Perché abbiamo un’anima

L’epistemologo ante litteram Pierre Gassend, detto Gassendi (1592-1655), obiettò a René Descartes (1596-1650) l’impossibilità da parte dell’immateriale, privo d’estensione (“res cogitans”) di interagire con la materia comunque soggetta a espansione (“res extensa”). Ma neppure l’occasionalismo di Arnold Geulincx (1624-1669) e Nicolas Malebranche (1638-1715) avrebbe potuto adeguatamente sostituire la ghiandola pineale quale “nocchiero nella barca” corporea.

Tutto  avverrebbe allora in una sorta di ridistribuzione dell’energia esistente, che non ne modifica la quantità totale (Edward W. Averill e Bernard Keating , 1981), oppure grazie all’irriducibile proprietà della coscienza di sottostare persino alla realtà fisica (l’hard problem di David John Chalmers)?

Anche se abbiamo spiegato lo svolgimento di tutte le funzioni cognitive e comportamentali in prossimità dell’esperienza – discriminazione percettiva, categorizzazione, accesso interno, resoconto verbale – una domanda può ancora rimanere senza risposta: perché lo svolgimento di queste funzioni è accompagnato dall’esperienza?…”, – si chiede il filosofo australiano, autore di “The Conscious Mind: In Search of a Fundamental Theory” (1996).

Perché tutta l’elaborazione dell’informazione non si svolge ‘al buio’, libera da ogni sensazione interna? Perché, quando le onde elettromagnetiche colpiscono la retina, vengono distinte e categorizzate da un sistema visivo, tali operazioni sono esperite come sensazione di rosso acceso? Sappiamo che l’esperienza cosciente sorge quando sono svolte queste funzioni, ma è il fatto stesso che sorga a costituire il mistero principale… Per spiegare l’esperienza cosciente, abbiamo bisogno di un ingrediente supplementare… Qualcuno propone un’iniezione di caos e di dinamica non lineare. Qualcuno pensa che la chiave stia nei processi non algoritmici. Qualcuno si appella a future scoperte della neurofisiologia. Qualcuno suppone che la chiave del mistero sia a livello della meccanica quantistica… Per ogni processo fisico che noi specifichiamo, vi sarà una domanda senza risposta: perché questo processo dovrebbe dare vita all’esperienza? Dato uno qualunque di questi processi, è concettualmente coerente che esso possa venire instanziato in assenza dell’esperienza. Ne segue che nessuna spiegazione dei processi fisici ci dirà perché sorge l’esperienza. L’emergere dell’esperienza va oltre ciò che può essere derivato da una teoria fisica”.

Probabilità e intenzione

Sir John Carew Eccles (1903-1997) accenna alla mente come campo probabilistico che, senza però risolvere la questione dell’intenzionalità, procura cambiamenti nei processi cerebrali. Visto anche che, nei famosi esperimenti di Benjamin Libet (1916-2007), la determinazione del potenziale di preparazione all’attivazione  dei gruppi neurali, precedente una specifica azione, anticiperebbe addirittura la decisione di compierla.

Percezione e conoscenza

Coscienza e cervello non possono avere né essere la stessa sostanza, perché non manifestano analoghe proprietà, in un caso percepibili soggettivamente e nell’altro anche all’esterno. Per Johann Friedrich Herbart (1776-1841), la sostanza esistente non può non essere percepita distinta dalla conoscenza dell’essere, che se ne rivela una mera rappresentazione. Insomma, l’idea non è il soggetto di se stessa.

Rappresentazioni e Qualia

Eppure, secondo la definizione di Daniel Clement Dennett, «i modi in cui le cose ci sembrano», gli aspetti qualitativi cioè delle esperienze coscienti, o qualia, dovrebbero necessariamente coincidere con determinate configurazioni cerebrali.

Uno stato complesso di coscienza – dice l’autore di “The Emergent Self” (1999), William Hasker – non può esistere distribuito tra le parti di un oggetto complesso. Il funzionamento di qualsiasi oggetto complesso – come una macchina, un televisore, un computer o un cervello – consiste nell’azione coordinata delle sue parti, che lavorando insieme producono un effetto di qualche tipo. Ma laddove l’effetto da spiegare è un pensiero o uno stato di coscienza, quale funzione sarà assegnata alle parti individuali, siano esse transistor o neuroni?”.

