Psicosocioantropologia di un colore: Verde

Per lo storico – come per il sociologo o l’antropologo – il colore si definisce innanzitutto come un fatto sociale e non come una materia, né come un frammento di luce o tantomeno una sensazione. È la società a ‘fare’ il colore, ad attribuirgli definizioni e significato, a costruirne codici e valori, a organizzarne gli usi e determinarne le problematiche. Per questo ogni storia dei colori deve prima di tutto essere una storia sociale. Se rifiutassimo una simile premessa rischieremmo di cadere in un riduttivo neurobiologismo o in uno scientismo pericoloso”. Anche nel trattare un solo colore alla volta ( “Verde , storia di un colore”, Ponte alle Grazie, Milano 2013) è sempre troppo categorico Michel Pastoureau nelle sue affermazioni: “il colore è di per sé una materia di studio transdocumentale”! Eppure, ha pienamente ragione nel sostenere che un colore non esista mai da solo; “assume un senso e ‘funziona’ appieno, dal punto di vista sociale artistico e simbolico, solo quando viene associato o contrapposto a un altro o a molti altri …”.

Senza dubbio, c’è di mezzo un problema di “gusto”, o più precisamente di senso del colore. Non a tutti piace e c’è chi addirittura detesta uno stesso colore, che spesso presenta tratti di ambivalenza, pure a seconda delle sfumature. Il verde, per esempio, se da un lato simbolizza la vegetazione e la vita, la prosperità e la speranza, dall’altro, potrebbe essere inquadrato quale segno di disordine e decomposizione, corruzione diabolica e venefica. Nell’essere distintivo del destino, può allora contrassegnare nei due sensi la sorte, come fortuna o fatalità. Essendo instabile chimicamente, non poteva che venire considerato mutevole, volubile, effimero, e quindi associato alla casualità, al gioco, all’amore, al denaro, all’infanzia (“anni verdi”!). È stato però inevitabile che, nel corso del tempo, alla speranza e alla naturalezza si affiancassero concezioni di libertà, salute, igiene, ecologia.

Sulle pareti delle grotte paleolitiche manca qualsiasi tonalità riconducibile alla gamma dei verdi. Anche una volta impratichito di tecniche di tintura, l’uomo ha padroneggiato tardi la riproduzione di questo colore, rimasto molto discreto, in confronto a rosso e a giallo, bianco e nero.

I modi di dire, gli usi lessicali delle parole ci dicono molto dell’importanza della percezione e successiva denominazione dell’esperienza visiva. Il vocabolario cromatico degli antichi greci era molto scarno ed essenzialmente impostato sul contrasto tra leukós (bianco) e mélas (nero). In maniera aspecifica si riconosceva qualche ambito della gradazione di rosso (erythrós).

Si tende a esprimere qualità di luce ed emozioni suscitate dalle sensazioni luminose (chiaro e scuro, lucido od opaco), oppure dalla superficie materica (liscio o ruvido, pulito o sporco, prezioso o grossolano). Kyanos, da cui ciano, indica genericamente qualcosa di più scuro rispetto a qualcos’altro, glaukos, per esempio celeste relativamente al blu, ocra piuttosto che marrone, oppure giallo, grigio, verde nei confronti del viola. L’idea però di glaukos è di scarsa concentrazione cromatica, pallore, slavato come chlorós, insaturo e talmente debole e spento da poter essere tradotto dal suffisso “-astro” di verdastro, giallastro, grigiastro. Il termine prasinós è di età ellenistica e rimanda al porro, e quindi un verde finalmente deciso. Qualcosa di analogo sarebbe avvenuto tra i latini con ferreus, aerius, venetus, lividus, caesius, caeruleus, che forse, pure etimologicamente, richiama dapprima la cera e, solo in un secondo momento, viene attribuito al colore del coelum e alla gamma dell’azzurro.

