Ambarabaciccìcoccò/ Tre civette sul comò… una fatidica conta per il gioco dell’amore e la sorte dei suoi risultati

 

In francese, Ambarabaciccìcoccò suonerebbe: “Am stram gram,/ pic et pic et colégram/ bour et bour et ratamam/ am stram gram/ Pic!”.

Eeny, meeny, miny, moe…” potrebbero esser stati i primi numeri d’un sistema pastorale pre-celtico di conta delle pecore. Ma non si esclude che gli anglosassoni l’abbiano importato, quale versione burlesca d’una filastrocca infantile indiana, usata nel gioco della carambola: “ubi eni mana bou, baji neki baji thou, elim tilim latim gou“.

Abzählreim corrispondente tedesco: “Ene, mene, miste, es rappelt in der Kiste. Ene, mene, muh, und raus bist du!”.

Giochi infantili?

Strega comanda colore” appartiene allo stesso gruppo di giochi tipo “il lupo mangia-frutta”, eppure “ce l’hai” (in francese chat) e rimpiattino, o nascondino (cache-cache), possiedono l’anomala caratteristica che, pur avendo un maggior controllo del gioco, il prescelto viene impegnato nel ruolo considerato più spiacevole. Il problema psicologico consiste ovviamente nella situazione di isolamento, mentre gli altri si trovano a essere solidali tra loro, mostrando addirittura il coraggio d’avvicinarsi e beffare gli sforzi di chi deve acchiapparli, e che, se meno dotato fisicamente, potrebbe così sentirsi in imbarazzo, e quindi oltre che emarginato, perfino umiliato da quella designazione ricadutagli addosso.

Ambiguità della sorte! La scansione del tempo sequenziale (kronos), ovvero la conta, ricade casualmente su quella che può rivelarsi un’occasione, un’opportunità (kairos), “un tempo nel mezzo”, o di giustizia, di fortuna oppure di disgrazia.

Allitterazioni

Simple Simon Says” richiede della concentrazione per non farsi confondere dal conduttore del gioco, il quale cercherà con tutti i mezzi d’eliminare gli altri.

La tradizione dietro l’uso del nome ‘Simon‘, quale controllore, si fa risalire al 1264, quando nel corso della Seconda guerra dei baroni, durante la battaglia di Lewes, Simone V di Montfort, sesto conte di Leicester, catturò re Enrico III, insieme con il fratello del sovrano, Riccardo di Cornovaglia, e l’erede al trono, il futuro Edoardo I. Per l’anno successivo, qualsiasi ordine Enrico III avesse dato sarebbe potuto essere revocato dal suo carceriere, de Montfort, e ciò fino alla battaglia di Evesham. Ma, sarebbe anche possibile che il nome derivi semplicemente da quel suo effetto allitterativo, molto più evidente in svedese: “Gör si, gör så” (fate così, fate cosà); in irlandese diventa “Deir Ó Grádaigh” (O’Grady ha detto), e in Iraq Simone si trasforma in Salman.

Rievocazioni storiche

Il “Jacques a dit” non è chiaro allora se derivi dal generico soprannome dato ai contadini dai nobili, Jacques Bonhomme, eppure ciò non esclude del tutto che un gioco infantile non abbia qualcosa in comune con le storiche Jacqueries.

Colin-Maillard, versione d’oltralpe della mosca cieca, trova fondamento in quel guerriero hutois del X secolo, Jean di Liegi, nominato cavaliere da re Robert, e ricollegato alla maillard, per via dell’arma, un formidabile maglio, che brandiva. Impegnato, per il conte di Lovanio, Lambert I, nella battaglia del 12 settembre 1015, contro Godefroy de Basse Lotharingie, supportato nella successione al ducato dall’imperatore Enrico II, dopo aver  avuto gli occhi cavati, continuò a combattere, colpendo a caso quelli che lo attorniavano. Una scultura in pietra su uno dei camini dell’antico Château de Landreville (Ardennes), dimora francese della famiglia belga dal 1350, ritrae Johan Coley Maillard, detto “Il Gran Maillard“, assieme alla moglie Jeanne de Seille.

