Alchimia Junghiana
Per Carl Gustav Jung (1875-1961), la funzione primaria del mito è psicologica: far luce sul funzionamento dell’inconscio. Il lavoro con i sogni e le fantasie del paziente costituiscono difatti la pietra angolare del suo approccio terapeutico.
L’ombra del padrone di casa
Per essere d’aiuto è indispensabile conoscere in dettaglio la storia di vita, l’anamnesi, così come acquisire informazioni dei “… simboli, e quindi della mitologia e della storia delle religioni“. Ciò implica l’ammissione, l’accettazione e l’esplorazione, della diversità delle energie psichiche che abitano l’inconscio, invece di relegarle e costringerle nell’ombra, dove “… stati d’animo, nervosismo, e deliri rendono chiaro nel modo più doloroso che non si è padroni in casa propria …”.
Interazione di due inconsci
In proposito, Nathan Schwartz-Salant rileva lo stretto legame dell’identificazione proiettiva, di cui Jung discetta implicitamente nel corso delle sue opere, a una concezione di due inconsci che vengono a contatto e inevitabilmente interagiscono.
“Il portatore di proiezione non è infatti un oggetto qualsiasi preso a piacere, ma è sempre un oggetto che si dimostra adeguato al contenuto da proiettare, un oggetto che offre per così dire un aggancio adatto a ciò che è destinato a sostenere” (Jung, 1946).
L’allegoria della Temperanza
Questo modo di intendere l’identificazione proiettiva non corrisponde al semplice “travaso” d’un contenuto (del paziente) in un contenitore (l’analista) o viceversa, ma alla miscelazione della “giusta” misura, raffigurata nell’allegoria della Temperanza: “il mezzo attraverso il quale un individuo con una personalità borderline cerca di sanare il suo legame con l’inconscio” (Schwartz-Salant, 1989).
La Magnesia filosofica
In “Alchimia Junghiana” (Paolo Emilio Persiani, Bologna 2015), Diego Pignatelli Spinazzola chiarisce il concetto di questa interazione, in rapporto al contenuto psichico della proiezione, quale Magnesia filosofica.
“E come un limen psicoide separa due regioni dell’esperienza psichica interponendosi all’extra-razionale colorandosi di ultravioletto per la vista psicoide, così la magnesia si riveste di un antico ceruleo che rappresenterebbe in ultima analisi il nucleo fondamentale di mythos nella trama peculiare e immaginale di un locus tellurico. Venere la incontriamo in quelle regioni della psiche ‘immaginali’ di un’invisibile geografia che riporti all’interno di un mundus, forse presentimento arcano di uno scarto ultravioletto, ma necessario a una extractio Veneris che compenetri la proiezione endopsichica e assurga a nucleo amplificativo nella sua più diretta matrice. Proiezione in Venere è proiezione dei roseti e perciò luogo privilegiato del temenos o del setting terapeutico. La copula mixtio assurge a interazione bidimensionale nel rapporto analitico, ove questi non propenda per un ‘terzo campo’, e cioè a quella regione dell’anima che pertiene allo psicoide stesso. L’amalgama psichica non è solo un espletamento junghiano, ma una radice misteriosofica da cui il succus lunariae, in questo caso la magnesia, assurge a materia lapidis – e last but not least ad anima o materia vegetabilis. La sostanza di trasformazione che sia suscettibile a dinamica endogama, muoverebbe come nell’analisi del setting all’interno di una triplice costellazione laddove avremmo la contaminazione alchemica di magnes e magnesia all’interno di una ‘tota mixtio’ che parrebbe fornire il terzo elemento alias terzo campo (Schwartz-Salant) nell’interazione transfert e contro-transfert analitico. L’oro verde, prodotto come oro dalla magnesia e quindi dalla fabbricazione immaginale all’interno di un fare anima, corrisponderebbe a un’istanza maschile contenuta nel unum est vas del setting, nell’utero dell’immagine quale incubatore foriero di proiezioni, rapporti autoerotici e transfert archetipici tra analista e analizzando. Il mero locus del fare anima diviene così un ritorno al pothos, all’amalgama psichica di colori della trasformazione, di contagi sublunari così come li produceva l’alchimia all’interno di un fons mercurialis o di una contestualizzazione terapeutica…”
L’esplorazione dell’esploratore
L’importanza dell’osservazione di Nathan Schwartz-Salant consiste nell’aver inteso come l’identificazione proiettiva verrebbe impiegata più che con finalità difensive, per scopi prevalentemente “esplorativi”.
