“Se l’uomo è essenzialmente un viandante, ciò significa che egli è in cammino verso una meta della quale possiamo dire al tempo stesso e contraddittoriamente che la vede e che non la vede. Ma l’inquietudine è appunto come la molla interna di questo progredire e qualunque cosa dicano coloro che pretendono di bandirla in nome di un ideale tecnocratico, l’uomo non può perdere questo sprone senza divenire immobile e senza morire” (Gabriel Marcel, Homo viator, 1944).
Gabriel Marcel aggiungeva a questa sua riflessione sul viaggio e sul camminare, e sull’umanità in genere, che l’essere si rivela nel mistero di cui si circonda, per cui l’unico modo per affrontare il problema umano consiste nell’accettare la fragilità esistenziale, senza cercare di chiarirne i lati oscuri ed incomprensibili.
In “Una teoria della giustizia” (1971), John Rawls immagina una “posizione originaria”, in cui ci si trovi sotto un “velo d’ignoranza”, la quale riuscirebbe a fornire i soli criteri di equità. Potrebbe, questa, essere intesa come quell’attitudine morale, grazie alla quale riuscire a giustificare comportamenti che altrimenti sfuggono al raziocinio?
E’ del tutto innegabile, comunque, che tutto quello che facciamo possieda una qualche coloritura affettiva. Lo sforzo razionale di tradurre in pensieri quello che proviamo, di verbalizzare i nostri sentimenti, tende in fondo in fondo ad inscrivere le singole emozioni all’interno di una coerenza narrativa per noi credibile. Tale separazione risulta molto difficile e, seguendo la spiegazione di Lacan, dobbiamo accorgerci che il “soggetto autentico” non potrà mai essere totalmente protetto da una “maschera conscia”.
La ragione, vanagloriosa, esercita una sorta di furbizia, corrispondente all’astuzia di illuderci circa l’illimitatezza del sapere umano, della scienza moderna e della nostra stessa volontà; ci induce a ritenere sufficiente fare dei semplici calcoli, incolonnare da una parte i costi, dall’altra i benefici, equilibrando da un lato l’egoismo e contenendo dall’altro la compassione. In tal modo, “preferenze razionali” e “decisioni intuitive” divengono ossimori adattabili all’inflessibilità dei condizionamenti, cosicché, con il debordare dell’emotività, si possa andare strutturando quella specie d’intelligente disposizione in grado di integrare i desideri nella limpidezza dei sentimenti, sia pur nella certezza di non poter mai far coincidere quello che si pensa o si dice di volere con ciò che si sente e si desidera davvero, cioè con gli spontanei ed autonomi movimenti del cuore.
La poesia e la letteratura, la mitologia e la religione, ancor prima della psicologia del profondo, ci insegnano quanto sia difficile evitare l’inquietudine, tamponare ansie ed agitazione, diradare l’angoscia. Molto spesso la gerarchia di ciò che ha veramente importanza per noi ne risulta sconvolta, e con essa gli stessi progetti esistenziali ci appaiono sbiaditi e desueti. Eppure, queste crepe strutturali, nelle loro incoerenze comportamentali, si rivelano come i lapsus verbali, divenendo un messaggio illuminante di vulnerabilità intrinseca e quasi obbligatoria. Tutto questo potrebbe avere un aspetto positivo, qualora riuscisse a promuovere, anche senza necessariamente approdare all’altruismo, quel senso del vivere insieme che, nella tolleranza delle altrui debolezze, possa riflettere le proprie.
Secondo il parere di Richard Wilkinson e Kate Pickett, sintetizzato in “La Misura dell’Anima” (Feltrinelli, Milano 2009): “Il contrasto tra successo materiale ed insuccesso sociale in molti paesi ricchi è un segnale importante; esso ci indica che, per innalzare ulteriormente la vera qualità della vita, occorre spostare l’attenzione dal tenore di vita materiale e dalla crescita economica alla maniera di migliorare il benessere psicologico e sociale di intere collettività. Ma non appena si accenna alla psicologia, la discussione tende a concentrarsi quasi esclusivamente sui trattamenti ed i rimedi individuali, ed il pensiero politico sembra arenarsi”.