«Ce guerrier gigantesque des Flandres qui se battait avec un maillet; – scriveva Michel Tournier, nei  diari e memorie “Le Vent Paraclet” (1978), in cui rinnova il suo proposito “di far passare in una forma la più tradizionale, preservata e rassicurante possibile una materia che non possiede alcuna di queste qualità” – privé de la vue par une blessure, il fallut qu’un valet d’armes guidât désormais ses coups (d’où le jeu de Colin Maillard)».

Galanterie?

Anche Cupido, come la Fortuna, è bendato e sembra abbia soppiantato, con il paesaggio del mar Egeo, ove nacque la madre, quei crudi eroismi del Sacro Romano Impero germanico.

Dopo la prova  di Jean Antoine Watteau (1684-1721) per l’ammissione all’Accademia reale di Pittura, quest’ultima fu costretta a inventarsi una nuova classificazione per l’opera “Pellegrinaggio a Citera” (1717), la quale, non rientrando evidentemente nei canoni comuni, aveva ormai però invaso l’immaginario dell’epoca; il nuovo genere fu chiamato Fête galante, rappresentazione cioè d’un’aristocrazia impegnata in svaghi ludici e delizie erotiche d’ogni sorta. Esaltate dalle tavole di Jean-Baptiste Joseph Pater (1695-1736), Nicolas Lancret (1690-1743) o degli Hallé, padre e figlio, furono le celebrazioni sociali del tempo a trovare descrizioni pittoriche di maniera.

Architettura del paesaggio

Tra le nuvole, paffuti “amorini” formano, con gote e natiche, dei turbini immoti su d’un panorama idilliaco. I grandi giardini, tagliati alla francese dalla competenza prospettica di André Le Nôtre (1613-1700), rompono la statica successione rinascimentale di quadrati e rettangoli, con varietà di forme e disegno di assi visivi, quasi preannunciando l’economica organizzazione del “pré carré” (prato quadrato, aiuola) di Sébastien Le Prestre de Vauban (1633-1707), quale sistema difensivo predisposto alla frontiera con i Paesi Bassi.

Erigendo le fortezze su bastioni rocciosi, Vauban trasformò i vincoli imposti dalla natura in vantaggi difensivi, «… poiché è necessario assoggettare il progetto al terreno, e non il terreno al progetto». A partire dal modello del territorio e delle linee degli ostacoli naturali (fiumi, monti, morfologia del litorale), ogni costruzione s’adattava al luogo, disegnando così una rete strategica e geometrica nel vero senso etimologico del termine.

In attesa che s’inventassero i giardini all’inglese, per le loro Fêtes galantes, i pittori s’ispirarono al mondo arcadico-pastorale. Cedendo, solo più tardi, la parola a poeti, che, come Paul M. Verlaine (1844-1896), dicono d’aver paura “d’un baiser comme d’une abeille”, ma descrivono il rigoglio della vegetazione appena addomesticata come il luogo in cui vengono suscitate le passioni: “calme clair de lune triste et beau,/ qui fait rêver les oiseaux dans les arbres/ et sangloter d’extase les jets d’eau/ les grands jets d’eau sveltes parmi les marbres”.

“Et in Arcadia ego”

Eppure, la decorazione dello scenario d’una “festa galante”, punteggiata da fontane e sculture, solo erroneamente potrebbe venire identificata con un “parco”. Questo paesaggio pastorale è costellato da monumenti, ma non come i parchi del tempo, ed è pure molto diverso da quello che oggi identifichiamo quale “giardino all’inglese”. Le feste galanti hanno avuto, curiosamente,  una diretta influenza sul giardinaggio, che s’è andato ispirando a quella loro cornice pseudo-, simil- o semi-naturale, ricreata persino in giardini realmente esistenti del XVIII secolo.

Si tratta d’un genere non privo di archetipi. L’ambiente bucolico si situa in una posizione ideale, a metà tra l’uomo e la natura, il desiderio e l’azione a perseguirlo.

L’odeur des roses, faible, grâce/ Au vent léger d’été qui passé/ Se mêle aux parfums qu’elle a mis/ Comme ses yeux l’avaient promis/ Son courage est grand et sa lèvre/ Communique une exquise fièvre;/ Et l’Amour comblant tout, hormis/ La Faim, sorbets et confitures/ Nous préservent des courbatures.” (Paul Verlaine: “Cythère”).