La questione della visione dei colori andrebbe però distinta dalla loro denominazione. Non riuscire a qualificare con una designazione azzeccata non significa non vedere le sfumature. Il lessico dei colori s’arricchisce e si specializza con il progresso tecnologico, sostengono Brent Berlin e Paul Kay in “Basic Color Terms. Their Universality and Evolution” (1969), mentre Pastoureau è del parere che determinati colori occupino ruoli secondari nelle attività come nell’immaginario umani, nella simbologia come nelle relazioni sociali. Perché le problematiche del colore non sono solo neurobiologiche, ma anche e soprattutto culturali. Insomma, se la natura crea il colore e l’occhio lo vede, il cervello lo interpreta e la cultura lo riconosce.

Un esempio è fornito dalle traduzioni del testo biblico; quando l’ebraico parla di “una stoffa ricca”, il latino dirà “pannus purpureus”, “una colonna di marmo scuro” diverrà “columna nigra marmorea” e questa confusione riguarda pure natura e qualità dei materiali, l’illuminazione, i paragoni, le metafore. Il simbolismo sembra relegato all’ambiguità del candore, o del pallore del bianco e a quella d’amore, o di collera del rosso. Fulvo, viola e marrone sono ancora riconducibili alla famiglia dei rossi. Yereq viene riferito all’erba, e lo smeraldo rientra tra le pietre preziose che formano il pettorale del sacerdote (Esodo 2, 17-20) e costituiscono le fondamenta della Gerusalemme celeste (Apocalisse 21, 19-21). Il verdastro è associato al cadavere e alla morte. Pure il verde ha valenza duplice: gioventù, vigore e resurrezione, oppure disordine, follia e avarizia.

I latini sembrano aver dominato meglio l’esteso campo cromatico e semantico del verde, a partire da un’etimologia che ingloba vir uomo, virtus coraggio, virga verga, virere prosperare, ver primavera, vis forza, viridis verde, viridarium giardino. “Viride – scrisse Varrone – est id quod habet vires”, verde è ciò che ha vigore! Virens metaforicamente designa l’ardore della giovinezza, herbeus il colore dell’erba, galbinus la sfumatura in giallo, glaucus sfocia nella gamma del grigio azzurro, prasinus o porraceus è più vistoso, subviridis pallido, perviridis scuro e denso, smaragdinus, lo smeraldo, vitreus il brillio del vetro. Gli oggetti di vetro infatti venivano prodotti in magnifiche tonalità di verde e di azzurro, ma per tutto il resto la tavolozza romana non offre spazio al verde che invece è molto apprezzato in Egitto, dove fu considerato benefico e sacro. Il verde è il colore dei coccodrilli e di Osiride, divinità della vegetazione, della terra e della fertilità, della crescita e della resurrezione, come dei riti funerari che proteggono il defunto nell’aldilà.

Sotto l’impero di Tiberio, il verde entra a far parte del vestiario femminile, forse a imitazione delle stoffe dei barbari. La veste a pieghe, stola, il mantello, palla, che prima viravano verso il giallo e l’arancione, aureus, luteus, tendono al galbinus, gialloverde. Diventa sinonimo di moda eccentrica ed effimera, come la mordenzatura. La sostanza colorante penetra male tra le fibre e la tinta sbiadisce presto.

Nel teatro di Terenzio (Hecyra) il personaggio del germanico viene descritto: “magnus, rubicundus, crispus, crassus, caesius/cadaverosa facie” (III, 4, 440-441), robusto, rubicondo, flaccido, capelli crespi rossi, faccia smorta, verdastra e anche gli indumenti che indossa sono a righe o a quadri con prevalenza di verde. Il personaggio è bislacco e distante dal decoro romano. I tradizionalisti denunciano i colores floridi, frivoli e volgari, perché troppo ornamentali e vivaci nel suscitare contrasti chiassosi, in opposizione alla sobrietà dei colores austeri, bianco, rosso, giallo, nero, per lo più monocromi. Quel che offende di più il gusto è infatti la varietas, il miscuglio, anche di semplici righe, se l’accostamento appare sconveniente. Nasce così l’etica dei colori! E il verde ne paga lo scotto, venendo considerato instabile e quindi non degno di fiducia e falso.

 

Al porro si attribuiscono qualità diuretiche e afrodisiache, allo smeraldo capacità di ristorare la vista. Dal berillo, utilizzato come lente d’ingrandimento, deriva il nome tedesco, brillen, per occhiali.