Nell’Etica Nicomachea, Aristotele sostiene che la “cura” potrebbe servire sia come valore morale sia come base per la realizzazione politica di una buona società. Più recentemente, Joan Tronto (“Moral boundaries: a political argument for an ethic of care”, 1993) ha proposto una modifica di quella prospettiva kantiana del confine del “punto di vista morale”, universale e disinteressato, che non include emozioni e circostanze politiche, ed ha parlato di una “morale contestuale” che tenga conto della complessità della vita e delle sue contraddizioni.
Se tutte le passioni, dalla collera alla paura, dalla gelosia al rancore, dall’invidia alla vergogna, vengono somatizzate, ciò avviene perché, essendo strettamente vissute sul corpo, non possono venire elaborate da una riflessione che ne consenta la giusta valutazione, cosicché ogni tentativo di pensiero si traduce in affanno respiratorio, spasmo intestinale, aritmia cardiaca. Eppure, il sano esercizio della convinzione può intercedere per noi e modificare tali reazioni. Perché la sede delle emozioni non è il corpo, non i polmoni, né l’intestino, e, nonostante una tradizione radicata, neppure il cuore, bensì ciò che proviamo sono sintomi di segnali provenienti da diverse parti del cervello, dai lobi frontale, temporale, parietale, occipitale, a seconda del genere d’emozione esperito. Ed il ceco, ma saggio, Omero già lo sapeva nel raccontare dello sforzo di Odisseo di trattenere la sua furia di fronte allo squallido spettacolo offerto dalle immemori, complici ancelle in mezzo ai Proci gaudenti, e per non venir meno al proposito della vendetta gli fa ricordare: “più atroce pena subisti/ il giorno che l’indomabile, pazzo Ciclope mangiava/ i compagni gagliardi…”. “La scelta di Ulisse” Eva Cantarella la riassume nell’imperativo: “Sopporta cuore…”, e la cosa è resa fattibile da una direzione ben determinata, uno stabile orientamento, uno scopo ben definito, sia pur solo quello della rivalsa.
Il cuore è stato a lungo utilizzato come un simbolo riferito all’emotività, moralità, spiritualità, insite nell’essere umano. Dato che un tempo si riteneva il cuore sede della mente umana, la parola cuore continua ad essere utilizzata poeticamente per fare riferimento all’anima, e le rappresentazioni stilizzate di cuori sono molto diffusi in simboli che rappresentano l’amore.
Tradizionalmente, nel folklore europeo, il cuore viene disegnato in forma stilizzata, in genere di colore rosso, per via della valenza che questo colore possiede nell’indicare sia il sangue sia, altrettanto frequentemente, la passione. Solo vagamente, tale stilizzazione rassomiglia alla forma anatomica del cuore umano, tanto da rinviare piuttosto all’immagine di un “cor bovinum”. Insidiosamente, nell’inconscio, si tratterebbe invece della rappresentazione dei seni materni, e per sottile corrispondenza, quindi delle natiche, per contiguità persino del perineo, od ancor di più del monte di Venere, se non proprio di una vulva, divenendo così l’equivalente occidentale del simbolo tantrico della “Yoni”, che, sempre in Europa, potremmo riscontrare altrettanto agilmente sia nell’esplicita Sheela na gig come nella semplice mandorla, nell’ ermetico monogramma delle lettere AVM tra loro intrecciate, riconducibile all’esalpha e quindi ad allegorie solari, come pure a segni labirintici, più propriamente plutonici e ctonici.