Giochi dell’amore e del caso

Sono giovani eleganti, vestiti in cangiante taffetà, quelli che, in impari numero, popolano questi Eden, la cui atmosfera è dominata dal  gioco dell’amore e del caso. Per il divertimento, musica e danza, come per le conversazioni, in cui gli occhi stanno attenti a ogni sguardo, sia pure il più fugace.

Les hauts talons luttaient avec les longues jupes/ En sorte que, selon le terrain et le vent/ Parfois luisaient des bas de jambes, trop souvent/ Interceptés! – et nous aimions ce je de dupes/ Parfois aussi le dard d’un insect jaloux/ Inquiétait le col des belles sous les branches/ Et c’étaient des éclaires soudains de nuques blanches/ Et ce régal comblait nos jeunes yeux de fous” (Paul Verlaine: “Les ingénus”).

Una galleria d’arte e passatempi

Il pennello dei pittori sospende l’azione in uno stato d’incoscienza, dove pronto in agguato sta il puro desiderio. Al divertimento s’intreccia l’occasione di sbirciare, a cominciare dalle “felici opportunità dell’altalena” (L’escarpolette et ses heureux hasards) di Jean-Honoré Fragonard (1732-1806), “Charmes de la vie champêtre” di François Boucher (1703-1770), “Les Plaisirs du bain” di Nicolas Lancret, ovvero “La Leçon d’Amour”, o “Récréation galante” di Antoine Watteau, in cui, al contrario di Tiziano Vecellio (1480/1485-1576), nel famoso “Concerto campestre” (1509), esposto al Louvre, le donne sono abbigliate alla moda dell’epoca, con vesti sontuose, e gli strumenti musicali sono i coevi.

Nell’appropriarsi, ancor prima che delle sagre del villaggio, dell’eredità di quelle praticate fin dagli albori dell’Età dell’oro, tutti gli spazi della festa galante sono occupati dai corteggiamenti, camuffati semmai da passatempi e svaghi. Perdere al gioco equivale a pagare pegno e la penitenza si rivela l’insolito piacere di dare “un bacio a chi vuoi tu”.

E ancor prima, in un susseguirsi di tranquillizzanti nascondimenti e rischiosi riconoscimenti, toccamenti furtivi e palesi abbracci, è tutto un prendersi per mano e tastare. Quando qualcuno, come nel dipinto di Jean-Fraçois de Troy (1679-1752), “tiens mon pied de boeuf”, la mano la si blocca, tal altra la si sottrae, ma sempre scherzosamente s’accarezza, si palpa, s’acchiappa.

Ne “Le Jeu de la main chaude” di Fragonard, una giovane tiene una bacchetta per stuzzicare il giocatore bendato, che, solamente quando avrà indovinato chi l’ha colpito, potrà cedere il proprio posto privilegiato, il capo adagiato sulle ginocchia femminili, il braccio dietro la schiena e il palmo rivolto ai colpetti somministrati con malizia. La statua de “L’amour menaçant” di Étienne Maurice Falconet (1716-1791), incombente sul gruppo, sembra invitare a mantenere il segreto sull’eccitazione che si va impostando al posto della celia.

In “Le jeu de cache-cache Mitoulas” di Nicolas Lancret, i partecipanti si passeranno di mano in mano un dado che si finisce per nascondere nei vestiti, cantando: “Mis tout cy, mis tout là, Est-il chu dans mes draps?”. In piedi, il designato, in mezzo al circolo degli astanti, chiedendo a tutti: “Cache-cache Mitoulas?“, deve indovinare dov’è nascosto ciò che cerca, divenuto oscuro oggetto di desiderio.

Les Liaisons dangereuses

Nel Colin-maillard, s’insegue, persegue e tradisce, in una sorta di “Liaisons dangereuses” (1782), alla Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos (1741-1803): “L’amore che vantiamo come la causa dei nostri piaceri, non ne è in realtà che il pretesto”!

Il se prête merveilleusement bien au flirt et à la galanterie, comporte des moments d’incertitude, où le risque et l’instabilité peuvent surgir. Il se superpose au jeu de l’amour: il en est même sa plus jolie métaphore. Nombre d’artistes ont ainsi fait des jeux le thème idéal de l’iconographie courtoise de la fête galante. On l’aura compris: les emprunts à la réalité dans la fête galante ne sont pas que des détails destinés à évoquer l’époque, ils sont aussi choisis pour renforcer subtilement le sujet représenté, en jouant avec les symboles et les allusions amoureuses.”, annota, a commento della tela del 1770 di Noël Hallé (1711-1781), lo storico e critico d’arte,  specialista nella  pittura francese del XVIII secolo, Christoph Martin Vogtherr.