All’ippodromo, i tifosi  indossano casacche con i colori della scuderia del cuore, come la factio prasina di cui parla Petronio nel Satiricon (70, 10). I prasiniani rappresentano per lo più il popolo, i venetiani, blu turchese, i patrizi; si tratta quindi di fazioni politiche, e allora per ragioni demagogiche, Nerone, Domiziano e Commodo si schierano apertamente contro il Senato.

Con la comparsa d’un vestiario specifico per la celebrazione della messa cristiana (amitto, camice, stola, pianeta, manipolo) si tende a sottolineare di bianco le feste più importanti e con il nero la penitenza. In epoca carolingia viene introdotto l’oro, e il rosso per la pentecoste. Innocenzo III interpreta il verde come il colore della speranza nella vita eterna.

Il verde dev’essere scelto – scrive in De sacro altaris mysterioper le feste e i giorni in cui né il bianco né il rosso né il nero siano adatti, essendo un colore medio fra il bianco, il rosso e il nero”. Quest’ultimo potrebbe essere sostituito dal viola, e il verde dal giallo, ma sostanzialmente viene instaurato un sistema, i cui poli  restano trinitari, che però apre agli altri colori con la predominanza del verde “medio”, e pertanto il più utilizzato durante l’anno liturgico.

Sarebbe un’idea aristotelica, rinvigorita dalle invasioni barbariche che importano pratiche tintorie e abitudini di abbigliamento, con abbinamenti decisi, differenti dalla monocromia latina. Se il giallo dei romani tendeva all’arancione, quello dei germani è più verdastro, galbinus, da cui presumibilmente il gelb tedesco. Questo verde germanico appartiene anche ai normanni discesi dalla Scandinavia. I vichinghi che sbarcano per la prima volta in Groenlandia per buon augurio le attribuiscono proprio questo colore.

 

Il verde è il colore dinastico della famiglia di Maometto e assume valenza politica contro il nero degli Abbasidi di Baghdad e il bianco degli Omayyadi di Damasco e Cordova. Con la caduta dei Fatimidi, discendenti diretti della figlia del Profeta, il verde viene assunto come emblema religioso di tutto l’Islam e aggregatore del bianco degli Almoravidi e del rosso degli Almohadi, anche perché meglio si oppone giusto ai bianchi e rossi dei crociati. Il simbolismo lo rende venerabile, associandolo a speranza, ricchezza, felicità, paradiso, cielo e acqua, e ne impone la scomparsa dai tappeti che vengono calpestati.

La letteratura cortese intensifica i significati collegati ad amore, gioventù, vegetazione, avventura, lasciando spazio a quello scarto sempre presente tra il vero colore degli oggetti, la loro percezione individuale, la designazione lessicale, l’attribuzione allegorica, il giudizio d’ordine estetico e morale. Una giusta armonia è rispettabile e lecita, se ammirata nella misuratezza della natura. L’accostamento giallo verde è un contrasto troppo violento per la sensibilità medievale, molto più della contrapposizione rosso verde.

Il colore dell’acqua è freddo, quello dell’aria caldo, quale è umido quale secco, il nero è terra, il rosso fuoco; la pienezza può riferirsi alla saturazione oppure alla monocromia ed è difficile distinguere l’uniforme dal liscio, l’opaco dal pallido, o il chiaro dal lucido.

In ogni caso, il verde esprime serenità, rilassa lo sguardo, allieta la vista. “Confusis oculis prosunt virentia”, dice Seneca (De ira 3, 9, 2). E questa dimensione cromoterapeutica farà assurgere il verde a distintivo della farmacopea. La consuetudine dell’opportuna moderazione, “essendo un colore medio”, lo elegge a virtù di equilibrio e temperanza. Bianco, giallo, rosso, da una parte, dall’altra blu, viola e nero. I colori estremi sono lontani, duri e affaticano l’occhio, richiedendo uno sforzo maggiore, il medio è riposante, tranquillizzante, allegro (ridens, per San Bonaventura), persino luminoso. Per cui se ne giustifica l’impiego nella miniatura, gli smalti, le vetrate, almeno fino all’ascesa dei toni blu, in abbinamento al rosso.