Tra i simboli impiegati a raffigurare il Cristo, ci fu primitivamente quello che incorpora le due lettere estreme dell’alfabeto greco, l’alpha e l’omega, con lo scopo precipuo di significare che il Verbo è il principio e la fine di tutto. In un secondo momento, il medesimo sigillo venne elaborato per essere considerato alla stregua dell’abbreviazione del saluto dell’angelo dell’annunciazione, “Ave Maria”, completando in tal modo il precedente significato con l’inserimento di una terza lettera, questa volta dell’alfabeto latino, la V, onde rappresentare ciò che sta in “mezzo”, tra il principio e la fine; dunque scomponendolo in AVM, si ottiene l’equivalente, in forma trinitaria, agli elementi costitutivi del monosillabo sanscrito Om, dove la vocale “o” viene formata dall’unione di “a” e di “u”.
Formalmente, il predetto segno si trascrive in ternari disposti in senso inverso l’uno dall’altro, come avviene nel sigillo di Salomone. Il tratto orizzontale mediano risalta il piano di riflessione, ovvero “superficie delle Acque”, di modo che le due metà della figura complessiva comportano uno stesso numero di linee, e solo la disposizione di due di esse li distingue nettamente, in quanto da orizzontali, quali sono nel classico sigillo di Salomone, nell’altro caso, quello del monogramma con l’intreccio delle lettere latine AVM, divengono verticali. Da qui sarebbe possibile anche un certo avvicinamento allo swastika come a metafora del Logos, centro inerte e periferia in un turbinio d’inarrestabile moto.
Le basi orizzontali dei due triangoli che compongono il sigillo di Salomone, ruotando di lato sul piano terrestre, costruiscono ai bordi opposti una verticalità, la quale, nel costituire l’acronimo AVM, circoscrive il connubio osmotico in uno spazio ascendente che disegna e suggella il centro della sacralità del luogo.
Sull’albero sephirotico, il serbatoio dove confluiscono tutte le emanazioni, grazie o influenze spirituali (le acque che vengono dal fiume dall’alto), si chiama il regno, Malkuth. La tradizione hindu identifica il fiume celeste in Gangâ, che diviene un aspetto della Shakti, analoga all’ebraica Shekinah, con cui ha certamente in comune la funzione “provvidenziale”. Dal serbatoio delle acque celesti, dirigendosi verso i quattro punti cardinali, si dipartono i quattro fiumi del Pardes, da cui “paradiso”, per gli ebrei la collina di Sion, quella del Salmo CXXXII, su cui discende la “rugiada dell’Hermon”, quale “lumen exaltatum” cui fa cenno Agostino. La divina potenza discende allora dall’alto per irradiarsi in basso, mentre quanto si costruisce nel mondo dovrebbe tendere ad innalzarsi, ed i due triangoli dai vertici contrapposti si riferiscono all’augurio: “sicut in coelo et in terra”, quale epifania metaforica di ogni esalpha. Manifestazione della cosmogenesi giunta ormai al suo completamento, il sesto giorno, in quanto il settimo “… si riposò”. In ciò consiste quell’imperscrutabile segreto del numero 7, che il Buddhismo custodisce nella leggenda dei “sette passi” nella direzione dei quattro punti cardinali.
Nel simbolismo hindu, le sette regioni dello spazio corrispondono ai quattro punti cardinali, con in più lo Zenith ed il Nadir, ed ovviamente il centro stesso, appunto il cuore. La loro rappresentazione forma una croce a tre dimensioni, poiché, a partire dal centro, le sei direzioni si oppongono due a due. Il “Santo Palazzo” o “Palazzo interiore”, di cui parla la cabala ebraica occupa il cuore delle sei direzioni, che con esso formano il settenario. Clemente d’Alessandria descrive come dal “Cuore dell’Universo” si dipartano delle estensioni infinite che si dirigono, in alto, in basso, a destra, a sinistra, davanti e dietro; lo sguardo di dio dirigendosi contemporaneamente verso tutte queste direzioni, come verso un numero sempre uguale, contiene il mondo, ponendogli un termine indefinito; allo stesso modo, essendo l’alpha e l’omega (principio e fine), esaurisce in sé pure le sei fasi del tempo, che da lui ricevono la loro estensione altrettanto indefinita.