Florent Carton, detto Dancourt (1661-1725), autore de “L’été des coquettes” (1690), mette in guardia i gelosi dai giochi eseguiti con gli occhi bendati. “Sous un bandeau que peut servir l’adresse?/ Tel échappe souvent que l’on croit tenir bien/ Pour prix d’une longue tendresse/ Tel croit tenir le Coeur de sa maîtresse/ qui souvent ne tien rien”.

Voyages à travers…

Nell’opéra-comique, in un atto (1853), messa in musica da Jean-Louis Aristide Hignard (1822-1898), su libretto di Michel Carré (1821-1872) e Jules Verne (1828-1905), quest’ultimo avrebbe forse voluto approfondire i suoi extraordinaires voyages à travers l’impossible.

Più recentemente, anche il cantante Jean-Louis Murat, nato Bergheaud, prosegue questo percorso accidentato, nel citare il Lewis Carroll (1832-1898) del “Through the Looking-Glass, and What Alice Found There” (1871): “Tu joues à colin-maillard/ Je vais le dire à ton père tu sais/ Que fais-tu seul dans le noir/ Quel mystère voudrais-tu percer?… Tu traverses le miroir/ Ton désir ne veut plus patienter/ Jusqqu’à la fin tu veux voir/ Le grand lys au fond de la vallée…”.

Marivaudage

Affettazioni? Semplici buttades? Inevitabile rilassamento morale, in cui si perde gran parte della grandiosità sciovinista, per scoprire le sottili delizie d’un dopoguerra, magari sulla scia de “Le repos du guerrier” (1958), di Christiane Rochefort (1917-1998)? E allora, appunto, “marivaudage”? Libertinaggio, o gioioso praticantato d’un mondo che dalla galanteria apprende l’arte di ben vivere in società?

Nel suo “Dictionnaire universel”, Antoine Furetière (1619-1688) definisce le feste galanti “réjouissances d’honnêtes gens”, prerogativa d’un certo ceto sociale. E un “gallant” è,  innanzitutto, “home honnête et civil savant dans l’exercice de sa profession”.

Sgombrato dunque il campo da tutte quelle appariscenti manifestazioni di movimenti disordinati e scomposti, il gioco in se stesso, nonostante l’ostinata sperimentazione della provocazione (ma forse proprio grazie a questa), avrebbe potuto svolgere un ruolo decisivo al servizio delle forze civilizzatrici. I bambini familiarizzano col dubbio, il rischio e l’incertezza, quando schiamazzando, continuano però a giocare a mosca cieca. Comunque, forse non situandosi sullo stesso piano sintonico d’un Robert Alexander Schumann (1810-1856) che l’elenca nelle sue Kinderszenen (op. 15) del 1838, come “Hasche-Mann“.

La Fortuna e Cupido, del resto, sono bendati, e non ciechi, mentre Colin Maillard ha avuto strappati gli occhi. Non è affatto la medesima situazione! Cosicché, occorre concludere che il contributo delle Fêtes galantes è stato determinante nell’allontanare dai giardini aristocratici l’orrore grandguignolesco, suscitato dal temibile guerriero di Liegi, che, ha tenacemente combattuto la sua guerra, pur roteando il maglio all’impazzata. “Mis tout cy, mis tout là”!

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Fortuna, sfortuna, sfiga, sortilegio

In “Ambarabaciccìcoccò/ Tre civette sul comò: Storia di un maleficio”(Eleusi, Perugia 2014), Andrea Armati approfondisce l’argomento della sorte nella conta, riportando alla luce le vestigia d’un percorso altrettanto perverso per un’apparentemente innocente filastrocca. E già l’etimologia ci aiuta a capire l’intrico sottile tra il  filo dell’intessere e la fila (viel) che si distende (strecken) nell’elencare, l’astragalo dell’azzardo dei dadi e l’astrologo sconclusionato. “Nà vota ‘nc’era cu ‘ncera: fhocularu e ciminiera…” (Una volta c’era chi ci doveva essere: focolare e camino) recita una filastrocca calabrese.

