Il Dr. Giuseppe Maria Silvio Ierace, neurologo, psichiatra, psicoterapeuta, come Neurologo, ha lavorato, in qualità di Assistente, presso la Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’Università di Messina; quale “professore a contratto” presso l’Università di Messina, ha insegnato “Psicogeriatria” (nella Scuola di Specializzazione in Geriatria) e “Psichiatria Sociale” (nella Scuola di Specializzazione in Igiene Mentale); da Primario Psichiatra, ha diretto un Centro di Salute Mentale della Provincia di Reggio Calabria. Vive a Polìstena, ai piedi delle colline che degradano dall’Aspromonte alle Serre, prevalentemente nel periodo autunno-inverno, ed a Riace, sulla costa jonica, in primavera-estate.
Recentemente intervistato da Cristina Almeida per “De Caso Com A Medicina&Saùde (Històrias sobre e para a saùde e o bem estar)” – http://decasocomamedicina.wordpress.com -,
http://noticias.uol.com.br/ultnot/cienciaesaude/ultnot/2010/01/11/preferencia-por-certos-sabores-pode-revelar-tracos-da-personalidade.jhtm
ha così risposto alla prima di una serie di domande sulla “Psico-socio-etno-antropologia del gusto, del disgusto, delle scelte nutritive e del comportamento alimentare”:
Come è nato il suo interesse per la psicologia della nutrizione?
Le motivazioni possono essere innumerevoli, a partire dal fatto obiettivo che il cibo, come il sesso e poche altre cose, sono in grado di procurarci quell’innocuo “piacere” che ci pone nella posizione, un gradino più in alto, nella scalata che tentiamo di compiere per il raggiungimento della “felicità”.
Un’altra ragione va ricercata nella mia storia professionale, durante la quale ho avuto molto spesso la ventura di imbattermi in persone affette da svariate sindromi mentali che comportavano “disturbi del comportamento alimentare” e, cosa da non trascurare, quell’incapacità ad assaporare il gusto per le cose di tutti i giorni, o “anedonia”, che fa sprofondare la depressione dell’umore nel baratro della tristezza “vitale”.
Una terza motivazione è un po’ più individuale, perché riguarda la mia personale scelta alimentare “non cruenta”, tesa ad escludere tutti quegli alimenti che provengono dall’uccisione delle creature che accompagnano il nostro viaggio su questo pianeta.
Non nascondo che col tempo questa consuetudine si è impigrita, trasformandosi in un’abitudine priva del bisogno di essere supportata. Ma a risvegliare l’impegno “non violento” purtroppo non mancano gli avvenimenti spiacevoli che spesso si è costretti a registrare. Da qui la mia spontanea attenzione nell’osservare i miei commensali, o le modalità di nutrirsi, nonché un maggiore interesse nei confronti di quella materia, che per la sua grandissima complessità, definirei “psico-socio-etno-antropologia del gusto, del disgusto, delle scelte nutritive e del comportamento alimentare”.
Ho cominciato ovviamente con il valutare dapprima il mio medesimo comportamento, contrassegnandolo nella categoria di una ostentata “ortoressia”, la quale potrebbe teoricamente occupare tutto quell’asse che congiunge l’ossessione con la paranoia, fino al delirio di contaminazione e di veneficio. Poi, ho dovuto necessariamente affrontare i pregiudizi in materia, che relegano la pratica vegetariana a “dieta” rinunciataria, senza prendere in considerazione che l’amore per gli animali non significa affatto perdere il gusto per la vita, o non riuscire a distinguere i sapori, oppure, cosa forse ancora più grave, non avere il diritto di esercitare l’arte del buongusto, la “gourmandise” dei francesi.
Olfatto, gusto, odori, sapori, aromi, sono stati un tempo per l’uomo difesa imprescindibile, soprattutto nell’accettazione cosciente degli estremi opposti della ricerca e dell’avversione. E si dia il caso che un po’ tutte le “entità del disgusto” (come vengono denominate) relative al cibo sono praticamente di origine animale. E’ da quelle che occorre iniziare per comprendere il tragitto che sempre più ha allontanato l’umanità dal cannibalismo, elaborando (e mantenendo tuttora) rapporti ambigui con necrofagia e necrofilia, per andare ad approdare all’estetica della biofilia.
Si suppone che il “disgusto” sia una sorta di “spostamento”, o di altro meccanismo di difesa. Tanto per fare un esempio banale, qualcuno potrebbe anche non uscire pazzo per i broccoli, ma nessuno si sentirà mai veramente “disgustato” all’idea di doverli mangiare. Il primo a venire in mente è il cosiddetto “disgusto primigenio”, alquanto spesso manifestato dai bambini, al semplice pensiero di dover ingerire un “cadavere”, quello del coniglio o dell’agnello con cui poco prima avevano giocato…
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Sul sito www.nienteansia.it si può fare riferimento agli articoli sottoelencati:
“L’inquietudine nel piatto, ovvero dell’ortoressia…”
“Alimentazione, cultura e società … medicalizzazione e de-medicalizzazione del sovrappeso e dell’obesità…”
“Peccati di Gola peccati di parola…”
“Psicosociologia dell’alimentazione – Il Cibo come Linguaggio…”
“Micofobia micofagia…”
“Del sentire degli odori, del sapere dei sapori …”
“Il Simbolismo del cibo e la pentola di Prometeo…”
“Glucofilia carbofobia…”
“Neofobia, apprendimento alimentare…”
“Il Segreto dei cibi, entità del disgusto…”
“Empatia di un cervello goloso…”