L’esalpha rappresenta, in ultima analisi, la struttura interna del Creato ed il suo compimento, in quanto si ottiene dalla rotazione di sei cerchi, o sfere, corrispondenti ognuno di essi ad un giorno della divina Creazione. Lo stesso albero sephirotico, della vita o della conoscenza, potrebbe trovare sviluppo a cominciare da quell’embrione che, nella sua forma estesa, esprime il numero aureo della perfezione matematica. Analogamente è possibile il passaggio dalla bidimensionalità della grafica semplice del fiore dai sei petali alla tridimensionalità dei solidi platonici, inscrivibili in una sfera; un’evoluzione che muta il fiore in “frutto”, alla base del cosiddetto “cubo di Metatron”, in cui si inscrivono ottaedro, dodecaedro ed icosaedro, caratterizzati dalle stesse misure di lati, superfici ed angoli e contenenti al loro interno la stella tetraedrica che estrinseca in forma tridimensionale l’esagramma bidimensionale di partenza. Nelle corrispondenze con gli elementi, il tetraedro raffigura il fuoco, il cubo la terra, l’ottaedro l’aria, l’icosaedro l’acqua, mentre il dodecaedro rappresenta il superamento dei quattro elementi, la Quintessenza.
Sull’Arca dell’Alleanza la Shekinah si manifesta tra due Kerubim. La residenza della Shekinah è il Tabernacolo della Santità di Jehovah, il quale è il Santo dei Santi, cuore del Tempio per antonomasia, che, a sua volta, è esso stesso il centro di Sion, come Gerusalemme, la città Santa, è al centro della Terra d’Israele, e come la Terra d’Israele è il centro del mondo. Nella tradizione ebraica il cuore del mondo viene identificato con la collina di Sion, l’equivalente del Mêru degli hindu, o dell’Alborj dei Persiani, e di tutte le altre “Terre Sante” conosciute.
Così come si possono porre in relazione la Shakti hindu e la Shekinah ebraica, la dimora della potenza potrebbe venire identificata con la cavità del cuore e questa con la grotta o la caverna della montagna sacra, ed il centro dell’essere con l’interno dell’”Uovo del Mondo”. Se la grotta è collocata nell’interno stesso della montagna, od immediatamente al di sotto di questa, tra loro si viene a ricomporre la medesima complementarietà dei due triangoli che formano il sigillo di Salomone, disposti l’uno inversamente all’altro, una complementarietà, d’altronde, riproposta in altri contesti tra la lancia e la coppa. Mentre, per quanto riguarda le similitudini, il Graal, in cui si raccoglie il sangue di Cristo, equivale al Cuore di Gesù.
“Induismo e buddismo – scrive Alberto Cesare Ambesi, ne “Il Labirinto” (L’Età dell’Acquario, Torino 2008) – concordano nello scorgere in ogni montagna con due cime la raffigurazione del dualismo che è alla radice della manifestazione cosmica: Luce e Tenebre, vita e morte, l’illuminazione che nasce dalla cognizione delle forme e percezione intuitiva del ‘Sé nascosto’, ovvero dell’anima universale. Un’allegoria, questa, che è stata coltivata un po’ ovunque, fin dalla più remota antichità, in quanto nella struttura ideale di ogni monte si riproduce il disegno del triangolo equilatero, sia considerando i lati che portano alla sommità sia per ciò che concerne l’asse centrale che s’innalza dalla base al vertice. Da qui il conseguente pensiero, secondo il quale o una singola montagna o una determinata catena di monti potevano e dovevano essere considerati come il centro o il polo spirituale del mondo, così come il cuore di ogni labirinto”.