Luogo di riposo e piacere diventa il verger, dal viridarium dei latini, mentre il sito dove si piantavano alberi da frutto veniva indicato con pomarium. Il giardino è uno spazio chiuso, squadrato, a cui si accede da una porta simbolica, la cui soglia viene varcata dopo aver superato prove rituali. Al centro di un prato (prael), disseminato di fiori profumati, una fragorosa fontana dalla quale si diramano i canali che irrigano i lati, orientati secondo il simbolismo dei quattro punti cardinali. A creare la colonna sonora sono gli uccelli canterini, ma nell’immaginario sono ospiti anche la fenice, il liocorno o il grifone. A imitazione del giardino delle delizie edenico, vi sarà un albero della conoscenza, che nella tradizione mediterranea potrà essere un fico o una vigna, in quella iberica un melograno o un arancio. In Europa continentale, questo ruolo è svolto dal melo, soprattutto per il nome, malum, sinonimo di sventura per la caduta e la perdizione che provocò all’umanità.

Nell’iconografia medievale viene ripreso dalla Genesi (“Faccia la terra germogliare la verdura…”) e dal Cantico dei Cantici (“un giardino chiuso”, “un giglio delle valli”…) il tema del Cristo giardiniere. Maria Maddalena, che piange nell’orto degli ulivi, scambia il risorto per il custode che l’accudisce, e questi, nel farsi riconoscere le intima di non toccarlo, “Noli me tangere” (Giovanni 20, 14-18).

Ogni pianta che risiede in uno spazio simbolico assume un significato proprio. Per i fiori, occorre tener conto di tante variabili, dall’epoca di fioritura, all’aspetto delle foglie, dal profumo al colore. Il giglio è sinonimo di purezza, la viola d’umiltà, la rosa di bellezza. Per gli alberi si fanno valutazioni analoghe, la quercia indica sovranità, l’ulivo la pace, il fico la fecondità, il tiglio salute, musica, amore; alcuni sono ambivalenti, come il pioppo, il cipresso e il nocciolo, altri dichiaratamente malefici, come il tasso, l’ontano, il noce.

La magia naturale ha stabilito delle corrispondenze tra gli elementi non sempre costanti, perché estrapolati da vari ambiti, che possono andare dalla medicina alla teologia, dall’astrologia al calendario, per cui pianeti, segni dello zodiaco, giorni della settimana, si mescolano a metalli, peccati capitali, temperamenti dell’uomo. Certo è che la primavera viene concordemente colorata di verde, l’estate di oro, arancione o rosso, l’autunno quando dal giallo, quando dal marrone, l’inverno o dal bianco o dal nero. Il risveglio della vegetazione (reverdie, rinverdire) s’accompagna a tenerezza, freschezza, gioia di vivere, quindi alla giovinezza, all’amore, alla festa e alla musica. E pure l’iconografia calendariale si adegua nel rappresentare i mesi di aprile e maggio con cortei, danze e feste galanti, mentre gli altri sono contrassegnati dalle vicende del lavoro agricolo, fienagione a giugno, potatura e aratura in marzo, ecc. Nel francese medievale si diceva che la natura comincia ad avriler e i giovani a fleureter, da cui, ça va sans dire, l’inglese to flirt. Poi, il maggio “si pianta”, con un arbusto dinanzi alla casa dell’amata, e “si porta”, s’esmayer, appuntandosi addosso elementi della vegetazione, corone di fiori, ghirlande di foglie. Nelle Très riches heures del duca de Berry, tutti i personaggi della miniatura, relativa a questo mese, portano foglie o ramoscelli e tre damigelle indossano vestiti di color vert gai, chiaro e vivace. Nei paesi di lingua tedesca, si dice ancora figurativamente che la gioventù abbia “del verde dietro alle orecchie”. L’antica dea Maia, che ha dato il nome al mese e i Floralia pagani, come la celtica Bealtaine soppiantata da Valpurga, sarebbero state sostituite con difficoltà dalla domenica delle palme, e il selvaggio “uomo frondoso” dell’equinozio, che dichiara il termine dell’inverno, dall’Annunciazione, l’arcangelo Gabriele, San Benedetto e San Giuseppe.

