Psicopedagogia pratica: Del fare libri

Per Italo Calvino (1923-1985), la cosa più importante in assoluto era il piacere della lettura, ancor più dei contenuti morali o critici dei brani. Una sua antologia scolastica (“La lettura”), pubblicata da Zanichelli, viene ricordata dallo storico Gianni Sofri (in “Del fare libri”, Zanichelli, Bologna 2013) come un testo arricchito da note sempre opportune e curate con maniacale acribía. L’autore de “Il visconte dimezzato” (1952), “Il barone rampante” (1957), “Il cavaliere inesistente” (1959) e di “Marcovaldo” (1963) scarta gli onnipresenti nomi, su cui gli studi accademici si accaniscono ossessivamente, per scegliere, tra i non convenzionali, una selezione che al rigore affianchi la leggerezza, alla semplicità la correttezza della forma, alla fantasia la descrizione della cruda realtà.

Calvino non aveva un gran ricordo dei suoi professori, né una grande opinione della scuola in genere. Vedeva in essa un’istituzione staccata dalla vita, incapace di immettere i ragazzi nei problemi reali e tutta dedita, invece, al culto degli esami come sanzione burocratica e crudele insieme di un lavoro svolto senza entusiasmo. Non arrivava a parlare, per quanto io ricordi, di ‘esamificio’, come si sarebbe poi fatto nel ’68, ma il concetto era quello. E tuttavia, fin dalle sue origini di scrittore e intellettuale, Calvino era più volte intervenuto in favore della letteratura come educazione e di un attivo impegno per la diffusione della cultura, partecipando alle battaglie di Vittorini e di altri per la diffusione delle biblioteche popolari…” .

Con lo pseudonimo di Tonio Cavilla, anagramma del suo vero nome, si era sentito costretto a censurare i suoi racconti (“Il barone rampante” e “Marcovaldo”) in quegli ambiti ritenuti dalla maggioranza degli insegnanti poco praticabili, come religione e sessualità. Averlo fatto non in prima persona, ma percorrendo una falsa condivisione di responsabilità, gli sembrò forse, per molti versi, più rassicurante. In quella particolare situazione storica, piuttosto vicina all’introduzione della scuola media unificata e soprattutto segnata da un impegno politico via via crescente (che avrebbe trovato un naturale coronamento nel ’68), lo strumento didattico del florilegio antologico avrebbe dovuto adeguarsi a particolari impostazioni sia di contenuti sia di forme.

Alla sopravvivenza della cosiddetta “bella pagina”, indisturbatamente dominante nei decenni precedenti, dal carducciano Alfredo Panzini (1863-1939) al prosatore Emilio Cecchi (1884-1966), si associava una tendenza, diciamo così, “enciclopedica”, relativamente almeno ai contenuti che avrebbero dovuto aprire lo spiraglio a quel mondo in evoluzione, spudoratamente ottimista per l’avvenuta ricostruzione postbellica.

Più che il valore letterario, insomma, contava il messaggio, in nome di una concezione del sostanziale impegno moraleggiante, e pur tuttavia di superficie.

L’ambizioso progetto di trasformare ogni ragazzo in un ipercritico analista portato a smontare i meccanismi testuali al fine di smascherarne le astuzie letterarie, andava a tutto detrimento della “lettura per la lettura”. La direzione intrapresa da Calvino si muoveva in funzione di questa riscoperta, senza che il brano venisse sopraffatto da una sproporzionata quantità di annotazioni cavillose o superflue.

Mi pare che non possiamo dare per un breve brano una massa di note più lunga del brano. Se tante note sono indispensabili vuol dire che il brano è stato scelto male e va eliminato. – scriverà in una lettera del 5 novembre ’68 all’Editore – Ma sono davvero indispensabili?… Se proprio si vuole mettere una nota a stadera si dica: bilancia come quelle usate dai fruttivendoli al mercato”.

