Peccati di Gola peccati di parola – dal rigurgito di Giona nella pancia della balena ai gargarismi di Gargantua: giammai troverà soddisfazione la passione dell’ingordo!

Vizio della volontà, predisposizione genetica, disturbo del comportamento alimentare, il peccato di gola potrebbe formalmente rientrare altrettanto correttamente tra le malattie della psiche (bulimia), l’abuso del senso del gusto, il piacere della dismisura, il sentimento dell’esagerazione, la tensione verso gli eccessi. Ugo di San Vittore distingue la propensione ad esagerare nel mangiare ed ingozzarsi (edacitas) dalla propensione ad esagerare nel bere alcolici ed ubriacarsi (ebrietas); in epoca moderna a quelle attitudini si affiancano l’ossessione per il dimagrimento, non sempre in contrapposizione all’ansietà nei confronti dell’alimentazione.
L’oralità ha molte sfaccettature: depravazione, perversione, compulsione, depressione, emarginazione… e pure passione!

“… Già mai non si sazia/ nostro intelletto…” diceva il sommo poeta; e difatti la sapienza è insita nell’alimentazione, così come mangiare rientra nei limiti dell’ordine e della misura, altrimenti l’appetito si fa fame, brama, desiderio smodato, cupiditas…
Cibarsi del frutto dell’albero della sapienza avrebbe recato conoscenza, avrebbe consentito di gustare la verità, ed aperto la prospettiva della giustizia. Mentre l’abuso, che contrassegna la “proibizione”, forza la soglia del bene e del male e sfocia nel peccato e nella colpa.
Eppure “Non ciò che entra nella bocca contamina l’uomo, ma quello che ne esce, questo contamina l’uomo” (Matteo 15, 19). La bocca compie i suoi misfatti, in egual misura, nel mangiare impurità e nel parlare di menzogne. “Quasi per ostium”, attraverso la bocca entrano alimenti ed escono parole, e proferire “parole di bocca…” dà il senso della prosaicità.
Tra alimento e parola, cibo e pensiero, v’è dunque dell’analogia: è questa la tesi che Francesca Rigotti espone in “Gola, la passione dell’ingordigia” (Il Mulino, Bologna 2008).

“La lingua prospera dove il cibo è abbondante” (Giovanni Climaco). La lingua lega tra loro sapori e saperi, degustazioni e discorsi. Il vizio della gola si sdoppia in un peccato del gusto ed in uno della loquela. Le parole possono essere dolci come il miele oppure ferire come delle spade.
“Perché pensi che Dio abbia stabilito che lo stesso organo col quale parli servisse anche a distinguere i sapori se non per farti comprendere che ogni tuo discorso dev’essere condito col sale della sapienza?” (Roberto Grossatesta). La perversione della lingua falsa la verità e degrada il verbo a blasfemia. Perché “la bocca parla dalla pienezza del cuore” (Matteo 12, 34).
Loquacità, spacconeria, cialtroneria si affiancano al vizio della gola quasi per metonimia, ma colpiscono ancor più chi esercita pubblicamente l’arte di mangiare e del parlare. Chi si limita a dedicarsi in privato alla cucina, ed al pensiero, per definizione “si priva” di tali prerogative.
La fame è l’unico vero strumento di repressione linguistica, pertanto la tavola sembra il posto più opportuno dove parlare e, per antonomasia, disquisire di cibo, svelando così il sintomo principale della convivialità come della golosità.
Satollo è Saturno, saturo di frutti, ebbro al punto giusto, tanto da poter dare avvio alle Satyrae.

“Non capite che tutto quello che entra nella bocca va nel ventre e poi viene espulso nella fogna?” (Matteo 15, 17). Deiezione e procreazione sembrano un ulteriore aspetto particolare della coppia mangiare e degustare, parlare e pensare, sparlare ed ideare.
L’ambivalenza del luogo richiede prescrizioni di comportamento che non concedano spazio al mescolamento delle due attitudini. “Non si parla con la bocca piena!” per non far sconfinare quel che si dice e non rimettere il bolo; invertendo così il percorso, ci “si rimangia la parola data”.
Il divieto assoluto riguarda la confusione dentro e fuori, una contaminazione dei confini, una dissacrazione dell’immaterialità.
Ciò che si ingurgita, opportunamente metabolizzato, ritorna a riempire la bocca di parole da vomitare.