E già Gottfried Wilhelm (von) Leibniz (1646-1716) aveva avvertito che l’interazione da sola non avrebbe potuto spiegarci la percezione.

Perfino uno stato d’esperienza piuttosto semplice – diciamo la vostra esperienza visiva mentre leggete questo saggio sulla pagina stampata – contiene molta più informazione di quanta possa essere codificata in un singolo transistor o in un singolo neurone. Si supponga allora che lo stato d’esperienza sia frazionato in modo tale che qualche sua piccola parte sia rappresentata in ciascuna delle molte e diverse parti del cervello. Realizzato ciò, avremo ancora la domanda: chi o che cosa è consapevole dello stato cosciente come di un tutto? Perché è un fatto che si è consapevoli del proprio stato cosciente, in ogni momento, come di un dato unitario. Sorge dunque un interrogativo per il materialista: quando sono consapevole di uno stato cosciente complesso, quale entità fisica è consapevole di quello stato? Sono convinto che tale domanda non abbia, e non possa avere, una risposta plausibile. Sembra invece che l’entità cosciente, la cosa che in effetti è consapevole dei nostri stati di pensiero e di sensazione, sia, e debba essere, qualcosa di diverso dal corpo o da qualunque parte del corpo”.

 

In “Perché abbiamo un’anima” (Armando, Roma 2015), Salvatore Capo immagina una realtà costituita da un’unica sostanza che tende a manifestarsi con le differenti modalità del fisico e del mentale.

Stati e funzioni

Per mantenersi, infatti, all’interno del monismo fisicalista, Hilary Putnam (1926-2016) aveva equiparato gli stati mentali alla funzione di porre in relazione input sensoriali, o desideri, con output comportamentali, quasi fosse una specie di software materiale che riceve una trasmissione d’energia da parte d’un hardware cerebrale. Ma la qualità stessa dell’input sensoriale lo farebbe rientrare negli stati mentali. Le cui singole funzioni, contravvenendo alla regola del totale prodotto dalla somma, non possiedono le caratteristiche dei qualia.

Una coscienza doppia?

Ned Block ha proposto di distinguere tra coscienza fenomenica (phenomenal consciousness), composta di sentimenti ed esperienze soggettive, e coscienza di accesso (access consciousness), in cui le informazioni restano disponibili nel sistema cognitivo a livello globale, ai fini del ragionamento, del linguaggio e di un controllo delle azioni di alto livello, sostenendo che di conseguenza negli esseri umani non sempre le due coscienze, “phenomenal and access”, andrebbero a coincidere.

Tautologia della percezione

Gli stati mentali sarebbero diversi tra loro perché differenti sono gli oggetti verso cui si rivolgono intenzionalmente. Ma in questo caso, nell’ammettere un’attività percettiva, tornerebbe tautologica la spiegazione del processo che rimane pur sempre di acquisizione di un qualcosa.

Informazione dell’esperienza

Nell’ipotesi di Frederick Irwin Dretske (1932-2013), i qualia divengono proprietà rappresentate da un sistema discriminatorio che rende l’esperienza subito presente alla coscienza. In base alla selezione naturale, nello svolgere la funzione di trasportare informazioni, attraverso il reclutamento di un condizionamento operante, una rappresentazione mentale diverrebbe adatta ad assurgere alla funzione di stato di coscienza.

L’emergere della coscienza

Un emergere di componenti che vanno ad assemblarsi con modalità sempre più complesse nel pensiero di Hasker, Bunge, Hofstadter, Sperry, Margolis,  Morin.

Organizzazione della conoscenza

La questione epistemologica Edgar (Nahoum) Morin, la sposta verso l’attitudine a organizzare la conoscenza. Per farsi intendere cita la celebre frase di Michel Eyquem de Montaigne (1533-1592): “È meglio una testa ben fatta che una testa ben piena“. E distingue dunque tra il sapere accumulato senza disporre d’un principio organizzativo e di selezione che gli attribuisca senso e “un’attitudine generale a porre e a trattare i problemi“.

