Arguzia, schadenfreude, sarcasmo, riso affiliativo od ostracizzante, playface, sbadiglio, immedesimazione, scimmiottamento, imitazione – Lingua madre, problema della corrispondenza, sincronizzazione, chameleon effect, contagio emotivo, Einfühlung, tending instinct nell’Età dell’Empatia

Il riso è innato e condiviso con le scimmie antropomorfe, per cui il senso dell’umorismo potrebbe essere considerato alla stregua di una raffinata evoluzione dell’atteggiamento giocoso dei primati e il cosiddetto “effetto sorpresa”, che coincide con la battuta finale, o il rovesciamento di significati nell’epilogo delle barzellette, non sarebbe altro che una cervellotica riproposta del gioco infantile del “bu bu settete”.

Allorquando diverse persone scoppiano a ridere all’unisono, rinforzano i loro legami di cameratismo e solidarietà, trasmettendo e condividendo emozioni positive. Nel riso, però,  si può celare quella componente aggressiva e ostile della schadenfreude, con il semplicistico meccanismo per cui, con lo scherno, si proiettano su estranei sentimenti negativi, razzisti, di disprezzo.

“La gloria repentina è la passione che produce le smorfie chiamate riso e nasce sia quando si compie all’improvviso qualche azione che ci fa piacere, sia dal venire a conoscenza di qualche deformità in un’altra persona al cui confronto ci rallegriamo subitaneamente di noi stessi” (Thomas Hobbes: “Leviathan”, 1651).

Richard D. Alexander (1986) sostiene che l’umorismo possa essere interpretato come un’attività sociale finalizzata a influenzare positivamente lo stato mentale dei soggetti umoristi, ma negativamente gli oggetti vittime del sarcasmo. Tradizionalmente si distinguono due differenti classi di humor, quello “affiliativo”, incentrato sulla creazione e il mantenimento della coesione di gruppo, in cui l’identificazione di una vittima può essere incidentale, l’altro palesemente “ostracizzante”, in cui la scelta della vittima dipende quasi esclusivamente dalla maggioranza dell’uditorio.

Ad anticipare (1938) questa dicotomia sarebbe stato Stephen Butler Leacock  (1869-1944), il quale, parafrasando la definizione che di lui diede lo storico delle idee Carl Berger, per un quarto era un politologo ed economista, per metà un polemista e per intero un umorista. L’essenza della comicità, per l’autore di “Literary Lapses”  (1910), riposa sostanzialmente sull’umano candore, ma nella sua complessità, si avvale di svariate forme espressive: arguzie, iperboli, giochi di parole, strafalcioni, errori grossolani, battute salaci, crasse o licenziose… L’humor consiste quindi in un’ingenua contemplazione delle incongruità della vita e nell’espressione artistica che ne deriva. Leacock scrisse però di essere tentato di credere che forse la fonte originaria dell’ironia si diparta da due sorgenti distinte, una dal flusso diretto, chiaro, puro, appunto l’humor del candore umano, dell’autoironia e della tolleranza, l’altra dalle acque inquinate dalla derisione e dal sarcasmo. Sbeffeggiando e sogghignando, con risolini sardonici, quest’ultimo irride le umane debolezze, cosicché spesso non si rivela semplicemente volgare e rozzo, ma malizioso, crudele, persino sadico, nell’offendere le proprie vittime.

Perfettamente in linea con il pensiero freudiano, Walter E. O’Connell (1960) tiene separati i due tipi di facezie, associate una all’empatia, l’altra a ostilità. Nel suo studio rileva come le donne preferiscano il nonsense, mentre gli uomini apprezzino di più uno spirito grintoso e arguto. In determinate condizioni, infatti, a seconda dell’interazione, dell’adattamento, dello stress, o di fattori sessuali, una battuta caustica contribuirebbe a ridurre le tensioni emotive e sociali.

Vera M. Robinson (1977) indica le principali funzioni dell’humor nel cementificare lo stare insieme nella propria cerchia di amicizie e conoscenze, ricavando gratificazioni a spese di estranei. La perspicacia agirebbe da modalità di formazione di una nuova immagine, e influirebbe sulle possibilità di cambiamento sociale. Nella comunità, il ruolo svolto dallo zimbello è stato sempre proprio quello di rinforzo alle norme convenzionali.