Una molteplicità simultanea di stati autonomi
L’esplorazione interiore d’una molteplicità simultanea di stati autonomi riprende la constatazione junghiana che “il complesso ego non è l’unico nella psiche“, per come James Hillman (1926-2011) ha poi descritto la psiche non essere un tutt’uno “singolare”, in una definizione di prospettiva “egoistica”, ma piuttosto un’autarchica organizzazione della concomitante pluralità dei sé indipendenti.
La pesca miracolosa
“Era quindi l’analisi dei complessi a individuare un valevole materiale tecnico nelle strettoie dell’esoterismo e delle misteriosofie alchemiche laddove una scienza ordinaria di per sé non avrebbe avuto il benché minimo accesso a quei contenuti. Il materiale profferiva l’antica ricerca in de profundo levatus del ‘magnes’, componente chimica dalla cui estrazione il figlio dei filosofi elargiva le acque della speculazione ermetica quale filius noster e Mercurio, un verace parallelo al lapis pescato nei fondali o al Leviathan eletto a profezia nelle veci di Cristo…” – aggiunge Pignatelli Spinazzola.
Il quarto perduto
“Nell’all’alveo empireo di ciò che fu l’assidua ricerca del lapis, gli alchimisti profusero quella ricerca christiana a latere di cui abbiamo sparsi sentori nella psicologia del profondo di C. G. Jung. L’amalgama di rame e mercurio, quali principi primi e nel complesso ligamentum matrimonii, profferivano all’interno di una sintesi dell’uno quella corroborazione ermetica del quarto perduto che fu una certa psicologia analitica di C. G. Jung a riportare in auge oltre gli orpelli della dominante scientifica freudiana. A chiare lettere lo psicologo svizzero incise i simboli alchemici nell’inventario della psicoanalisi fornendo tutta una serie di prove empiriche per un modello della psiche più ampio in termini prospettici, più attinente quindi all’immaginazione attiva, alveo di contenuti psichici e di processi inconsci contestualizzati all’interno di una matrice mitologica per l’istanza endopsichica…” .
Hillman ha coniato la sua propria definizione di anima: “punto di vista verso le cose …” (1975), in netta controtendenza rispetto, per esempio, al comportamentismo, alla psicologia biologica, o a quella cognitiva, che hanno adottato una prassi scientifica in linea con la filosofia naturale.
Utilità della metafora
Le principali critiche che rivolge alle tecniche psicologiche del XX secolo riguardano il loro materialismo e riduzionismo, ma soprattutto il fatto di trascurare la modalità “metaforica”, attraverso un approccio estremamente e aridamente “letterale”, per cui le taccia implacabilmente di dimostrarsi psicologie “senza anima”, e naturalmente senza la psiche, scienze cioè che perentoriamente escludono l’oggetto stesso del loro studio.
Una “sofferenza di significato”
Il suo è un tentativo di riposizionare la psiche nel posto che legittimamente le compete in psicologia, senza escludere cioè quell’incessante lavorio allegorico di immaginazione, fantasia, e mitografia che si rivela innanzitutto nei sintomi dei disturbi mentali.
L’etimo di psicopatologia (Psyche-pathos-logos) lo legge non tanto nello scontato “discorso sulla sofferenza dell’anima”, ma semmai in “sofferenza di significato dell’anima”. Partecipare a questo “discorso”, così come si rivela attraverso sogni e percezioni, pone chiaramente in evidenza l’utilità della metafora nella comprensione di noi stessi.
Nel distinguere un’immagine, il filosofo Edward S. Casey, piuttosto che sul “qualcosa” di appena visto, si sofferma sulla modalità di guardarlo. Cosicché, secondo l’autore di “Imagining: A Phenomenological Study” (2000), un’immagine verrebbe percepita esclusivamente in una sorta di fantastica finzione di parvenze, non corrispondendo più a quello che si è adocchiato, ma alla maniera in cui ce ne si è accorti.