Il processo d’acculturazione

La struttura del pensiero è preformata dal processo d’acculturazione, secondo Joseph Zalman Margolis. S’inizia subito, sin da bambini, seguendo le norme, il comportamento e il linguaggio con cui si viene educati, ad analizzare lo spazio olistico dove si cresce. Ma, nel prendere parte a tale processo, in qualche modo, lo alteriamo, trasformiamo noi stessi, e cambiamo le condizioni per la generazione successiva.

Uno strano anello di algoritmi

Con “I Am a Strange Loop” (2007), il vegetariano Douglas Richard Hofstadter opera quasi una rivoluzione copernicana del pensiero, in base alla quale non solo la Terra e l’Uomo non sono al centro dell’Universo, ma la stessa autoconsapevolezza non è altro che la conseguenza di un meccanico e ripetitivo inanellarsi (loop vuol dire anello) simile, in sostanza, a una serie di specchi, o a quell’eterna brillante ghirlanda, in cui aveva intrecciato, poco meno di trent’anni prima, un matematico austro-moravo e un grafico olandese al compositore di Eisenach (“Gödel, Escher, Bach: an Eternal Golden Braid”, 1979). In questa sua visione fondamentalmente riduzionista e deterministica, la coscienza umana non sarebbe se non il risultato d’un accumulo di operazioni effettuate sulla base di algoritmi, indistinguibili da quanto avviene comunemente in un computer, che non lo agevolano infatti nel trovare risposta a quella domanda che giace in un piatto di cibo animale: “Chi era stato davvero questo pezzo di carne? …”.

Il sentimento del pipistrello

Chiedendosi: Che cosa si prova ad essere un pipistrello?, Thomas Nagel, aveva denunciato quel gap esplicativo per cui possiamo conoscere solamente i processi fisici attraverso i quali avvengono gli eventi mentali, ma, a meno che non accadano nella nostra mente, non cosa si prova quando questi avvengono.

Processi di integrazione

Non ci accorgiamo neppure di tanti di questi notevoli gap presenti, per esempio, nella percezione visiva dello spazio, delle forme e dei colori, poiché, grazie ai processi di integrazione emerge sempre una “risultante” che non li contempla, permettendoci la definitiva continuità visiva.

Su ciò che vede, il centro cerebrale della visione tende a formulare delle ipotesi, partendo, per esempio, dall’esperienza di come si formano le ombre, dalla conoscenza della posizione del sole nel cielo, e pur sempre segnala ai muscoli oculari di attuare un’opportuna verifica, dirigendo l’iride in modo da far ricadere l’immagine, invece che sulla periferia della retina, sensibile soltanto al movimento, magari sulla sua zona centrale (macula), onde percepire meglio i dettagli.

Il collicolo superiore del mesencefalo rettiliano è il sistema più arcaico, che funziona in maniera assai rapida nel fornirci informazioni sul movimento e la posizione degli oggetti, di cui potremmo non avere piena consapevolezza. Il nucleo genicolato laterale, localizzato nella corteccia visiva, si è sviluppato relativamente più di recente nel corso dell’evoluzione, per cui è molto più lento, ma in grado di analizzare il campo visivo nei suoi particolari, riconoscendo gli oggetti e distinguendone i colori.

L’illusione della realtà

La visione rappresenta pertanto una delle tante funzioni cerebrali che, per fornire l’illusione d’una realtà continua, devono assolutamente cooperare, e senza intoppi, per ottenere la sincronizzazione [per Francis H. C. Crick (1916-2004), alla frequenza di 35-75 Hz] dei vari segnali da cui far risultare un’integrazione di processi indipendenti.

La confabulazione

Michael S. Gazzaniga ha ipotizzato la presenza, nell’emisfero sinistro, d’una specie di “interprete”. Quando le informazioni che vi affluiscono si rivelano troppo scarse, o in caso di disfunzione dei moduli, l’interpretazione è costretta a funzionare male, ricorrendo a delle toppe che dovrebbero colmare le deficienze, ma poi tendono alla confabulazione.