Eppure, il primo accenno al sorriso, la primissima “playface”, si scorge tra le carezze materne umane, come delle antropomorfe. Il riso poi si diffonde come lo sbadiglio, a volte è contagioso, nel vero senso del termine. Gli attacchi di riso parossistico comportano perdita del controllo, spasmi respiratori, lacrimazione. Robert Provine (2000) ricorda la malattia degenerativa riscontrata tra i cannibali degli altipiani della Nuova Guinea, il kuru, contraddistinta da un eccesso di riso e scherno, che conduce inevitabilmente all’exitus.

I classici comportamenti sociali che scatenano il riso, tra i primati, come tra i bambini, sono il solletico e il gioco della lotta. Auto-solleticarsi risulta inutile, mentre viene spontaneo rispondere al sorriso altrui, o accodarsi allo sghignazzo generale. Marina Davila Ross e collaboratori (2007) hanno dimostrato l’involontarietà della mimica facciale tra gli oranghi, anche in assenza di solletico, saltelli o giochi di lotta, semplicemente quale riproduzione di un’espressione appena osservata.

Siamo tutti interconnessi sia emotivamente sia corporalmente e ogni cambiamento di umore può venire facilmente mediato dall’intervento dei propri simili.

 

Per “pandiculazione involontaria”si intende lo stiracchiamento caratterizzato dalla breve durata di una serie standard di movimenti a cascata di stiramento di determinati gruppi muscolari, che vanno dall’innalzamento delle braccia, con rovesciamento all’indietro del capo, e dall’allungamento delle gambe a un ciclo respiratorio parossistico.

La contagiosità degli sbadigli si verifica anche tra specie diverse, la qual cosa riflette una sorta di inconscio sincronismo connaturato con la capacità di ricostruire inconsciamente l’altrui sentire. Poiché costituiscono un riflesso involontario, gli sbadigli non si imitano, ma rientrano ugualmente a pieno titolo nell’empatia e nella sincronizzazione corporea.

A riprova del “distacco” emotivo e sociale che caratterizza gli autistici, c’è la verifica di una qualche loro immunità o indifferenza verso gli sbadigli (Senju et al. 2007).

Come l’isteria di massa che insorge nel “fuggi fuggi” generale, il coinvolgimento negli spostamenti e nelle migrazioni è una reazione arcaica necessaria alla sopravvivenza del gruppo. Se gli altri si allontanano improvvisamente è possibile che ci sia in giro un predatore e non ci si può permettere il lusso di aspettare di constatarlo di persona. Il contagio degli stati d’animo, come pure dell’appetito, serve a coordinare le attività dei nomadi, come i primati. Non conformarsi produrrebbe un’inevitabile svantaggio. Non essersi nutriti per tempo, in vista di un lungo viaggio. Si tratta di un istinto gregario che non si limita a riflettere la coordinazione di un movimento, perché, al contempo, rinforza i legami sociali.

Che si assuma la prospettiva di un altro, o si allertino altri della situazione di terzi, la coordinazione rappresenta la forma più primitiva di adattamento. E il sincronismo, che mette in corrispondenza il movimento dei corpi, ne costituisce il primo e migliore adeguamento.

Fin dalle prime fasi della vita, i neonati umani e i cuccioli di primati rispondono ai gesti compiuti dagli adulti. Un neonato, dai dodici ai ventun giorni di vita, è già in grado di imitare almeno quattro gesti visti eseguire agli adulti: muovere le dita, mostrare la lingua, spingere in avanti le labbra, aprire la bocca (Meltzoff e Decety, 2003). Tra la percezione del gesto e la sua riproduzione esiste un legame innato, mediato dai cosiddetti neuroni “specchio”. Perché, sorprendentemente, i neonati, non solo possiedono l’innata facoltà  di imitare gli altri, ma riescono a riconoscere quando gli altri li imitano. E questa abilità nell’imitazione reciproca si porrebbe alla base dello sviluppo stesso della successiva capacità di comunicare.

“Gli esseri umani non solo sanno imitare, ma si accorgono di essere imitati dagli altri. – ammettono Andrew N. Meltzoff e Jean Decety nel loro studio: “What Imitation Tells Us about Social Cognition: A Rapprochement Between developmental Psychology and Cognitive Neuroscience” (2003) – La reciproca imitazione è parte essenziale dello scambio della comunicazione. Un ascoltatore spesso dimostra la sua attenzione verso il suo interlocutore adottandone l’atteggiamento. Se chi parla aggrotta la fronte, così fa l’ascoltatore; se l’oratore si frega il mento, così farà chi ascolta. I genitori usano, inconsciamente, la stessa tecnica per stabilire rapporti interpersonali con i loro neonati preverbali”.