Nella Novella XXIV di Matteo Bandello (1485-1561) si parlava di “filastroccole”, accomunate a “baje che non vagliono nulla”. Ma strolleché risulta un verbo dialettale umbro che vale per “operare sortilegi”.

Nella lingua parlata – scrive Andrea Armati – esiste un ‘filo di Arianna’ che si dipana lungo i secoli e consente di ritrovare la strada smarrita all’interno del labirinto del tempo”.

“Ara Belara/ descesa Cornara…”

Gli accostamenti linguistici tra filastrocche popolari, evidenzianoinaspettate derivazioni, per esempio,  della milanese “Lara e Bellara e la gallinella ruspante…” dall’araba (tunisina) “ellâra u bellâra we-d- djeyja n-naggâra…”.

“Ha buffa – mutlaffa (ravvolta)/ tre sonagliere/ sul sofà/ una che suona/ l’altra che tintinna/ l’altra che dice…” non appare del tutto dissimile dall’am barabà ciccì coccò, le cui protagoniste non sono adagiate su un’ottomana, bensì vigili tra arredi da camera da letto.

Onomatopea imitativa

La presenza di pronomi indefiniti è più appropriata alla conta, mentre l’assenza di palatalizzazioni, nell’onomatopea imitativa del verso di un gallinaceo (coccodé, chicchirichì), è sospetta d’una certa seriorità (coco-ri-cò).

Intendendo cocoricò come pappagallo, il riferimento andrebbe forse più propriamente all’eloquio preso di mira, altrimenti si porrebbe un problema di derivazione da una voce turca “curuk” (marcio), cucuruco. In lingua basca (eus?ka?a), l’onomatopea del gallo diventa “kukurruku”, per cui, la canzone “Cucurrucucú, palomaaa”, non si riferisce al tubare della colomba, riprodotto piuttosto in un iberico “urruma”. In castigliano, il gallo canta il suo “quiquiriquí”, che, in Brandeburgo diventa “kikeriki”, in Russia “kukareku”, in Inghilterra “cock-a-doodle-doo”, in Galles “go-go-go-go-go”, e in Borgogna torna “cocorico”.

Quidquid quodquod sono dotati di significato, due pronomi indefiniti, derivati dal raddoppiamento, rispettivamente di un pronome interrogativo e di uno relativo; tuttavia, se il secondo si traduce “ogni cosa”, quel che vuoi, il primo, anche nel suono e nell’accentazione, in italiano, fa checché, qualunque cosa, assimilando il compagno gemello a coccò, con definitiva caduta della consonante occlusiva finale. Insomma “questo qui, questo qua”, a conclusione di “Ripara questa da quest’altra” (Hanc para ab hac), tenendo sottintesa la mano che conta.

“Die Aleph-Beth-Regel”

Con “Bìbbidi-bòbbidi-bù”, il sintagma conservativo del vocalismo in “i” aderisce maggiormente alla “regola del ciff ciaff”, di cui parla Vermondo Brugnatelli, sulla scia di “Die Aleph-Beth-Regel” di Hans Alexander Winkler (1900-1945), il quale si soffermò ad analizzare la formazione di parole prive di senso tanto nelle creazioni popolari e infantili quanto in ambito psichiatrico. Inclinazione alla chiusura laringea della prima parola, e ripetizione del suono iniziale trasformato in labiale, quindi da Aleph a Beth. Dopo, la voce in rima spesso inizia in dentale. È un procedimento valido per la formulazione magica (tipo hocus pocus), accoppiamenti fraseologici di parole dotate di senso (per esempio “tra il lusco e il brusco”), indovinelli (nel berbero ssnd’r’ bnd’r’, la prima parola esiste nella lingua comune, per significare “balza!”, mentre la seconda viene ricomposta sulla prima), nomignoli scherzosi (sempre il berbero h’nunnsh bnunnsh, frase stereotipata di scherno, peraltro intraducibile), le onomatopee o i termini espressivi (hurluberlu, sinonimo di farfelu, baroque, abracadabrant…).