L’attività dell’anima
L’immaginazione è un’attività dell’anima, non semplicemente una facoltà cerebrale, ben più profonda e potente della sua stessa comprensione. E tutto questo spiegherebbe quanto circuita intorno alle arti che ne attualizzano l’intricata complessità nel meccanismo creativo.
Imaginalis Mundus
Henry Corbin (1903-1978), lo studioso francese dello gnosticismo iranico, supera l’esegesi storica delle religioni abramiche, rinnovandone la dimensione metafisica della tradizione esoterica nelle tematiche delle facoltà teofaniche di corpo spirituale e terra celeste, conoscenza e racconto visionario, mondo immaginale e immaginazione creativa. La medesima idea dell’Imaginalis mundus quale campo distinto di “realtà”, sia pur immaginabili, prospetta quelle modalità ontologiche della posizione archetipica della psiche, sia in un certo criterio valutativo soggettivo sia nella più generale proiezione cosmica.
Immaginabilità del reale
Gli archetipi sono infatti accessibili alla fantasia e, sin da subito, si presentano prima come immagini. La successiva procedura non seguirà il ragionamento logico, ma una certa poesia e retorica in grado di ripristinare l’originaria “immaginabilità” del reale.
Una “terra di mezzo” simbolica
Il principale metodo di trattamento psicologico non potrà allora essere disgiunto dalla necessaria coltivazione della fantasia, dallo sviluppo del senso di anima, dall’accertamento infine delle realtà psichiche che esistono in quella “terra di mezzo” simbolica.
La “base poetica della mente”
In relazione alle “archai”, o radici metaforiche, Hillman inquadra il concetto di anima, come possibilità immaginativa, nella sintetica definizione di “base poetica della mente”.
Si riferisce essenzialmente all’approfondimento degli eventi in ambito esperienziale. Questo significato dell’anima ci rende partecipi di interessi e passioni che vanno dall’amore all’afflato religioso, ma che in buona sostanza derivano dall’umana preoccupazione prosaica per il futuro e da quello speciale rapporto che stabiliamo con la sua inesorabile fine.
Ma l’anima assorbe in sé anche ogni possibilità immaginativa nella nostra propria natura, grazie alla sperimentazione attraverso sogni, fantasia, immaginazione, o speculazione riflessiva, insomma tutte quelle modalità che in ogni realtà riconoscerebbero per prima cosa un’allegoria, un luogo simbolico o metaforico.
L’attività onirica costituisce il principale paradigma di tutti i lavori con le immagini. Nel mentre si sogna, tutti gli eventi vengono collocati in un tempo e in uno spazio, quali esperienze; e il sognatore è convinto di vivere, in un ambiente reale, un vero e proprio avvenimento.
La totalità onirica
Robert Bosnak descrive come il sogno “istantaneamente presenti un mondo totale, così reale che si è convinti d’essere svegli“. Cosicché, dal punto di vista onirico, l’immagine diviene un “luogo”, l’ambiente in cui ci troviamo immersi, sognando. Il protagonista-sognatore può entrare e rientrare pienamente nel paesaggio onirico e contemporaneamente ritornare all’interno delle sue stesse immagini per sperimentarle ed esplorarle più profondamente.
Il sognatore esplora queste immagini in uno stato intermedio di coscienza, tra la veglia e il sonno, uno stato ipnagogico. E può porsi tutta una serie di domande che lo aiutino a rivivere i dettagli descrittivi di quel paesaggio. Completamente immerso nelle immagini che l’ambiente onirico gli suggerisce, prova le sensazioni manifestate dal corpo nella prospettiva contingente, sforzandosi di identificare i sentimenti correlati. Ma i punti di vista esperiti possono appartenere sia all’Io dormiente, come agli eventuali “altri” che s’affastellano attorno, coerentemente con la descrizione dei fenomeni di molteplicità psichica su cui s’è dilungato James Hillman.
Un “punto di vista” di mediazione
Per lo psicanalista di Atlantic City, l’anima non costituisce un’entità, una sostanza, né qualcosa che sta al di “dentro” della persona. Come per Casey, si tratterebbe di “un punto di vista”, che nel suo processo riflessivo e di automatico discernimento, media di conseguenza, e suo malgrado, tra le cose.