La grotta della nascita è paragonabile al seme da cui il corpo rinascerà nella resurrezione. Nella tradizione ebraica si parla di un osso durissimo ed imputrescibile, chiamato Luz, mandorla, posto alla base della spina dorsale, laddove i Tantra indiani pongono la kundalini, quella forma della Shakti considerata come immanente all’essere umano. Verso l’estremità inferiore della colonna vertebrale questa forza è rappresentata sotto la figura di un serpente attorcigliato attorno a se stesso, in grado di dispiegarsi, all’occasione, per risvegliare i vari chakras (ruote), o kamalas (loti), corrispondenti ai plessi anatomici, fino a recuperare, alla sommità del capo, il senso dell’eternità dello stato primordiale.
Dopo la biblica apparizione della scala protesa verso il cielo, a Giacobbe dormiente su di una sacra pietra amigdaloide, il Luz biblico assume la definizione di Bethel, casa di dio. Ed all’interno di essa, in un’amigdala appunto, viene di norma ritratta la Vergine.
Al fine di proteggere le aperture dalle influenze malefiche, dunque a scopo apotropaico, durante il medio evo, soprattutto in Irlanda e Gran Bretagna, venivano poste su porte e finestre le cosiddette Sheela na Gig, sia in aree con influenza normanna che in contesti romanici, come in Francia e Spagna. Con funzione identica a quella dei Gargoyle, o delle rappresentazioni itifalliche, le figure femminili che, intrecciando le braccia alle gambe, in una posizione da contorsionista, esibiscono la vulva proverrebbero da un’arcaica tradizione di culti della fertilità; “prostitute sacre” che incarnano lo spirito della Grande Madre, le quali in area mediterranea rammentano il rituale anasyrma di Iambe alle Tesmoforie, o della Baubo del mito di Demetra, o magari le Dilukai dalle gambe divaricate e dall’inguine triangolare dell’arcipelago Palauan. Sumeri, babilonesi ed accadici, del resto, esaltavano proprio gli organi sessuali femminili in una divinità dell’acqua (Nin-Imma). In ambito hindu, va ricordata l’“innocente creatrice” (Lajja Gauri), raffigurata senza testa (Aditi) e accovacciata (uttanapada), in modo da meglio esporre i genitali.
La Yoni viene impressa su pietra a mo’ di yantra, figure riproposte dalle forme a ruota, a triplice cinta, da quadrati magici, e labirinti vari. E proprio ne “Il Labirinto” (L’Età dell’Acquario, Torino 2008), Alberto C. Ambesi ricorda come l’archetipo stesso del mito cretese sia da rintracciare più che altrove (Minotauro, Pasifae, Minosse, Dedalo, Androgeo, Antide, ecc.) nella vicenda “sentimentale” di Arianna, salvatrice di Teseo ed a sua volta salvata da Dioniso. In base agli originari appellativi autoctoni, la “molto luminosa” (Aridela), la “pura al sommo grado” (Ari-hagne) “è colei nella quale si possono manifestare – simultaneamente – la Grande Dea sotterranea e la sfolgorante Afrodite celeste”, la prostituta sacra e la santa vergine, la Madonna e la Maddalena. “Quindi, imprevista ed imprevedibile sovrana nonché figura salvatrice proprio di Dioniso e della terrestrità che egli rappresenta ed esalta, quasi che si anticipino qui i concetti manichei del salvandus che diventa Salvatore e della connessa gloria che il Redentore acquisisce grazie a colui che è redento”.
L’”Epopea di Gilgamesh” ci offre forse un primo esempio letterario di Adelphopoiesis, anche se tratta non solo dell’affratellamento tra gli uomini, ma pure dell’impatto della cultura con la natura, delle forze elementari della vita, e quindi della potenza dell’amore. In ogni caso, le contraddizioni fondamentali dell’esistenza vengono riconciliati nell’incontro del re di Uruk con il benevolo Enkidu, prototipo del “buon selvaggio” e di quanto di nobile la natura possa esprimere. Enkidu è vegetariano, vive con gli animali che aiuta a difendersi dai cacciatori. Per corromperlo e distrarlo da questa vocazione ecologica, Inanna-Ishtar lo fa sedurre da una sacerdotessa etera del suo tempio. La passione erotica e le tentazioni dei vantaggi materiali della civiltà lo tengono impegnato per i fatidici “sei” giorni, il settimo però Enkidu desidera far ritorno ai suoi animali, nonostante essi non lo riconoscano più. L’incontro con Gilgamesh trasforma pure quest’ultimo, che diviene più virtuoso, come se l’impatto tra cultura e natura dovesse rivelarsi irreversibile per entrambe.
