Pet Therapy: Zooantropologia e Dimensioni di Relazione

Da molti anni ormai si parla del significato terapeutico del rapporto con l’animale nelle diverse applicazioni assistenziali che hanno dimostrato evidenze scientifiche, cosicché le ricerche pionieristiche degli anni ’60 condotte da Boris Levinson non sono più una novità. E tuttavia non basta affermare che la presenza del pet “fa bene” altrimenti rischiamo di cadere in visioni magiche e taumaturgiche dell’animale quali si possono rinvenire nei racconti popolari: “se vuoi guarire da un’artrosi prendi una rondine in mano e toccati sulla parte malata”. D’altro canto questa versione naïf della terapia assistita è facilmente divulgabile e in un contesto mediatico di banalizzazione del rapporto con gli animali ci sta la possibilità che l’ennesima rubrica consigli l’adozione di un pet per curare i disturbi del figlio o migliorare il tono cardiocircolatorio dell’anziano. Va subito smentita questa interpretazione: l’animale non è una medicina o un ricostituente, bensì un soggetto relazionale che quando entra nelle nostre case richiede un preciso impegno di affiliazione, cioè di introduzione corretta nella sistemica familiare. Pensare di adottare un animale per avere un beneficio terapeutico è già un modo sbagliato per iniziare la relazione affiliativa o di proprietà (pet-ownership) che, viceversa, chiede uno slancio disinteressato e una piena assunzione di responsabilità. Inoltre per apportare un beneficio è necessario affrontare i problemi specifici del paziente attraverso attività mirate per cui, mentre un bambino iperattivo richiede attività di relazione calmanti e strutturanti, un anziano depresso e solipsistico ha bisogno di attività che stimolino le leve motivazionali. Se lasciamo il paziente relazionarsi in modo spontaneistico con l’animale è più facile che emergano attività di relazione che non migliorano il suo stato o addirittura lo peggiorano, per esempio un bambino iperattivo farà giochi eccitatori mentre un paziente schizofrenico si produrrà in giochi di finzione. Non è vero che l’animale per le sue caratteristiche di appeal o di facilità relazionale (non giudica, non è in competizione, ha molti canali di comunicazione, offre argomenti di base) faccia sempre emergere ed eserciti ciò che c’è di meglio nella persona o dia modelli utili al suo miglioramento.

Diciamo che è un referente che sa guadagnare la fiducia della persona, che ha un forte potere seduttivo,  che esercita un’influenza e facilita i processi di cambiamento ma perché tale percorso sia effettivamente migliorativo, e quindi beneficiale, è necessario che si individuino delle specifiche attività di relazione. Per questo non è affidando un animale a un paziente che si intraprende un processo co-terapeutico bensì prescrivendo specifiche attività di relazione condotte in seduta da un operatore che sappia arbitrare la relazione tra animale e fruitore. Un altro modo errato di considerare la pet therapy è quello di ritenere il contributo beneficiale nient’altro che una delle molteplici prestazioni che da sempre gli animali domestici offrono all’uomo, quali l’imbrancare le pecore o produrre il latte. Questo criterio interpretativo di tipo zootecnico prende in considerazione l’apporto dell’animale come contributo strumentale (l’animale come mezzo) o performativo (l’animale come macchina) e pertanto si propone di individuare le performance adeguate per produrre particolari ordini di benefici. Nessuna meraviglia pertanto se coloro che perseguono tale approccio auspichino un addestramento specifico del cane “da pet therapy” e – perché no? – ipotizzino anche la selezione di razze con attitudini a tale lavoro. In zootecnia l’animale è utilizzato e non possiamo parlare di relazione, quale evento di incontro e confronto basato sulla reciprocazione e il dialogo, in quanto il pet diviene un semplice strumento per ottenere un beneficio. Situazione analoga si ha quando si valuta l’animale come sostituto dell’uomo, dove diventa funzionale assecondare le tendenze antropomorfiche del paziente o comunque non è richiesta alcuna attività di promozione della corretta relazione. La strumentalizzazione e l’antropomorfizzazione sono due modi apparentemente diversi ma che in realtà non permettono l’incontro autentico con l’animale.

La zooantropologia dà un’interpretazione totalmente differente del contributo beneficiale, partendo sì dalla relazione e non dall’apporto performativo – ci deve essere un incontro autentico  e dialogico con il pet – ma considerando la relazione un evento che può assumere diverse configurazioni e conseguentemente può produrre effetti molto differenti. Di fronte a un paziente che ha una particolare situazione patologica e quindi delle coordinate critiche di relazione il forte appeal e l’asimmetria del rapporto con l’animale può dare esiti tutt’altro che beneficiali, vale a dire incentivare comportamenti problematici, avere effetti regressivi o compromissori, far emergere tendenze che addirittura ostacolano i processi terapeutici vigenti. Non dimentichiamo che la pet therapy è una co-terapia ovvero un intervento di facilitazione delle terapie vigenti nei confronti delle quali deve porsi in maniera sinergica. In zooantropologia l’effetto beneficiale della relazione è dato dallo specifico contributo al cambiamento che produce (referenza). Ci sono attività di relazione che producono referenze di autoefficacia, altre che lavorano sulla stimolazione motivazionale, altre ancora che hanno effetti decentrativi. Orbene alcune attività di relazioni producono referenze utili al paziente, altre dannose: tutto dipende dagli effettivi bisogni del fruitore. Pertanto in zooantropologia si fa un’attenta analisi dei bisogni e delle vulnerabilità del paziente, in accordo con quanto stabilito da chi ha in carico quel paziente (il suo medico o lo psicologo) dopo di che si prescrivono attività relazionali capaci di produrre referenze utili. Le attività di relazione sono innumerevoli ma possono essere riunite e diversificate a seconda della dimensione di relazione che sostengono, vale a dire dal tipo di incontro con l’animale che producono. Per esempio una dimensione ludica si basa sul gioco, sul confronto in una condizione di finzione, sul divertimento, mentre una dimensione epimeletica si basa sulla cura, sull’accudimento, sull’aiuto, sul patto alimentare. Queste due dimensioni di relazione danno contributi di cambiamento molto differenti e pertanto sono indicate per pazienti diversi ovvero che hanno obiettivi terapeutici differenti. Per fare una corretta prescrizione in pet therapy occorre pertanto conoscere i contributi delle diverse attività di relazione in modo tale da attivare in seduta quelle utili al paziente ed evitare o contenere quelle dannose. Si tratta pertanto di un servizio dagli alti contenuti professionali che richiede da una parte un continuo confronto con la figura di riferimento del paziente dall’altra un’equipe multiprofessionale di progetto e operatori pet partner capaci di tradurre in seduta le prescrizioni individuate nel progetto. Insomma in pet therapy non ci si può improvvisare e tanto meno credere che qualunque attività con l’animale produca benefici perché spesso è vero il contrario.

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