Fin dalla nascita, i neonati prestano la loro attenzione alla mimica dei volti familiari, affermano Patricia K. Kuhl e Andrew N. Meltzoff (1988), e, già a quattro mesi, abbinano l’immagine delle labbra in movimento ai suoni uditi. Le vocalizzazioni del bambino dimostrano tutta la sua attenzione all’espressione facciale materna che accompagna il maternese (Dean Falk : “Lingua madre. Cure materne e origini del linguaggio”, trad. it. Paolo A. Dossena, Bollati Boringhieri, Torino 2011). E la conversazione tra una madre e il suo bambino si compone dello scambio di questi comportamenti co-regolati (Cowley et al. 2004).

Un cucciolo di macaco guardando aprire e chiudere la bocca comincia a imitarne la mimica fino a schioccare le labbra per segnalare, con questo gesto tipico della sua specie, la disponibilità allo scambio di intenzioni amichevoli. Pier Francesco Ferrari (2003) suggerisce che a svolgere un ruolo nell’imitazione dei movimenti della bocca e della mimica facciale siano dei neuroni specchio in risonanza neurale con quelli corrispondenti della corteccia che eseguono i movimenti delle parti del corpo dell’altro individuo.

Il “problema della corrispondenza” è stato sollevato pure dalle osservazioni di imitazioni solitamente effettuate da altre specie, quali delfini e pappagalli cinerini. Louis H. Herman (2002) ha descritto la maniera di “scimmiottare” gli umani da parte di delfini non specificamente addestrati a farlo, i quali facevano corrispondere ai movimenti delle braccia quelli delle loro pinne pettorali e alle gambe la coda. Bruce R. Moore (1992) si è occupato di un pappagallo cinerino, particolarmente smorfioso, che nel dire “ciao” salutava con la zampetta o agitando l’ala. Frans B. M. de Waal, in “L’Età dell’Empatia” (trad. it. Marco Pappalardo, Garzanti, Milano 2011), racconta del cane di un suo amico che strascicava la propria zampa sana, corrispondente però all’arto che si era fratturato il padrone, rispettando così alla lettera quanto ebbe a scrivere Plutarco nei “Moralia”: “Calza a proposito quello che dicono gli amanti dei proverbi: chi va con lo zoppo impara a zoppicare”.

Anche il verbo “scimmiottare” lascia ben intendere quale sia il maggior talento delle antropomorfe. E’ qualcosa che fanno spontaneamente, senza secondi fini, non per ottenere una ricompensa e forse neppure per prendersi gioco del prossimo. La cosiddetta “vera” imitazione implica il riconoscimento degli obiettivi dell’altro, oltre che delle tecniche adottate (Whiten e Ham, 1992). Edward Lee Thorndike (1874-1949), in “Animal intelligence: An experimental study of the associative process in animals” (1898), aveva coniato la definizione classica di imparare un atto nel vederlo fare, che lascia maggior spazio a un continuum evolutivo e neurale delle varie forme di imitazione. L’imitazione richiede immedesimazione, vedere concretamente qualcun altro fare qualcosa e tradurre questa osservazione in abilità cognitiva propria. La relazione psicosomatica in partenza ritorna come somato-psichica. Il corpo comunica a un altro corpo, stimolando quelle sensazioni interiori con cui comprendere i gesti e instaurare rapporti sociali. Cosicché i processi mentali passano attraverso le rappresentazioni neurali delle relative sensazioni propriocettive e si ripropongono nell’altro individuo in maniera speculare (Proffitt 2006).

Curiosamente, a volte, “scimmiottare” può tornare utile ad alcuni umani, come dimostra un esperimento di psicosociologia, condotto “a tavola” da van Baaren et al. (2003). I camerieri, incaricati di ripetere “a pappagallo” le ordinazioni dei clienti, ricevono più mance, quasi che tale voluta ecolalia gratificasse questi ultimi più di ogni altra esclamazione spontanea.