Insieme i due, divenuti amici, possono sconfiggere dapprima il mostruoso albero Humbaba, ed in seguito il toro celeste, di cui offrono il cuore in sacrificio al dio sole Samash. Per vendicarsi però dell’onta subita nell’essere stata respinta, Ishtar colpisce con una malattia letale Enkidu e pone Gilgamesh di fronte al dilemma dell’immortalità e del significato della vita. Soltanto la scoperta di una risposta a questi enigmi può riconciliare l’eroe con se stesso. Quando infine trova la pianta che può renderlo immortale, non riesce ad impedire ad un serpente di appropriarsene al suo posto.
La saggezza che apprende dalle prove a cui viene sottoposto gli insegna quanto siano difficili le condizioni dell’esistenza. Utnapishtim, sopravvissuto al diluvio gli svela quanto sia effimera ogni cosa. Per perseguire la felicità bisogna riconoscere la propria natura, mortale, ed obbedire alle sue leggi. Ishtar regna sulla vita, mentre sua sorella Ereshkigal ha il dominio della morte. Nel momento in cui la prima sconfina nel regno dell’altra, viene spogliata delle sue vesti ed impietrita nella sua nudità. Può tornare alla luce del giorno soltanto se qualcuno è disposto a sacrificarsi per lei. Il dio del sole, per salvare la terra dalla carestia, invia un poeta nell’oltretomba per mandare in estasi Ereshkigal con un canto d’amore che le spezzi il cuore.
“Il pube mi ha carezzato,/ il grembo mi ha innaffiato./ Sulla mia sacra vulva le sue mani ha poggiato./ Odoroso di miele mi ha distesa sul letto./ Sul mio cuore disteso, il mio diletto”. In vece del pastore Dumuzi-Tammus, il re compiva pubblicamente il rituale rapporto sessuale con una sacerdotessa della dea dell’infatuazione.
Nell’”Epopea di Gilgamesh” c’è, “in nuce”, molta parte della cultura occidentale: dal mito di Orfeo al sacrificio cristiano, e molto c’è della scrittura biblica: il simbolismo del sei e del sette, quello del serpente della Genesi, quello dell’arca di Noè Utnapishtim. Ma forse proprio per questo genti in cerca della propria identità, dopo la schiavitù di Babilonia, per distinguersi dagli odiati nemici, omisero tutto ciò che riguardava la loro divinità femminile Asherah, compagna di Jahvé, di cui si ha reminiscenza soltanto nel Cantico dei Cantici, e con essa anche la valenza religiosa dell’estasi sessuale.
Nel linguaggio comune, il simbolo del cuore assume significati diversi, a seconda dei contesti organo-anatomici, topografici, o metaforici, se quindi considerato sede di sentimenti, emozioni o della forza del coraggio. Ad esempio si dice: due cuori ed una capanna, con tutto il cuore, affari di cuore, mi si stringe il cuore, mettersi il cuore in pace, essere senza cuore, di buon cuore, a cuore aperto, a cuor leggero, con la morte nel cuore, col cuore in gola, cuore in mano, cuore d’oro, cuore tenero, cuore duro, non avere cuore, o averlo di ghiaccio, di pietra…
Nell’antico Egitto il cuore doveva essere “duro” come “di pietra”, il che rappresentava un attributo positivo, mentre per gli ebrei la stessa definizione assumeva connotazioni negative. Gli antichi egizi concepivano l’anima intimamente connessa al cuore fisico ed allo spirito alato (ba). La resurrezione dell’individuo equivaleva al quotidiano sorgere del sole, cuore dell’universo. La dea del cielo, Nut, ogni mattina dà vita al sole per spengerlo al tramonto ed accoglierlo nel suo corpo, come in una mistica unione. Proprio come la vita umana dipende dal battito regolare, la vita sulla terra è legata ai raggi luminosi che si ripresentano tutti i giorni. La credenza nella resurrezione dell’uomo veniva supportata da tutta la cosmologia religiosa incentrata sul sole e l’obiettivo più importante nel regno dei morti era quello di seguire la sorte di Ra. “Stella del mattino, rendimi chiaro il sentiero, affinché possa entrare in pace nel bell’Occidente”. Il ba, a forma di uccello intraprendeva il viaggio cosmico assieme al sole e con il dio si riuniva per completarne la rinascita.