 

Quella di Calvino appare come una lezione di vita e d’umiltà. Ma la qualità che fu maggiormente apprezzata dai collaboratori redazionali era quella visione artigianale genericamente distribuita a tutto il lavoro culturale. La capacità d’insegnare con l’esempio il valore di una scrittura semplice e chiara, impostata sullo scopo principe di facilitare la comprensione, invece di confonderla con eccessive teorizzazioni.

Si è voluto fare un’antologia divertente che rappresenti agli occhi dei ragazzi il piacere del leggere, da ciò la ricca scelta di racconti d’avventura, di science-fiction, di racconti umoristici” (Nota dell’Editore, tratta da una lettera dell’autore de “Le Cosmicomiche” (1965) e “Ti con zero” (1967) del 31 dicembre ‘68).

Si era rifiutato, innanzitutto, di imitare i suoi precursori, nel “fare quello che mi pare facciano tutti gli autori di antologie, cioè antologizzare le antologie già antologizzate”. Non per questo escluse a priori Defoe, Cervantes, Nievo, Stevenson, Svevo, Tolstoj o Cechov. La sua scelta dei brani, fra loro collegati, era finalizzata alla presentazione, all’avviamento e infine all’invito a leggere l’intero romanzo. Accanto a frammenti di Robinson Crusoe, Don Chisciotte, Confessioni d’un italiano, ecc. introdusse autori non canonici, che di rado sarebbero entrati in antologie scolastiche, ma che corrispondevano alle sue personali preferenze: Bierce, London,  Potocki, Saki, Proust, Sillitoe, Šklovskij, Dylan Thomas…

La caratteristica più originale l’avrebbe impressa nella sezione alla quale aveva dedicato maggior premura: “Osservare e descrivere”, in cui si poteva trovare sia il machiavellico schieramento d’un esercito in battaglia, sia la minuziosa descrizione, da parte di Alain Robbe-Grillet, d’un pomodoro tagliato in quattro, oppure anche la patata, il sapone, il carbone da “Le parti pris des choses” (1942) di Francis Ponge (1899-1988).

La tematica politico-sociale venne rappresentata dal divertente fumetto di Frank Dickens imperniato sulla figura dell’impiegato Bristow. La suddivisione dei brani s’incentrava sulle funzioni del linguaggio, quindi l’osservazione, il comico, l’avventura, la storia, il racconto di viaggio … in una versione  ammodernata dei generi letterari, nient’affatto appesantita da progettualità ambiziosa né da forzate ricercatezze di coerenza a ogni costo. L’uso del linguaggio semmai avrebbe dovuto sciogliere dei nodi culturali sostanziali, senza per questo cedere alla moda del momento. Insomma quell’antologia non voleva essere un contenitore in cui inserire pagine non organiche.

 

Il padre di Calvino lavorava come agronomo in America Latina, prima nel Messico e poi, con la moglie Eva, a Cuba. “Questo spiega come mai Italo sia nato nel 1923 a Santiago de Las Vegas, una cittadina presso L’Avana. – ricorda Sofri alla fine del capitolo dedicato al grande scrittore – Quando tornarono in Italia, nella loro villa di Sanremo, fecero del grande parco che la circondava, approfittando del clima della riviera di Ponente, una specie di straordinario orto-giardino tropicale. La signora Eva soffriva però da qualche tempo di una fortissima allergia che le impediva anche solo di affacciarsi alla porta della villa: una specie di crudelissimo contrappasso. Un ricordo che invece mi diverte molto ancora adesso è questo. Poco tempo prima, mia suocera, che era messicana, era tornata da una visita ai suoi parenti portandoci religiosamente il primo avocado della nostra vita; altrettanto religiosamente noi lo avevamo fatto a pezzetti e degustato. Raccontai questo alla signora Eva, che non commentò. Ma al momento della mia partenza venne a salutarmi reggendo fra le braccia una cesta contenente una trentina di avocado cresciuti nel suo giardino”. Quel suo giardino al quale sono stati dedicati interi libri, oltre che alla famiglia dei “baroni rampanti”, e al più celebre ortolano Libereso Guglielmi (per esempio “Oltre il giardino”, a cura di Claudio Porchia, Socialmente, Granarolo dell’Emilia 2008).