L’uomo “mangia” con gli occhi, e poi… “mangia” pure con la trachea, anche quando non ha “fame d’aria”. Il respiro è un soffio carico di significato, un afflato del sentimento, un’emissione dello spirito che non concede alla materia di immettersi nello spazio in cui è relegato il pensiero ed il logos.
Non solo l’occhio, ma persino il ventre, “vuole la sua parte”. Poiché chi è sazio non può dar retta a chi ha digiunato, non è possibile parlare di metafisica a stomaco vuoto; e chi lo riempie troppo non produrrà sogni premonitori, ma incubi terrifici. La ricerca dell’alimento dell’insaziabilità (l’erba voglio) diviene un “viaggio nello spazio transazionale tra dentro e fuori” sostiene Louis Marin ne “La parole mangée et autres essais théologico-politiques” (1986).
Ebbene si, la sapienza dello stomaco appartiene alla filosofia quanto alla teologia. Se Feuerbach argomentava l’equivalenza dell’essere con il mangiare, la differenza tra uomini e divinità passa per il loro esofago. Ad Odisseo la ninfa Calipso, che pur si nutre di nettare ed ambrosia, offre invece solo quello che sanno apprezzare i mortali.
Uomo di molte parole è Polifemo, il quale dimostra la sua ferocia mischiando imprecazioni e pasto umano nello scontrarsi con quel Polymetis, ricco di ingegno, che si fa chiamare Nessuno. La verbosità si struttura come un peccato assai simile al cannibalismo, uno sfregio al rispetto richiesto dalla sacralità dell’ospite. L’arroganza (hybris), l’insolenza, l’atteggiamento di sfida, l’orgoglio sfrenato, l’autorità esercitata senza tener conto delle regole, la prevaricazione del giusto, lo strappo dell’armonia, l’abbattimento dell’equilibrio, il libero sfogo degli impulsi, la disobbedienza ingiustificata, l’egoismo incallito… questi sono il vero male dell’umanità. Eppure la crudeltà è una colpa ancora peggiore perché produce sofferenza.

L’eccesso travalica i limiti naturali: hyper (hybris), super (superbia). L’esuberanza carnale, intaccando i corpi, procura malattie somatiche; la tracotanza dell’anima, degradando lo spirito, conduce all’ingiustizia (Platone, Leggi, III, 691c).
Nel Fedro, Platone espone l’inevitabile dualismo: “In ciascuno di noi vi sono due principi guida: uno è l’innato desiderio dei piaceri, l’altro è l’opinione acquisita che tende al meglio”; quando predomina quest’ultima v’è temperanza, se invece prevale il primo si perde il controllo e si entra nella dismisura.
“Per ciò che riguarda il mangiare, il desiderio che domina sulla ragione del meglio e sugli altri desideri si chiama gastrimarghia”. Questi golosi (lichnoi) non gustano le pietanze nel momento in cui le assaggiano, perché vengono distratti ed allettati dalle pietanze successive, che devono ancora essere loro offerte. La ghiottoneria fa loro perdere di vista il gusto, ovvero il giusto modo di occuparsi delle cose, delle quali, alla fin fine, non acquistano una sufficiente competenza. L’arte invece, la téchne magheriké, in questo caso, va considerata un’esperienza che suscita diletto, ma, come la retorica, si tratta di una pratica empirica, che per divenire conoscenza dev’essere dominata dal logos.
Da un’arte sia pur minore, che procura piacere, ci si può aspettare uno stimolo in più all’azione ed un maggior discernimento di quei sapori che si costituiscono come collezione di saperi. Poiché la soddisfazione nasce dall’assaggio cosciente, dal contatto, dalla comunione, dall’agape.
Il convivio fornisce occasione d’incontro, esibizione d’appartenenza, motivo di demarcazione, ed è controllato da un codice di comportamento. All’aperitivo segue il vero e proprio pasto (deìpnon) e dopo viene il simposio, durante il quale si chiacchiera di cose che devono tendere all’edificazione morale dei convitati, mentre si beve insieme il kykeòn, vino integrato a farina, formaggio di capra, miele e cipolle.