 

Il colore della primavera, che segna il risveglio della natura, è anche il colore dell’amore.

In questa stagione, – scrive Michel Pastoureau in “Verde, storia di un colore” (Ponte alle Grazie, Milano 2013) – la montata della linfa riguarda tanto gli alberi e le piante quanto i giovani e le giovani”. In particolare il verde riguarda l’amore profano, impaziente, adolescenziale, nascente, pieno di speranze, ma più tardi, equivocamente, pure afflizione e tradimento. Fedeltà e legittimità si propongono con l’azzurro, infelicità con il grigio, disperazione col nero, il giallo sta per gelosia, viola per il proibito. Il rosso si scinde in uno cristologico (“Ceci est mon sang”!), evocatore di carità e misericordia, l’altro, profano ed erotico, di dissolutezza e lussuria.

Lo spettro cromatico segue la vegetazione nascente. Il colore degli slanci e dell’intermittenza del cuore corrisponde all’elemento cangiante, frivolo, dell’incostanza giovanile: bianca è la prima infanzia, rossa la piena vigoria e blu la maturità, grigia la vecchiaia e nera la senescenza. La chiave della sensibilità medievale è riposta nella concezione di freschezza contrapposta all’aridità e secchezza del giallo, negativo.

Luogo deputato all’erotismo è il giardino, dall’intricato labirinto dell’esaltazione dei sensi, dove regna la dea Minne, capricciosa e imprevedibile, che impersona la poesia d’amore e scaglia frecce alle sue vittime. Il cuore che sanguina e il verde vestiario della divinità lunatica costituiscono l’insegna del Minnesänger, assieme al tiglio e al parrocchetto. Il pappagallino, dotato di parola, è simbolo di eleganza ed eloquenza e ben definisce l’amore cortese e la corrispondente colorazione, dando origine al paragone: “plus vert que papegeai”, affine a “plus noir que corbeau”.

Del tiglio s’ammirano maestosità, longevità, opulenza, la varietà dei prodotti terapeutici che ne derivano: tant’è che il suo nome tedesco Linde ha dato vita al verbo lenire, lindern. Oltre che dai segnali vibranti delle api che vi bottinano, l’allegoria musicale è richiamata dal fatto che molti strumenti si ricavano proprio dal suo legno. La dimensione amorosa è dettata dalla bellezza, dal profumo e dalla forma a cuore delle foglie.

Famoso il folio del Codex Manesse, in cui risaltano le esagerate fattezze delle foglie, tremule, all’unisono con i cuori degli innamorati. I trovatori ricorrevano all’espressione occitana, abbastanza intraducibile, “fin’amor” (hohe Minne), per qualificare una tipologia altrettanto estranea alla moderna sensibilità. Soltanto in una lirica del tardo secolo XII secolo, Peire d’Alvernhe citò il “cortez amors”, ripreso poi da Gaston Paris. La corteisie in opposizione a vilenie, propria delle persone rozze, venali, avare, maldicenti, codarde, dagli umili natali, è un insieme di virtù necessarie per il vivere  ammodo nella cerchia del signore medievale: con gentilezza, lealtà, franchezza, fedeltà, generosità, coraggio, distinzione, eleganza.

Eppure, franchezza e rettitudine sono espresse dal bianco, lealtà e fedeltà dall’azzurro, onore, coraggio e generosità dal rosso del desiderio. Al verde resta l’eleganza, la distinzione, nell’esaltare la propria dama e il sentimento che si prova. Rosso e verde assieme si traducono nella speranza di un rapporto carnale. Ma, se la dimensione erotica dell’atto sessuale e del possesso del corpo femminile dovesse essere lo scopo predominante, come si intuisce per i poeti meridionali, prevarrà il rosso. Altrimenti, per i Minnesänger germanici, che si pongono a una più rispettosa distanza, innamorati del desiderio e speranzosi d’una felicità impossibile, si avrà il predominio del verde.