 

Le percezioni sono influenzate dalle condizioni fisiche, di stanchezza, di fame, di eccitazione… Involontariamente partecipiamo alle emozioni degli altri, per il riverbero che i loro movimenti di esse ci fanno avvertire. Volontariamente si riproduce ciò che si vede, ma si stabiliscono anche corrispondenze corporee inconsce, quali cortocircuiti all’imitazione. Del resto, non ogni tipo di emulazione richiede un’effettiva comprensione degli obiettivi, dei metodi e delle ricompense altrui. L’imitazione motoria inconscia sorpassa il livello cognitivo di tutte queste valutazioni, raggiungendo rapidamente una forma di apprendimento determinata essenzialmente da una sorta di intimità corporea con il modello. Frans B. M. de Waal, in “La scimmia e l’arte del sushi” (trad. it. E. Cenami Spada e S. Velotti), Garzanti, Milano 2002), pone l’immedesimazione e lo stringere legami alla base dell’apprendimento osservativo, definendo così il concetto di “Bonding, and Identification, based Observational Learning”.

L’immedesimazione rappresenta un momento di profonda emozione, e, viceversa, quando si prova un forte sentimento inconsapevolmente imitiamo l’altro, per rafforzare ancor di più il legame che ci lega. Possiedono questa valenza i giochi infantili di sincronizzazione o il ballo di coppia. Ognuno, con i propri gesti, guida, anticipa, e completa le mosse del partner. L’effetto della danza di corteggiamento, quello di cibarsi, ridere o semplicemente stare insieme, significa sostanzialmente comunicare di essere in sintonia e questo messaggio in sincrono è la formula più antica di stringere legami.

L’arcaico istinto gregario che fa scappare tutti nella stessa direzione si è andato evolvendo nell’assimilazione cosciente di un gesto a cui si è prestata particolare attenzione. Sincronismo e imitazione possono scattare automaticamente quasi come nei camaleonti che cambiano colore a seconda dell’ambiente al quale devono adattarsi. Chartrand e Bargh (1999), che chiamano “chameleon effect” l’unintentional mirroring, lo descrivono quale  naturale tendenza a imitare inflessioni della voce ed espressioni fisiche di una persona per cui si prova simpatia. Difatti, gli individui che vanno d’accordo e si trovano tra loro in sintonia, inconsapevolmente, acquistano una maniera di porgersi che ripropone mimica facciale, gesticolazioni delle mani, posture delle altre parti del corpo e anche accenti dell’eloquio tipici del partner o dell’amico.

“Il modo in cui i nostri corpi – compresa la voce, l’umore, la postura e così via – sono influenzati dai corpi che hanno intorno è uno dei misteri dell’esistenza umana, un mistero che potrebbe celare in sé il collante che tiene insieme intere società. E’ anche uno dei fenomeni più sottovalutati, specialmente da parte di quelle discipline che vedono gli esseri umani come meri esecutori di scelte razionali. Tuttavia, invece di essere individui che in modo indipendente pesano i pro e i contro delle loro azioni, noi occupiamo dei nodi entro una fitta rete che ci connette tutti sia nel corpo sia nella mente” (Frans B. M. de Waal: “L’Età dell’Empatia”, trad. it. Marco Pappalardo, Garzanti, Milano 2011)

All’origine stessa del linguaggio, il baby talk o maternese, di cui parla Dean Falk in “Lingua madre. Cure materne e origini del linguaggio” (trad. it. Paolo A. Dossena, Bollati Boringhieri, Torino 2011), non ci stanno solo suoni verbali, prosodici, per una migliore modulazione del tono di voce, le cui sfumature trasmettono emozioni, ma a essi sono associati delle espressioni facciali, gesticolazioni, carezze, toccatine, spallucce, solletico, risa e tutto ciò che intuitivamente può arricchire la complessità della comunicazione sociale.

 

Non esiste nessuna cultura umana a cui manchi la componente melodica delle ninne nanne e la musica si riconosce presente in tutto il mondo. La musica trascina e influenza l’umore, e il suo ascolto collettivo conduce inesorabilmente alla convergenza emotiva. Tutte le situazioni in cui la musica agisce da sottofondo predispongono a una reazione corporea e viscerale. Sembra che la musica sia composta ed eseguita giusto a questo scopo, parlare cioè direttamente al corpo degli ascoltatori. E ciò vale per qualsiasi tipo di musica, da quella etnica alla classica, dalla melodica al blues, il cui medesimo termine indica in sé uno stato emotivo. Ascoltando musica ci si intristisce, ci si esalta, si sprofonda in un trasporto contemplativo.

I lupi sono soliti ululare in branco; i maschi di scimpanzé producono all’unisono dei suoni simili al verso della civetta con l’intenzione di impressionare i vicini; alle scimmie urlatrici si appioppa il primato dei cori più rumorosi.