 

Gianni Sofri, l’autore di “Del fare libri. Mezzo secolo da Zanichelli”, ha scritto testi scolastici che hanno letteralmente cambiato il modo di fare didattica, sia per quanto riguarda la sua materia d’insegnamento universitario, la storia, ma soprattutto per l’imprescindibile intreccio ch’essa mantiene con la geografia, fin troppo bistrattata nelle scuole italiane, come se, senza conoscerla, potessimo capire il mondo nelle forme che la storia gli ha dato. In questo caso, l’assioma che poteva permettersi un Napoleone, “l’intendance suivra”, non sarebbe mai stata di grande aiuto.

Una prima ragione in difesa della geografia è appunto squisitamente storica, nel senso cioè che a essa si deve quello stesso tipo di rispetto che va riservato agli anziani, in quanto depositari di esperienze accumulate in saggezza. L’antichità della disciplina lo attesta inequivocabilmente. Erodoto viene considerato il fondatore della geografia, almeno quanto della storia e dell’antropologia.

Gli antichi greci rappresentavano la storia in proporzioni gigantesche, ma con due occhi corrispondenti alla cronologia e alla geografia, appunto. Né l’interdisciplinarità deve mancare di rispetto alle varie competenze, sottovalutandone i contenuti, rendendo intercambiabili, e burocratizzabili, certi settori della conoscenza a favore della preponderanza del metodo d’insegnamento e delle discipline pedagogiche tout court. Le quali dovrebbero mirare a offrire “chiavi di lettura” per orientarsi in ciò che i classici avrebbero definito i “luoghi comuni della cultura”, come per esempio i miti che recano in sé lezioni di sapienza a un tempo profonde e attuali.

Sottolinea Luc Ferry, il ministro francese della Gioventù, dell’Educazione nazionale e della Ricerca del governo Raffarin (2002-2004), ne “La saggezza dei miti” (Garzanti, Milano 2012): “Soprattutto, i miti greci sono alla base della nostra civiltà. Hanno plasmato la nostra concezione del mondo. Sono entrati profondamente nel nostro linguaggio: ‘il pomo della discordia’, ‘prendere il toro per le corna’, un ‘dedalo di viuzze’, ‘il vaso di Pandora’ sono tutte espressioni che arrivano dalla mitologia greca, anche se ce ne siamo dimenticati. Di più. L’insieme dei miti ci offre una rappresentazione del mondo, che appare come un ente buono e luminoso, dominato dall’armonia. Ma quelle storie antiche e appassionanti ci dicono anche che se l’universo fosse nato in perfetto equilibrio, allora non ci sarebbe vita…”.

 

Italo Calvino, fantasioso fondatore di Città invisibili (1972), si pronunciava per la coesistenza di queste materie di studio. “Anche la storia senza la geografia è alla lettera senza la terra sotto i piedi. Il luogo è lo scenario del pensiero”. Eppure, dietro l’influenza dell’idealismo, in Italia, a differenza che in Francia, la storia venne indissolubilmente abbinata alla filosofia.

La geografia stimola la fantasia e in essa ci si potrebbe immergere per sognare a occhi aperti, giocare e divertirsi, magari senza allontanarsi troppo, come ha fatto Xavier de Maistre (1763-1852) in Voyage autour de ma chambre (1795) ed Expédition nocturne autour de ma chambre (1825).

Come Calvino costruisce un “Castello dei destini incrociati” (1973) con le carte dei Tarocchi, o Alain Robbe-Grillet disegna la “Topologie d’une cité fantôme” (1976), Robert Louis Stevenson (1850-1894) inventa delle mappe per trovarvi ispirazione poetica : “Il sofà una montagna il tappeto il mare,/ lì una città sarà edificata,/ una torre, un mulino, una chiesa, un altare, / e un porto con la mia nave attraccata” (“Il mio letto è una nave”, traduzione di R. Musappi).