Nel caso di “An ghin gon” risulta, invece, più evidente come l’espressione risalga chiaramente al latino “hanc hinc huc”, analogo dell’hanc para ab hac quidquid quodquod, prossimo all’am barabà ciccì coccò. La velare finale si sonorizza davanti alla vocale successiva: hinc (più che hoc), e l’ultima sillaba sarebbe huc, o hunc, in un nasale conguaglio delle sonorità precedenti. La conta hanc hinc huc indicherebbe pertanto una specifica destinazione spaziale di senso, cioè “questa… da qui a qua”, codesto lato qui.

Abracadabra

Il sintagma barabà viene sincronicamente costruito con raddoppiamento e troncamento dell’ultimo elemento sillabico ripetuto, tipo abracadabra, proveniente dallo gnostico Abraxas, equivalente cabalistico di 365, o dall’etimo magico greco-bizantino “ábracatà ábra” (spirito per spirito), ovvero da una formula aramaica di guarigione dalle malattie: “abhadda kedhabhra” (sparisci come questa parola); poi ancora, sempre dall’aramaico, “avrah ka dabra” (in ebraico “abara kedabra”, creerò come parlo), dall’ebraico “abreq ad habra” (invia la tua folgore fino alla morte), da ab (padre), ben (figlio), e ruach hacadosch (spirito santo), oppure “ha-b?rak?h dab?r?h” (pronunciare la benedizione), del tutto simile alla “grazia” araba, báraka, o  barakah (????).

Il “Libro triangolare”

Agla Aglala Aglaglata” è una formula specificamente costruita con i poteri evocativi del Triangolo, sulla base della quaternaria sigla cabalistica (del Notariqon) che sta per “Athah Gabor Leolah, Adonai” (Potente ed eterno sei, Signore), utilizzata, oltre che dai cabalisti, anche dalle fattucchiere per arrestare il flusso mestruale, e forse indurre aborti.

Allo scopo d’incatenare, oppure al contrario liberare, una vittima di maleficio, le streghe ricorrevano infatti a una soteriologia anancastica dalla conta compulsiva, che scagliava o scioglieva l’incanto. Molte formule magiche pertanto vanno in sintonia con una scansione numerica.

Numerologia

Ambarabaciccìcoccò, sei versi, eccetto il secondo, di otto sillabe. Altre volte la filastrocca completa la pienezza dell’interna musicalità ottonaria, con otto versi di otto sillabe.

Na ura dorma lu gallu, due uri ‘u cavallu, tri uri ‘u viandante, quattru uri dorma l’amante, cinque uri ‘u studente, sei uri ‘a bona gente, sette uri ‘u biforcu, ottu uri ogni porcu” (un’ora dorme il gallo, due il cavallo, tre il viandante, quattro l’amante, cinque lo studente, sei la buona gente, sette il bifolco, otto il porco). E, si ricordi, la maga Circe riduce in bestie gli ospiti non graditi che non sapessero frenare i loro impulsi sessuali!

L’altro numero ricorrente, nella numerologia, è il tre delle Civette, quali dee vendicatrici Graie, Gorgoni, Erinni, divenute per i latini le “castigatrici” Furie, oppure le “dee del destino”, Moire greche, Parche romane, Norne germaniche e Matronae celtico-romane. Trasformate in “Fatae”, da “Fatum”, invasero le fiabe, imprimendo il loro “karma”, il quale non sarebbe potuto non essere “fatidico”, come la conta che, nel caso della scelta del giocatore, ne determina il destino.

Gufo, civetta e barbagianni

Del mito delle “Minìadi” (Leucippe, Alcàtoe e Arsippe, Aristippe o Arsinoe), trasformate in pipistrelli, narra Ovidio (“Metamorfosi”, IV, 1-425), ma, successivamente, Antonino Liberale, nelle sue Metamòrfoseon Sinagogé (10), specifica differenti trasfigurazioni: una fu mutata in barbagianni, la seconda in gufo e l’altra in civetta, sacra ad Atena, dea della saggezza, ma anche al divino medico Asclepio.

“O logos deloi oti“

Oltre al valore magico terapeutico, infatti, nella poesia, nel canto, filastrocca, cantilena, giaculatoria, indovinello, scioglilingua, proverbio, modo di dire che sia, è presente (anzi, nelle età più arcaiche, predominante) una funzione “sapienziale”.