I siamanghi della giungla di Sumatra sono grossi gibboni neri che si risvegliano cantando, in cima agli alberi, dei versi gioiosi, melodici, più corposi del cinguettio degli uccelli. La femmina emette suoni di tonalità acuta, mentre il maschio lancia grida laceranti, eppure i loro duetti di coppia migliorano man mano che la loro relazione va avanti, fino a produrre, come hanno asserito Joe Marshall e Jito Sugardjito (1986), “la composizione sonora più complessa emessa da un vertebrato terrestre diverso dall’essere umano”. Il significato di questa canzone selvaggia potrebbe essere un’attestazione della propria presenza, un monito a tenere gli estranei alla larga, ma ancor più una dimostrazione di compattezza, perché dalla qualità del canto gli altri siamanghi sono in grado di dedurre, è il caso di dirlo, l’armonia della coppia, ed eventualmente decidere se proporsi come futuri partner, qualora avvertissero palesi discordanze. Thomas Geissmann e Mathias Orgeldinger (2000) hanno dimostrato come le coppie che passavano più tempo insieme, avessero più possibilità di sincronizzare le loro attività e quindi duettassero meglio, mentre le coppie più giovani, e naturalmente meno affiatate, producessero canzoni più scadenti, con risultati meno attraenti. Convergenze vocali simili avvengono pure tra delfini maschi alleati, per cui più stretto è il loro rapporto maggiormente si assomigliano le vocalizzazioni (Wells 2003).

 

Allo scopo di rafforzare i legami fra madri e figli si sono sviluppati quei meccanismi visivi, vocali e fisici che resero possibile, come scrive Ellen Dissanayake in “Antecedents of the Temporal Arts in Early Mother-Infant Interaction” (2000): “entrare nel mondo temporale e nello stato d’animo l’uno dell’altro”.

Theodor Lipps (1851-1914), il filosofo ammirato da Freud, che associava il riso a malcelati aspetti negativi, aveva adottato la nozione di simpatia estetica (Einfühlung), poi tradotta come empatia, dalla tesi di dottorato sul senso ottico di forma (1873) di Robert Vischer (1847-1933), il quale, a sua volta, l’aveva ereditata dal padre Friedrich Theodor Vischer (1807-1887), che la utilizzava a proposito dell’idealismo in relazione alla forma architettonica. Un altro filosofo tedesco a ricorre a questo termine fu Rudolf Heemann Lotze (1817-1881), l’autore di “Metaphysik” (1841) e dei tre volumi di “Mikrokosmus” (1856-1864). Anche se, ad onor del vero, prima ancora, l’espressione “sich einfühlen” era stata proferita da Johann Gottfried Herder (1744-1803).

“Quando guardo un acrobata sospeso su un filo mi sembra di essere dentro di lui” (1903). In  queste parche parole Lipps era riuscito a sintetizzare il moderno concetto di empatia, inteso come “sentire dentro”, quella tensione per cui condividiamo le emozioni di qualcuno a cui ci siamo sostituiti, entrando nel suo corpo. Questa lunga circonlocuzione la lingua tedesca la rende con una semplice parola: Einfühlung. Lipps rintracciò nel greco classico una formulazione più elegante, che si richiama alla forza irrazionale ed emotiva dominatrice dell’animo umano (pathos), in opposizione al Logos.

Vittorio Gallese (2005) e Matthias Schlo?berger (2005) hanno sottolineato come, nell’accezione del filosofo di Wallhalben, l’Einfühlung (sentire dentro l’altro, intropatia, entropatia) consenta appunto di acquisire conoscenze sull’altro da sé (das andere Ich), o sé estraneo (das fremde Ich). La lingua tedesca, grazie alla sua compassata e mirabile plasticità di suffissi e prefissi, offre l’opportunità di variare tutti questi termini, dosandoli quasi chimicamente “quanto basta”, per cui il nostro semplice “sentire” può trasformarsi in un sentire “dentro”, o “con” (einzufühlen) e quindi soffrire (leiden) insieme, compatire (bemitleiden), fino a passare alla valenza esattamente opposta della schadenfreude (gioia del danno). Einfühlung, in particolare, dà il senso del movimento che si compie per effettuare la proiezione, e dunque evidenzia quel filo diretto che permette di percepire un sentimento non espressamente provato “da” noi, ma di cui avvertiamo il riverbero “dentro”.