L’auto-percezione dell’unitarietà

Onde spiegare l’emergere del mentale dal cerebrale, Benjamin Libet ha proposto anche una teoria del campo conscio (Conscious Mental Field, CMF), in base alla quale, nelle esperienze della coscienza, prevale l’auto-percezione dell’unitarietà, quale risultato complesso di circuiti e mappe neurali differenti, le cui attività convergono nell’influenzare il fenomeno mentale della consapevolezza.

Conscious Mental Field

Nel dubitare che la coscienza sia una funzione definita, la complessità del campo mentale conscio si manifesta attraverso tutta una serie di aggiustamenti automatici, e non solo in aree corticali deputate a una certa funzione specifica. La modalità con la quale l’esperienza soggettiva emerge dalla generalità delle funzioni cerebrali sarebbe quindi proprio questo Conscious Mental Field (CMF)!

Società (musicofila) della mente

All’interno del cervello, Marvin Lee Minsky (1927-2016) ipotizzava l’esistenza d’un intero gruppo di attori e interpreti indipendenti, quasi una vera e propria “società della mente”, che per lavorare bene insieme deve sottostare a delle regole precise. Da matematico, specializzato nel campo dell’intelligenza artificiale, si eleva a poeta arguto e perspicace, quando individua i fattori più determinanti di tale intesa nella musica, in grado di trasmettere il senso d’armonia necessario a indurre le varie parti ad andare d’accordo e collaborare, e nelle battute di spirito.

Der Witz und seine Beziehung zum Unbewußten

Queste insegnano che ogni norma contiene delle eccezioni e, col sorriso,  inducono vivacità, prontezza e spontaneità deduttiva. L’ironia svela che l’applicazione delle regole al di fuori del contesto in cui hanno senso, si trasforma in ilare paradosso.

Il gioco

Venendo a sapere che un suo allievo intendeva far apprendere il gioco del a tris a una rete neurale a connessioni casuali, affinché non ne ricavasse alcun preconcetto, non lo apostrofò con un esplicito: “Se fai le connessioni casualmente, avrà ancora preconcetti su come giocare. Solo che non saprai quali sono”, ma socchiudendo gli occhi e adducendo come giustificazione che, così facendo, avrebbe svuotato la stanza! Per l’allievo fu un’inequivocabile illuminazione.

Illuminazione è che siamo noi la verità!

Una misteriosa sensazione di “unione”, seguita da un mutacico flusso di sentimenti complessi, in cui, come descrisse A. Virginia Woolf (1882-1941), “siamo noi le parole; noi siamo la musica; noi la realtà […] la verità su questa massa immane che chiamiamo il mondo…”.

L’empatia

Con tono meno solenne e aulico, Eric Richard Kandel avrebbe spiegato: “Anche durante le esperienze sociali più basilari, come una semplice conversazione, i meccanismi neurali di ciascun individuo esercitano un’azione diretta e duratura sul cervello dell’altra persona, determinando una modifica delle connessioni sinaptiche”.

L’arroseur arrosé

L’azione stessa del pensare determina un cambiamento nel pensatore. E, così come non ci si può bagnare due volte nell’identico flusso di corrente d’un fiume, non riusciremmo neppure a formulare due volte un medesimo pensiero. Se è l’idea a procurarsi l’ideatore che la rielabora, sul piano della coscienza pensiero e pensatore si equivalgono, nel mentre la costante interazione tra il cervello e la sua stessa attività di pensiero arriva a creare e ricreare la mente.

Perché abbiamo un’anima

Ecco, perché abbiamo un’anima in cui conciliarci col mondo, coniugandone la fine col principio. “…La sua anima lentamente svanì – racconta James A. A. Joyce (1882-1941) in “Dubliners” (1914) – mentre udiva la neve cadere lieve su tutto l’universo, e lieve cadere, come la discesa verso la loro ultima dimora, su tutti i vivi, su tutti i morti”.

Come in un’epifanica attivazione degli archetipi, offerta dall’opportunità del Kairos della sincronicità, si tratta d’un’espressione della basilare e significativa relazione tra aspetti antitetici dell’universo.

 

Giuseppe M. S. Ierace

 

 

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