Una volta ridotto l’universo allo spazio chiuso al quale si deve adattare, ogni bambino organizza la propria geografia. In “Una stanza piena di giocattoli” (traduzione di I. Rizzato, Archinto, Milano 2012), Alberto Manguel lo ribadisce esplicitamente: “All’interno dello spazio che gli è concesso, viene ricreato un mondo – colline, città, strade, giungle – attraverso il quale esplorerà ciò che sta oltre. I bambini delle tribù nomadi del deserto del Gobi giocano a costruire il mondo allo stesso modo dei loro simili nei palazzi cittadini. Ogni bambino gioca con cavalli e soldati veri dentro le mura di una città vera… Non solo il tappeto. Un bambino sdraiato tra i suoi giocattoli, che guarda il soffitto vuoto, immagina come sarebbe abitare quello spazio bianco e sgombro al centro del quale si erge l’unico albero costituito dal lampadario, per creare, sulla superficie intonsa, colline e valli, città e foreste, per popolarle con le proprie creature. Possedere lo spazio ma cercarne anche di nuovi. Capovolgerlo, disegnare il paesaggio, far vivere di nuovo l’universo”.

Quasi un secolo e mezzo prima, Charles Baudelaire (1821-1867) faceva considerazioni analoghe: “Per il ragazzo, innamorato di mappe e di stampe, l’universo è pari alla sua vasta brama. Come è grande il mondo alla luce della lampada…”.

 

Nella metà del Trecento, diciamo all’incirca durante l’adolescenza dell’umanità, i Mandeville’s Travels, furono una sorta d’inaffidabile guida turistica imperniata sulla discutibile, bensì fantasiosa, ricostruzione della conoscenza del tempo, da Giovanni da Pian del Carmine a Odorico da Pordenone. E che dire dell’oriente lontano conosciuto da Marco Polo o quello evocato dalle avventure, nell’Oceano indiano, di Sindb?d, il marinaio, senza citare Luciano, il Gulliver di Swift, il rabelaisiano Gargantua o i Voyages di Cirano de Bergerac…

L’aspetto ludico della lettura e dello studio della geografia, come viaggio immaginario, sogno d’evasione ed esercizio della fantasia è stato forse tralasciato da un’eccessiva diffidenza di adulti e insegnanti. Eppure, in un racconto, Rimedio: la geografia, di Luigi Pirandello (1867-1936), è il padre di una bambina che cerca di superare una notte davvero tristissima per lui, sfogliando l’atlante della sua figliuola: “Ero stato tutto quel tempo nell’isola di Giamaica, dove sono le Montagne Azzurre, dove dal lato di tramontana le spiagge s’innalzano grado grado fino a congiungersi col dolce pendio di amene colline, la maggior parte separate le une dalle altre da vallate spaziose piene di sole, e ogni vallata ha il suo ruscello e ogni collina la sua cascata. Avevo veduto… le piantagioni dello zucchero e del caffè… ma proprio veduto tutto, col sole che è là su quelle praterie, con gli uomini e con le donne e coi ragazzi come sono là, che portano con le ceste e rovesciano a mucchi sugli spazi assolati il raccolto del caffè ad asciugarsi; con la certezza precisa e tangibile che tutto questo era vero, in quella parte del mondo così lontana… Ecco, nient’altro che questa certezza d’una realtà di vita altrove, lontana e diversa, da contrapporre volta per volta alla realtà presente che v’opprime…”.

Antonio Gramsci (1891-1937) ammoniva che lo studio è fatica. Apprendere concetti relativi ad argomenti per i quali si provi interesse, ça va sans dire, è meno complicato dell’acquisizione di informazioni tediose. La polemica contro il nozionismo è servita comunque a reagire contro l’affollamento del superfluo.

In “Non è un mondo per vecchi. Perché i ragazzi rivoluzionano il sapere” (Bollati Boringhieri, Torino 2013), Michel Serres racconta come, ai tempi di Montaigne e dell’era Gutenberg, il sapere accumulato (”testa ben piena”) si sia oggettivato nei libri, per cedere il primato alla scrittura (“testa ben fatta”). Adesso, invece, al posto della testa, “ben fatta” e predisposta alla funzione cognitiva, ci ritroviamo con un “moncone di assenza”, accessibile, a cui potersi connettere (con i motori di ricerca). Tanto che l’originalità finisce per risiedere in un vuoto!