Il cuore veniva rappresentato da una pietra a forma di nave oppure dalla riproduzione di uno scarabeo, che questa rinascita auspicava. Si trattava di un grosso coleottero blu scuro e indaco, dalle ali protette da un guscio, raffigurato nell’atto di trainare la sfera del sole della vita. In natura depone le uova in una palla di sterco che spinge dinanzi e protegge con le zampe fino alla schiusa. Testimone di ogni azione del defunto, il cuore scarabeo ne conserva memoria nel momento in cui verrà poggiato sul piatto della bilancia di Maat, di cui dovrà equiparare il peso per vivere l’aldilà in armonia. Il cuore duro di pietra era comunque un vantaggio perché più assennato dell’organo di carne e sangue, ricolmo di vizi.
Seppure ereditato da dio, il cuore può essere istruito dalla parola di Maat, e dimostrare di avere giudizio e raziocinio: “Ciò che il mio cuore pensava, la mia mano ha fatto accadere”, ma anche di possedere compassione e arrendevolezza: “Una persona che sopporta qualcosa di brutto desidera che il proprio cuore venga alleviato ancor più di vedere esaudite le proprie richieste”.
Secondo questa concezione, dopo la morte, il cuore sarebbe dovuto restare al suo posto, non come gli altri visceri che finivano nei vasi canopi, i cui coperchi avevano le sembianze dei figli di Horus: gli intestini nel vaso del falco Qebehsenue, i polmoni in quello del babbuino Hapi, lo stomaco nel vaso del cinocefalo Duamutef, il fegato in quello di Imset, l’unico dal volto umano. Dei due soli organi che facevano eccezione, uno di essi, il cervello, veniva gettato. Ma se il cuore non occupava il posto giusto, il rischio era di perdere la propria integrità. “Guarda. Il mio cuore se ne è andato/ si affretta verso il posto che conosce…/ Ma io, io siedo a casa e aspetto il mio cuore…/ Guardo, ma il mio cuore dorme, il mio cuore, che non è il mio corpo”.
Il cuore cementa i tratti di personalità, si situa al centro dell’individuo, e, come lo scarabeo, “non essendo il corpo”, ne porta avanti ogni istanza organizzativa.
Giuseppe M. S. IERACE
Bibliografia essenziale:
Ambesi A. C.: “Il Labirinto”, L’Età dell’Acquario, Torino 2008
Cantarella E.: “Sopporta cuore… la scelta di Ulisse”, Laterza, Bari 2010
Gigerenzer G.: “Decisioni intuitive”, (trad. it.), Raffaello Cortina, Milano 2009
Høystad O. M.: “Storia del cuore”, Odoya, Bologna 2010
Ierace G. M. S.: “Sator – Enigma Templare”, su Atrium, II, 4, 45-56, 2000
,, ,, : “L’Anatomia del Corpo di Dio come suprema rivelazione della Coscienza Cosmica”, su Atrium, V, 3, 3-18, 2003
Jacobelli M. C.: “Il risus paschalis e il fondamento teologico del piacere sessuale”, Queriniana, Brescia 2004
Piccinino G. (e Natoli Casalegno D.): “Amore limpido”, Erickson, Trento 2010
Wilkinson R. e Pickett K.: “La Misura dell’Anima”, Feltrinelli, Milano 2009