occasione” che, come fa l’uomo ladro, a seconda, lo trasforma in stupratore.

Il connubio sessualità e violenza, ebbrezza ed orgia, estasi e tormento, nel mondo classico, veniva rappresentato dal mito dei centauri. L’uomo si sarebbe affrancato da tale precaria doppiezza nelle convenzioni sociali, ma forse mai definitivamente, tant’è che l’esigenza maschile, mai del tutto sopita, di forza e dominio servirebbe proprio a negare tanta fragilità.

Nella scala evolutiva, i maschi competono e lottano tra loro per l’accoppiamento, mentre le femmine si sono specializzate nelle cure parentali, completando il ruolo di compagne con quello di madri, nel prolungamento della funzione nutritiva e in un armonioso equilibrio tra identità femminile e identità materna. La responsabilità paterna è un progetto nato di recente, con la capacità d’astrazione, nella trasformazione civile dell’organizzazione sociale. Poiché il comportamento paterno non proviene da un’istintualità naturale, bensì dall’esercizio del suo controllo, con il risultato castratorio della funzione limitante del patriarcato, almeno nella cultura occidentale, e sia pure negli interessi superiori della famiglia. L’identità maschile può così poggiarsi su due modalità niente affatto integrate, quella di un’umanità responsabile e genitoriale e quella dell’animalità pre-paterna ancora competitiva.

Anche il mito degli esseri per metà uomini e per metà animali pare alludere all’instabilità della condizione civile del maschio, in quel suo intrecciarsi con l’istinto bestiale.

Nel dividere la parola “centauro” in kentèo e tàuros, pungolo tori, l’etimologia ci fornirebbe qualche delucidazione, indicandoli come un popolo nomade di mandriani della Tessaglia. L’altra ipotesi suddivide gènos, generazione, e sthaura, forza, ossia razza d’uomini robusti. In sanscrito, arvan vuol dire cavallo, e i gandharvas vedici sono delle divinità ippocefale che irrompono nelle bufere con lampi e tuoni. Ma se si considera il “centaurismo” come una regressione della mascolinità al minaccioso branco animale e alla forza bruta fornita dal numero, diviene più congeniale la derivazione dal termine latino centuria.

Il progenitore dei centauri sarebbe stato l’empio Issione, che uccise in un tranello Deioneo, il padre della sua amata Dia. Dopo che Zeus l’ebbe purificato, si invaghì della di lui consorte, Era, ma il padre degli dei fece in modo che si accoppiasse con una nuvola dalle sembianze della dea. Da quel connubio nacque Centauro, concepito pertanto senza chàris, senza cioè il contributo della grazia femminile e senza neppure una vera relazione amorosa. Questo ci raccontano sia Pindaro, nelle Pitiche, che Apollodoro (Biblioteca, epitome 1, 20). Il re dei Lapiti, anch’essi abitanti della Tessaglia, era Piritoo, figlio illegittimo di Dia, la moglie di Issione, e di Zeus (Iliade, XIV, 317-8). Al momento di convolare a giuste nozze con Ippodamia, Piritoo invitò i vicini centauri, fra cui Eurito, il quale, dopo aver generosamente brindato, cominciò a fare pesanti apprezzamenti alla sposa, fin quando l’ebbrezza che aveva innescato il raptus erotico non si trasformò in sanguinosa battaglia. La centauromachia ebbe termine nel momento in cui, in soccorso dei lapiti, intervenne Teseo, assurto ad emblema di norma contro ogni significativo simbolo degli istinti selvaggi, non solo di quelli maschili, rappresentati dal Minotauro e dal toro di Maratona, ma anche di quelli femminili, i cui eccessi vennero repressi nell’Amazzonomachia. Fondatore della democrazia ateniese, Teseo incarnò appunto la giustizia del patriarcato.

In parte alle amazzoni, in parte alle naiadi somigliavano le centauresse, nate dalle cavalle di Tessaglia e dal figlio di Issione, a seconda se osservate nelle sembianze ippomorfe oppure nella leggiadria femminile. E Ovidio descrisse la bellezza di Ilonome mentre si lavava i capelli alle fonti dei boschi. In seno alla ferinità emerge il fascino femminile, come pure la saggezza di Chirone, medico sapiente e pedagogo, o la generosità di Folo, anfitrione di Eracle, a cui però, imprudentemente, offre del buon vino. L’ebbrezza trasforma il figlio dell’imposizione di Zeus all’assoggettata Alcmena, nell’assassino del suo ospite. Per l’eroe, prototipo di un’umanità agli albori della civiltà, il confronto con l’elemento istintuale viene impedito dall’esigenza di reprimerlo, soffocandone giocoforza contemporaneamente gli aspetti creativi.

I centauri impersonano il male estremo, forse quello dell’antitesi al divino, dell’estasi dell’ebbrezza che induce alla violenza ed allo stupro, comportamenti che non ripercorrono solo fasi di selvaggia animalità, ma spesso coinvolgono condotte umane.

Giuseppe M.S. IERACE

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