 

Una prima regola della casa editrice presso la quale ha lavorato Sofri consisteva nell’accompagnare ogni illustrazione, foto, disegno o cartina, da un’idonea didascalia che aggiungesse al discorso che si andava facendo un appropriato corollario esplicativo, secondo il vecchio motto “Laboravi fidenter”. Si sarebbero evitate le cartoline turistiche, offrendo spazio agli elementi antropici di geografia.

La storia dei fatti, che i francesi chiamano événementielle , si potrebbe così ridurre a una cronologia ragionata che inglobi accadimenti politici a situazioni economiche, condizioni tecnologiche e culturali.

La concezione mnemonica della storia in elenchi di eventi, nomi, date, battaglie… è stata sostituita dal ragionamento e dallo sforzo di comprensione delle radici profonde dei fenomeni umani del passato, posti in relazione a quelli contemporanei. I problemi etno-antropologici vanno ampliati alla moda, all’alimentazione, ai viaggi, agli stili di vita d’un’epoca. L’interdisciplinarità non trascura mentalità e sentimenti d’una popolazione, senza tralasciare le gesta dei singoli. La documentazione va quindi integrata, ricostruendo dalla lettura dei testi originali un discorso storico organico, fino ad assimilare la storia degli uomini a quella della natura.

 

“… Ma ora fermiamoci e ragioniamo. – ci dice bruscamente Gianni Sofri – Pensiamo proprio che sia dannoso conoscere il nome del fiume più lungo del mondo o quello della capitale del Giappone; sapere che il Canada è più grande degli Stati Uniti e che la Cambogia sta in Asia e non nell’America centrale; avere almeno un’idea di quanti abitanti abbia l’India? Oppure, cambiando materia, che è esistito un signore chiamato Giulio Cesare, e che quando si dice l’’ottantanove’ si allude alla Rivoluzione Francese? Certo, quando si apre la porta alle nozioni, non è sempre così facile richiuderla: dove sta il confine? E tuttavia, non va mai dimenticato questo problema: che uno dei compiti della scuola è quello di trasmettere di generazione in generazione – e sia pure gradualmente e continuamente rinnovandola – una cultura comune senza la quale non sarebbe più possibile a una comunità riconoscersi e comunicare al proprio interno. Di questa cultura comune la geografia è da sempre parte attiva e importante”.

Non si tratta qui di assecondare quell’ossessione identitaria di cui  parla Francesco Remotti (“L’ossessione identitaria”, Laterza, Bari 2010), ma di rendersi conto di dove ci si trova!

La geografia “serve” a saper seguire un itinerario, leggere una mappa, capire i paesaggi nella storia e nelle forme in cui ci appaiono; organizzare un viaggio, evitando di farsi dirottare dove l’agenzia turistica ha interesse a mandarci, capire almeno in che lingua saremo apostrofati. Conoscere i problemi del luogo, il modo in cui vengono affrontati, è già geopolitica ed educazione civica, un’educazione civica che persegue però la descrizione realistica del funzionamento della cosa pubblica piuttosto che la catechizzazione prescrittiva d’una falsa democrazia.

Una Angela Merkel che non riesce a collocare al giusto posto la capitale della Russia non è certo rassicurante per il destino economico dell’Europa! In Italia non si è stati da meno; la zecca di stato ha coniato monete con grossolani errori circa i confini della Germania. E che dire del Gronchi rosa, che tanto ha appassionato i filatelici!