L’approccio di Lipps procede dal basso verso l’alto, nel senso “bottom-up”, in contrapposizione alle spiegazioni privilegiate dagli psicologi moderni (top-down), che ridurrebbero l’empatia a questione prettamente cognitiva, e quindi una mera inferenza sui sentimenti altrui, la quale risponde alla domanda che inconsapevolmente ci porremmo circa il nostro sentire, qualora fossimo in quei panni.

Di fronte alla sorda diffidenza di questi “cognitivisti”, Ulf Dimberg ha dimostrato, che non siamo noi eventualmente a decidere se essere empatici o meno, perché “lo siamo e basta”. I soggetti dell’esperimento di Dimberg e collaboratori (2000) mimavano inconsapevolmente le facce, accigliate o felici, subliminalmente rappresentate su di uno schermo con dei flash proiettati in sequenza troppo breve per essere percepiti in maniera cosciente. Stephanie D. Preston e Brent R. Stansfield (2008) hanno verificato come, anche a livello concettuale e semantico, attraverso l’osservazione della mimica, avvenga del tutto spontaneamente un passaggio di informazioni, tanto da riconoscervi le emozioni nascoste.

Il “contagio emotivo”, da Elaine Hatfield, John T. Cacioppo e Richard L. Rapson (1994), era stato definito: “la tendenza a imitare e sincronizzare in modo automatico le espressioni facciali, vocali, posturali e gestuali di un’altra persona e, quindi, a convergere emotivamente”. Lipps si riferiva all’empatia come a un istinto innato. Dal punto di vista evolutivo nasce con le cure parentali dei mammiferi. Le femmine sensibili alla prole avrebbero avuto maggior successo delle altre, più fredde e distaccate, e la pressione selettiva le avrebbe favorite a scapito delle altre, incapaci di reagire istantaneamente ai richiami dei cuccioli e quindi praticamente meno disponibili a propagare i propri geni. Questa linea materna ha lasciato, nelle capacità empatiche degli umani, un’eredità di genere, evidente, fin da prima della socializzazione, nei primi segnali di contagio emotivo, più marcato nelle femmine (Sagi e Hoffman, 1976; Martin e Clark, 1982). A due anni, una bambina si preoccupa per gli stati d’ansia dei conoscenti e questa maggiore propensione all’istinto di cura (tending instinct) le donne continuano a dimostrarla anche da adulte.

Paul MacLean (1913-2007), noto per aver elaborato la teoria del cervello tripartito (archipallium, paleopallium, neopallium), si interessò ai cosiddetti “richiami di separazione” emessi dai piccoli quando perdono il contatto con la propria madre. Secondo il suo modello di struttura dell’encefalo (primitivo, intermedio, superiore, o neocortex), l’evoluzione dell’attaccamento venne conquistata dal cervello emotivo, il cui supporto è situato nel sistema limbico. Prima, si poteva fare affidamento solo e semplicemente su cervelletto e bulbo spinale, che costituiscono il cervello rettiliano, deputato al controllo delle funzioni vitali e degli istinti primari (fame, sete, sonno, sesso). In quel momento, dalla possibilità di provare affetto, piacere e paura, nacquero le relazioni di cura, la vita familiare, l’amicizia. Si incominciò da allora a imbastire tutta la rete dei legami sociali, fino ad arrivare alla contemporanea ricerca della felicità, aspirazione alla virtù, dichiarazione di libertà, uguaglianza e fraternità, che possono impegnare la corteccia degli emisferi cerebrali. Tutti nobili principi che però, dal punto di vista  evolutivo, hanno usufruito della soluzione di più annose questioni di sicurezza, relazioni affettive, approvvigionamento delle risorse alimentari.

Tom Stoppard, l’autore della tragicommedia “Rosencrantz and Guildenstern are dead”(1964), in una sua più recente opera teatrale (“The Coast of Utopia”, 2002), movimenta una conversazione immaginata a tavola tra un critico letterario e Ivan S. Turgenev, lo scrittore di “Padri e Figli” (1862). Al rimprovero del critico: “Non abbiamo ancora risolto il problema di Dio”, il romanziere risponde: “e tu vuoi mangiare!”. Le nostre più nobili aspirazioni hanno l’handicap di mettersi in moto soltanto dopo che siano state appagate le altre. Discutere di filosofia, teologia, psicologia è un lusso che non ci possiamo permettere a stomaco vuoto.

Giuseppe M. S. Ierace

 

 

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