L’Anima mundi
Nel citare il poeta romantico John Keats (“call the world the vale of soul-making“) è come se ribadisse che sono gli esseri umani a trovarsi nella psiche e non viceversa, visto che persino il mondo in cui viviamo ne è provvisto, o forse meglio, è contenuto nell’Anima mundi.
Thomas Moore, curatore di “A blue fire: Selected writings by James Hillman” (1989) sostiene che l’insegnamento di James Hillman ritragga la psiche come “inherently multiple”, intrinsecamente multipla, avvalorandone la prospettiva archetipo/politeista.
Lotta con i propri daimones
L’anima ha molte fonti di significato e s’indirizza su più direzioni. E questa condizione può essere avvertita come uno stato continuo di conflitto, quella famosa lotta con i propri daimones, che differenzia in senso politeistico, e dunque “sacrale”, la nostra agitazione psichica.
“Il potere del mito, la sua realtà, risiede proprio nella sua capacità di cogliere e influenzare la vita psichica. I greci lo sapevano così bene, e così non ebbero psicologia del profondo e psicopatologia, come le abbiamo noi. Avevano miti. E noi non li abbiamo – come invece abbiamo psicologia del profondo e psicopatologia. Quindi … la psicologia mostra miti in foggia moderna e i miti mostrano la nostra psicologia del profondo in abiti antichi” (Kerenyi K. and Hillman J.: “Oedipus Variations: Studies in Literature and Psychoanalysis”, 1990).
Una mnemotecnica senza tempo
I suoi molti riferimenti alle divinità, Hillman li qualifica del tutto differenti da quell’approccio “letterale” che rimprovera ai colleghi delle altre “parrocchie” dottrinali, affermando che per lui sono “aides memoires”, cioè specie di casse armoniche impiegate semmai per meglio riecheggiare la quotidianità, tipo “accordi di basso che danno risonanza alle piccole melodie della vita”.
Insiste inoltre nel denunciare la moderna perdita di quella ricchezza rappresentata dal pantheon degli dei, anche se di fatto non la considera qualcosa con cui oggi doversi misurare per forza.
Il succus lunariae
Nel presentare “Alchimia Junghiana” (Paolo Emilio Persiani, Bologna 2015), Diego Pignatelli Spinazzola descrive il suo ultimo lavoro come “un’assimilazione agli stessi originari concetti di C. G. Jung…”, nel tentativo di “incarnare quella nomenclatura in latinorum e quelle approssimazioni in ordine di sintesi che prospetterebbero in una versione più amplificata il succo del lavoro alchemico, il puro succus lunariae riscontrabile in Aion (1951) e nel Mysterium coniunctionis (1955-56)”.
Ricerca di significato
L’idea del mito politeista avente valore psicologico è divenuto però teorema della psicologia archetipica esplorato in varie correnti letterarie della mitologia junghiana. Il mito stesso, secondo Joseph John Campbell (1904-1987), rappresenta l’umana ricerca della verità suprema, non soltanto di ciò che è vero, ma di quanto v’è di significativo, e dunque medesima ricerca di intrinseco significato. Poiché quello che stiamo cercando è “… esperienza di essere vivi … in modo che le nostre esperienze di vita … avranno risonanze dentro il nostro essere interiore e la realtà, in modo che in realtà sentiamo il rapimento di essere vivi“. E i miti politeisti, come alchimia ed ermetismo, possono soddisfare quest’esigenza d’introspezione psicologica.
La “plutonicità” del mondo
Christine Downing descrive la visione ellenica delle divinità come energie che riguardano ogni cosa, tanto da poter essere indicate “come theos, cioè come immortali, permanenti, aspetti ineluttabili del mondo“.
Seppure le controversie in seno al pantheon greco fossero piuttosto frequenti, nessun dio di epoca classica ha mai negato l’esistenza di un altro dio. Negarne anche uno solo sminuirebbe inesorabilmente la plutonicità (da Ploutos, che significa ricco) di ogni individuo, quell’esuberante ridondanza ultraterrena e sovrabbondanza del mondo, di cui ci hanno ampiamente parlato gli ermetisti un tempo e più recentemente Campbell, Corbin, Hillman, Jung.
Giuseppe M. S. Ierace
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Jung C. G. Die Psychologie der Übertragung – erläutert anhand einer alchemistischen Bilderserie, Rascher Verlag, Zürich 1946
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