Stretta la foglia, larga la via,/ dite la vostra che io ho detto la mia” avrebbe sostituito “O logos deloi oti“, anche nella variante “larga la via, stretta la foglia/ dica la sua -o ne dica un’altra- chi ne ha voglia”. Cosicché, implicitamente, la filastrocca mostrerebbe d’avere una sua intrinseca funzione narrativa. Da gioco infantile di tipo orale, inserito nel medesimo contesto ludico, va inquadrata quale “microsistema di regole rituali”.

Il significato di pantomima, sceneggiata, è attestato, ben prima delle “baje che non vagliono nulla” di Matteo Bandello, già dal 1478, nel poema epico-burlesco “Morgante” (XXIV, 94). Luigi Pulci (1432-1484) lo riporta nella forma lievemente alterata di “filastròccola”, a cui attribuisce un aspetto complesso, non soltanto verbale e recitativo, ma con pure una componente mimica e coreutica.

S’avanza in tal modo un’altra etimologia del termine filastrocca in cui la prima parte continua a lasciarsi facilmente identificare con “fila” (plurale del sostantivo latino neutro “filum”), intesa come serie concatenata, o sequenza, mentre la seconda sezione del vocabolo deriverebbe piuttosto dal greco “historicòs” (da cui “histrio”, istrione, attore, intrattenitore, giocoliere, Bateleur), con afèresi della prima sillaba (“hi”), e metàtesi (trasposizione delle lettere ”or” da storicòs a stròicus), e poi, pel tramite del latino “historicus”, al femminile “stroica”, e infine, con raddoppio consonantico, nel dialettale italiano “strocca”.

Ma qui l’etimologia allude anche ai genitali femminili utero, Hysteron, da cui la malattia (isterica?) del doctor (doctoris, utriusque medicinae instructor).

Lo sperma del Diavolo

La fisicità degli uccelli ha delle corrispondenze con le facoltà ammaliatrici delle sirene della tradizione classica, come pure delle arpie, ma questo basta a giustificare l’interesse psicoanalitico nell’ambito magmatico dell’Ornitho(-fobìa/-filìa)?

Freud s’è soffermato sulla consistenza dello sperma del diavolo, incubo, per via di quella sua bassa temperatura, dopo che il demone succube si fosse impadronito di quello, appena eiaculato ancora caldo, di uomini sani e più immuni ai morbi (lo stesso dottore), per dosarlo, da abile apoth?carius, nella ricetta di quell’elixir in grado di attrarre, adescare e insidiare le donne più integerrime, vergini o vedove, ovvero devote borghesi che avessero una reputazione da difendere (la figlia del dottore). Sono dunque le più giovani a lasciarsi andare all’ozio, e cedendo alla curiosità, vengono sedotte, come nelle fiabe (tipo Biancaneve) dalle vecchie streghe.

Attrazione repulsione, farmaco veleno

Rèseda, rèseda, morbos seda./ Scisne, scisne quis pullus egerit radices?/ Nec caput nec pedes habeat” (Rèseda, reseda, lenisci le malattie!/ Lo sai, lo sai quale pulcino abbia messo radici?/ Che non abbia né testa né piedi!). Solo raramente l’incipit della formula aveva un significato scientifico, in questo caso erboristico, relativo al nome del rimedio fitoterapico (“Rèseda alba” e “Rèseda glauca”), più spesso seguiva la consuetudine delle cosiddette “lettere di Efeso” (“Ephesia Gràmmata”), usate nell’antichità classica soprattutto nelle “tabellae defixionis”, quelle piccole lamine metalliche con sopra incise delle maledizioni, di solito inchiodate abusivamente nei sepolcri.

Anche se la reseda non mostra di possedere poteri abortivi (come invece fanno: segale cornuta, prezzemolo, rosmarino, mirto, coriandolo, balsamina, mirra, succo di menta, foglie di salice, semi di cavolo o di trifoglio), nessuno ci vieta di pensare che quel “pulcino” che non ha da mettere “radici”, e “che non abbia né testa né piedi”, non sia un embrione.

Tentazioni ed esaurimenti d’energia

Esorcismi, rituali, animali totemici, sortilegi, ma anche conta, allusione erotica, fornicazione, malessere, malattia… la filastrocca è tutto questo e forse altro ancora.