Il colore della speranza che, nel basso impero romano, avvolgeva il neonato per augurargli buona fortuna e lunga vita, nel medioevo, viene fatto indossare alle ragazze da marito e più recentemente alle “caterinette” che il 25 novembre portano un cappello verde. Poi questo colore passò alle gestanti. Uno dei quadri più celebri di Jan van Eyck (Ritratto dei coniugi Arnolfini) lo dimostra con il colore dell’ampio abito della sposa, a cui si richiama l’immagine scolpita sopra la testata del letto di santa Margherita, protettrice delle partorienti. Luigi IX il Santo, per far concepire a Margherita di Provenza l’erede primogenito, andava a letto in una “stanza verde” di un palazzo all’Île de la Cité.

 

Fin quando non interviene l’araldica a gestire la tavolozza degli smalti, la cavalleria subisce l’influsso piuttosto vivace della corteisie. Ma, in quell’insieme di gara e spettacolo, che fu il torneo, il quale, contrariamente alla giostra, si svolge all’aperto, su di una distesa erbosa, i colori assumono un ruolo emblematico, contemporaneamente simbolico, estetico e deittico. E il vert si percepisce nelle assonanze foniche che slittano semanticamente in vair, vaio, verre, vetro, vere, vero, voir, vedere.

Il fratello minore di Perlesvaus, Gladwin è definito verde per il suo comportamento scomposto e rischioso. L’attribuzione è funzionale al racconto, per l’anticipazione che suggerisce la natura del personaggio, ma la scelta del termine comporta una precisazione aggiuntiva. Restando nella gamma dei rossi, sanguigno è crudele, fulvo ipocrita e fellone, affoué (affocatus) qualifica il collerico, vermiglio, seppure animato da cattive intenzioni, ha natali altolocati. Nero può essere un eroe (Lancillotto, Tristano), umile ma dignitoso, oppure negativo come il peccato, l’inferno, la morte, o il lutto. Bianco è sempre positivo, per lo più un anziano protettore. Verde un giovane audace o insolente. La manica verde di una dama, come quella di cui si sarebbe innamorato Amedeo VI di Savoia, il Conte verde, viene ricordata nel titolo d’una vecchia ballata della tradizione popolare irlandese, Greensleeves (“maniche verdi”, anche se forse potrebbe trattarsi della deformazione d’un precedente Greenleaves, cioè “foglie verdi”).

Con l’abitudine di rappresentare sulla superficie dello scudo sempre le stesse figure e i medesimi colori, nasce l’esigenza di vincolarli a rigide norme compositive, che codifichino un segno d’identità mediante un riconosciuto codice di rappresentazione. L’araldica non è prerogativa nobile, anche ecclesiastici, borghesi, artigiani, corporazioni, comunità hanno un proprio emblema. Negli stemmari reali, e non immaginari, però, mentre la frequenza del rosso appare persino eccessiva (segue il bianco e il giallo, più discosti azzurro e nero), il verde è piuttosto raro, forse proprio perché non spicca  in mezzo a una vegetazione abbondante, oltre che per le difficoltà tecniche di fissarlo o, meno probabilmente, per il fatto di appartenere simbolicamente all’Islam.

L’indice di frequenza del verde è molto elevato nella letteratura della Tavola rotonda, in cui gli stemmi non hanno bisogno di esistere materialmente, perché è più che sufficiente descriverli.

Nipote di re Marco di Cornovaglia, Tristano è vittima del destino che gli fa bere per sbaglio un filtro d’amore, vin herbé, a base di verbena, artemisia, valeriana e iperico. Guarisce da una ferita grazie all’intervento fitoterapico di Isotta. S’incontra nel frutteto con l’amante sotto un tiglio e comunica con lei con una foglia a forma di cuore. Costretto a s’enforester per sfuggire al mondo, nella silva diviene silvaticus, ma abile a costruire l’arc-qui-ne-faut. Per rivedere l’amata si traveste da giullare, buffone o musicante, i cui costumi sono tradizionalmente verdi. Nel Tristan en prose la descrizione dello scudo che gli viene attribuito è de sinople au lion d’or, per ribadire la simbologia dell’amore e della giovinezza, della foresta, della trasgressione, della disperazione, del destino tragico.