Sappiamo tutti che il clima (il nostro clima) sta cambiando in dipendenza da eventi che si svolgono anche lontano da noi, per esempio nelle foreste dell’Indonesia. – aggiunge Sofri – E di recente siamo stati costretti a ricordare che un soffio di vento partito dalla Borsa di Tokyo o da quella di Singapore può arrivare rapidamente (e pericolosamente) a lambire quelle di Milano o di Francoforte. In questo mondo in cui tutto si tiene; in cui assistiamo quotidianamente a cadute di confini e a ricostruzioni di nuovi confini; in cui è possibile – almeno teoricamente – pranzare e cenare nello stesso giorno in continenti diversi, la conoscenza geografica non può non occupare un posto fondamentale”.

 

Il massimo valore educativo corrisponde alla comprensione degli altri, alla tolleranza reciproca, insomma a una convivenza civile. A maggior ragione, oggi, che l’esotico non lo si deve ricercare troppo lontano, visto che ormai ci si è trasferito in casa.

Eric J. Hobsbawm ha osservato come sui marciapiedi delle nostre città gli africani ci invoglino a comprare monili di perline di vetro identici a quelli che i coloni europei vendevano ai loro antenati in cambio di schiavi. I minareti potrebbero presto svettare più alti dei campanili, modificando lo skyline di molti panorami.

Quale materia d’insegnamento – si domanda Sofri – pensiamo sia, più e meglio della geografia, deputata a parlarci delle grandi religioni mondiali, delle migrazioni, dei conflitti, delle diverse culture (oltre che delle produzioni e dei mercati)?”.

Lo studio delle religioni comparate, dell’antropologia, dell’economia, della politica, o della diplomazia, troverebbero specificità di obiettivi psicopedagogici, se di volta in volta venissero adeguatamente esposti agli studenti, che già dalla storia apprendono di Maometto e dell’Islam, della caduta di Costantinopoli e delle incursioni barbaresche, dello sfaldamento dell’impero ottomano e di Lawrence d’Arabia. Individuare, però, le più alte concentrazioni di musulmani in Indonesia, Pakistan, Bangladesh e India, piuttosto che in Egitto, è compito precipuo della geografia.

Ebbene, tutto questo interesse per fondamentalismi e integralismi nel mondo, non dovrebbe neppure distrarre dallo studio, parecchio sacrificato, delle regioni dello stivale, evitando quelle specializzazioni  che non risulterebbero formative a una certa età, in cui la sintesi e la globalità devono preparare le fondamenta su cui impostare una cultura. Spezzettare geografia fisica in scienze della Terra o geologia potrebbe magari aiutare ad approfondire i meccanismi della tettonica a zolle, senza però spiegare quali siano le ragioni storiche, economiche e culturali che accalcano delle popolazioni giusto nei territori più minacciati da terremoti ed eruzioni vulcaniche.

Silenziosamente la geografia è andata man mano scomparendo dall’insegnamento, sulla base dell’assunto che la memoria vale meno dell’intelligenza, come se l’una potesse esercitarsi senza l’altra. Privarsi di una facoltà, come la mnesica, si traduce nell’accantonamento dell’utilità del sapere in genere e contribuisce a disgregare socialmente, distruggendo quanto ci accomuna e si condivide con gli altri, e, alle estreme conseguenze, ci aliena la comprensione e lo stesso linguaggio, togliendoci da sotto i piedi l’unico vero punto d’incontro. Una continua innovazione poi non può sopraffare la trasmissione del sapere, in quanto quest’ultimo abbisogna certamente di costante aggiornamento, ma alla fin fine dovrà pure essere trasmesso!

 

Giuseppe M. S. Ierace

 

 

Bibliografia essenziale:

Ferry L. La saggezza dei miti, Garzanti, Milano 2012

Manguel A. Una stanza piena di giocattoli, traduzione di I. Rizzato, Archinto, Milano 2012

Porchia C. (a cura di) Oltre il giardino. Le ricette di Libereso Guglielmi, Socialmente, Granarolo dell’Emilia 2008

Remotti F. L’ossessione identitaria, Laterza, Bari 2010

Serres M. Non è un mondo per vecchi. Perché i ragazzi rivoluzionano il sapere, Bollati Boringhieri, Torino 2013

Sofri G. Del fare libri. Mezzo secolo da Zanichelli, Zanichelli, Bologna 2013

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