Tirituppiti pani grattatu/ Conzami u lettu/ Ca sugnu malatu/ Sugnu malatu i malinconia/ Consami u lettu mugghjeri mia.” (Tirittúppiti pan grattato, preparami il letto, moglie mia, perché sono malato di malinconia) indica un esaurimento fisico e nervoso diagnosticato dal medesimo paziente fattosi medico di se stesso.

Pecuraregliu cu setti ricotti/ Dammi a sòrita pe stanotti/ Ca domani a menzijornu/ Ti la basu e ti la tornu” (Pastorello dalle sette ricotte, condedimi tua sorella per la notte, e domani a mezzodì, dopo verla sbaciucchiata te la restituisco) suona quale proposta di palese prossenetismo.

Con  “Sette, quattordici, vintunu, vintottu sapatu sira e dominica notte.” (sette, quattordici, ventuno ventotto, sabato sera e domenica notte) si torna alla conta.

L’amplesso demoniaco

Si monaca ti fhai ù?mpiernu attizzi; e si ttì mariti ù diavulu abbrazzi…” (Se la donna fa la santarellina sposandola si abbraccia il diavolo), nel dialetto calabrese, per certi versi, racchiude il senso dei versi di Lorenzo da Ponte (1749-1838), scritti per le mozartiane Nozze di Figaro, in cui le piume delle civette fanno riferimento alle pene che le rappresentanti del sesso femminile, intese come sirene o streghe, infliggono ai malcapitati. “…incantano/ per farci penar,/ Sirene che cantano,/ per farci affogar;/ civette che allettano/ per trarci le piume,/ comete che brillano/ per toglierci il lume” (Atto quarto, scena ottava).

Eppure, l’esplicita definizione di “monaca” rammenta che la reclusione nei monasteri e nei conventi costituiva un comune antidoto contro l’esuberanza e la stessa emancipazione femminile, più ancora del bere liquidi ghiacciati a scopo contraccettivo.

Il dominio sul Fallo

Nel Malleus Maleficarum degli inquisitori del XVI secolo, i tre principali capi d’imputazione consistono nell’attribuire alle streghe la capacità di procurare malattie, di trasformare in animali gli umani, di accoppiare questi coi diavoli, incubi e succubi, e soprattutto di controllare le nascite con metodi abortivi, dimostrando così un assoluto dominio sul fallo, metaforicamente rappresentato dal manico di scopa, sul quale persino si permettono di volare verso il Sabba.

Un albero della fecondità, del XIII secolo, alla fonte dell’abbondanza, di Massa marittima, mostra falli che pendono dai rami, come frutti, in modo che le donne li possano cogliere tra uccelli svolazzanti sulle loro teste. Con un comportamento disinvolto, le campagnole attentavano all’ordine sociale stabilito dal castellano o dal prelato, tanto che, a ben vedere, l’epoca della caccia alle streghe corrisponde all’era delle grandi rivolte popolari, jacqueries contadine, ma anche guerre civili e di religione.

Controllo delle nascite e disperazione

Le filastrocche, come i giochi infantili contengono tracce inequivocabili dell’inquietudine di quei tempi, corrispondente alle preoccupazioni di sempre. “Jettalu, jettalu a mari/ Si lu pigghja lu piscicani/ Si lu pigghja lu pisci tunnu,/ jettalu a mari ‘mpundu, ‘mpundu.” (Gettalo a mare per farlo prendere allo squalo, o al tonno, buttalo a mare più in fondo).

Ninna nanna, ninna oh…” parla della Befana, vecchia strega, e dell’uomo nero, babau, reminiscenza del panico silvestre. Si trattava d’una formula pedagogica impartita grazie alla fascinazione delle parole, o dell’esorcismo per allontanare una tentazione degli adulti?

L’etnomusicologo Alan Lomax ebbe modo d’osservare come, sotto ogni cenere, cova sempre del fuoco. “Le ninne nanne dell’Italia Meridionale sono dolorose, veri e propri gemiti di sconforto, indistinguibili dai lamenti funebri dell’intera regione”.

Nell’equivoco assecondamento a inculcare il rispetto per l’autorità, sotto i motivi della protesta sociale, si sono spesso aggiunte, sovrapposte e stratificate, truculenze dai toni foschi, rimembranze di quando le gravidanze inattese rientravano nella quotidianità dell’angoscia esistenziale.

 

Giuseppe M. S. Ierace

 

 

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