 

Un colore instabile, effimero come la bellezza e la fortuna, diventa, per forza di cose, ambiguo e pericoloso. Il verde tende a sdoppiarsi, in allegria e speranza, vert gai, seducente e vivace, oppure in malasorte e veneficio, vert perdu, spento, triste, inquietante.

Il bestiario diabolico si compone di neri (corvo, capro, orso, cinghiale, gatto…) e di verdi reali (rana, cavalletta, serpente, coccodrillo) o fantastici (drago, idra, basilisco, sirena…). L’anfisbena ha due teste, una sul collo, l’altra in fondo alla coda, l’idra sette; dall’estremità della coda il drago comune secerne un veleno mortale, come lo scorpione, ma il suo sangue garantisce l’immortalità a chi vi si bagna, come Sigfrido, a cui però s’attacca una foglia di tiglio per renderlo vulnerabile in quel punto. Amore e morte s’intrecciano come il verde dell’albero e il rosso del sangue di drago.

Sang du dragon, sandaraque, sandaracca è il pigmento ottenuto dalla resina della tuia o del cipresso, da non confondere con il réalgar prodotto sulla base di un solfuro di mercurio. Dalla rana si ricavano organi e umori, attributi di lussuria, utili a ricette di stregoneria che hanno a che vedere con la sessualità; dal rospo gli ingredienti per nuocere. Sia d’origine animale (rana, rospo, vipera, scorpione), sia  vegetale (cicuta, tasso, digitale, belladonna), il veleno è sempre verde, con l’eccezione della mela di Gawain e Biancaneve.

Il coccodrillo, nonostante l’etimologia del nome (croceus, croco) viene dipinto di verde come le lucertole. La maggior parte di questi animali verdi vive in acqua, un mondo vischioso mostrato dalle linee ondulate su sezioni a varie tonalità insature. Pallido, ombreggiato, spento, subviridis, il verdastro attiene a malattia, putrefazione, decomposizione. Un colore cadaverico attribuito a revenants, spettri e spiriti della notte. Nuitons, folletti, korrigan, kobold, troll, gobelin, ninfe, elfi, fate, streghe. A volte benevoli, più spesso volubili e faceti, altre volte negativi.

La fisiognomia considera gli occhi verdi espressione di natura perversa e dissoluta, malvagia, segno di astuzia, falsità ed edonismo. Se piccoli e infossati, sono tipici di traditori, iettatori, meretrici, in ogni caso degni del basilisco, del serpente (“yeux verts, yeux de vipère”) e del diavolo in persona: “au Paradis les yeux gris, au Purgatoire les yeux noirs, en Enfer les yeux verts”.

Particolarmente negativa è avvertita l’eterocromia. L’uso cavalleresco del XIII secolo richiede che per un anno dall’investitura lo scudo si mantenga monocromo. Un secolo più tardi appare anonimo, in versi allitterativi di un dialetto delle Midlands, Sir Gawain and the Green Knight. Uno sconosciuto cavaliere si lascia decapitare per raccattare la sua testa e allontanarsi, un tema inquietante, ma già noto alle agiografie di martiri come san Dionigi. Il colore verde è onnipresente, a cominciare dal personaggio che sfida il protagonista, fino all’insolita cappella dell’appuntamento, difficile da raggiungere in piena foresta, e alla cintura magica, prova d’amore, e serve a contrassegnare la dimensione esistenziale del capriccio e dell’incertezza del destino.

Nel poema allegorico di Christine de Pisan, Livre de la mutation de Fortune, la tristezza, Meseur, è grigia, il caso, Eur, verde e la dea doppia, dell’intraprendenza e dell’erotismo (“essere baciati dalla…”), sia verde che gialla, secondo una bicromia che ne accentua la versatilità.

Der grüne Jäger guida, nella sua “caccia selvaggia”, l’armata di Wotan. Mesnie Hellequin, da cui l’arlecchino eterocromo, o Der Erlk?nig di Goethe ricordano che lo scopo della caccia rituale rientrava in un cerimoniale di assordante baccano riflesso contestualmente in un chiassoso cromatismo del vestiario.

 

Giuseppe M. S. Ierace

 

 

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