La virtù della temperanza necessita di moderazione e sul suo registro si iscrivono i diversi attributi del gourmet, gourmand, gluton… Ma da buongustaio a ghiottone il passo è breve e l’indulgenza si arretra di fronte all’ingordigia.
Gourmandise e gloutonnerie definiscono i confini del buongusto e della misura. E la raison gourmande si esprime nell’acribia per una catalogazione di sapori secondo una cognizione epistemologica diretta, una proposizionale ed un’altra determinata dalla competenza.
Con la gourmandise si esercita la facoltà di discernimento che arricchisce la convivialità, nell’intessere relazioni interpersonali, rafforzando legami sociali, perché la tavola riunisce anche chi dorme in letti separati, contravvenendo alla convenzione per cui si ritiene che tatto, gusto ed odorato siano coinvolti in maniera eguale in gola e lussuria, entrambi peccati della carne.
La perversione per cui “si vive per mangiare” contrasta con ogni disposizione di natura. Seneca la definisce “l’essenza di ogni specie di avidità di piacere… gioia per l’inverso”. Il necessario (“si mangia per vivere”) si può trovare ovunque ed in tutti i luoghi fornisce quanto è sufficiente a placare l’appetito. La brama di superfluo è vizio che oltrepassa la curiosità dei buongustai, curiosi anche di annusare aromi e doppiamente “golosi” perché l’olfatto non conosce una “perversione” linguistica che ne definisca gli eccessi. Gusto ed olfatto sono sensi arcaici che coinvolgono le aree più primitive del cervello, come la curiosità, la quale si presenta, fin dall’inizio, come primordiale attitudine animale.
Nell’uomo, esercitare il piacere dei sensi deve corrispondere ad amore di giustizia, riconoscimento di giustezza e di misura, desiderio di moderazione, coincidenza del giusto col gusto.

Da peccato originale, determinato dalla predisposizione ereditaria, a vizio indotto dal contagio sociale, dalla globalizzazione, dal consumismo, dalla perdita di contatto con l’equilibrio naturale, dall’abbandono della sobrietà e della continenza. Con il neologismo globesity s’intende proprio questa situazione diffusa a livello epidemico di sovrappeso procurato a causa (ob) di ciò che si è mangiato (esum).
Chi troppo ingurgita, si sazia della fame altrui. Un vizio individuale si fa peccato globalizzato di Eco-gluttony, secondo la definizione di Thomas Young. Ed in ciò trova una stretta parentela con l’avidità e l’avarizia. Inevitabilmente cupidigia ed avidità si abbinano alla “schadenfreude” ed alla crudeltà, quando ci si accaparra quello che spetta ad altri. Se c’è chi non ha di che nutrirsi, la soddisfazione propria si sazia dell’altrui fame. Laddove il naturale nutrimento eccede nell’ingordigia ed il desiderio sfrenato si disseta con l’ubriachezza, la cupiditas avvicina la gola all’avarizia. Mentre alla lussuria si affianca per il comune perseguimento del piacere dei sensi.
La gola è un succedaneo della vagina, il muscolo della lingua un fallo. Entrambi peccati carnali originati dall’istinto di sopravvivenza, uno individuale l’altro di specie. Se la soddisfazione del palato è fondamentale per la sopravvivenza del singolo, il traguardo del concepimento placa le esigenze della comunità. Anche la procreazione è una forma di lussuria generativa ed equivale al peccato di mettere al mondo nuovi figli in seno alla preoccupante sovrappopolazione del pianeta.

L’eccesso di prevedibilità, controllo, uniformità ed efficienza connota la cucina industriale moderna ed i piatti asettici, dove si esplica, possono caratterizzarsi come veri e propri “non luoghi”, riprodotti e riproducibili, artificiali e sempre uguali a se stessi. L’industrializzazione, grazie alla disponibilità, ha fatto esplodere l’opulenza. Poi all’abbondanza ed al sovrappeso si risponde con prescrizioni dietetiche e proscrizioni nutritive. La passione si fissa nell’ossessione, poiché il consumismo impone lo spreco. Cognitivismo e comportamentismo lo sostengono, promuovendo l’adattamento ad un ordinamento funzionale che assoggetta ogni dissonanza.
L’economia capitalistica richiede, da una parte, dei comportamenti di accumulo, tesaurizzazione, avarizia, obesità, dall’altra di prodigalità (spreco, consumismo, gola), con un incremento degli atteggiamenti di avidità, cupidigia, invidia.
Oggi si parla di globesity per via di una massiccia diffusione dello squilibrio alimentare. Il vizio, più che peccato, andrebbe considerato alla stregua di un’epidemia di sregolatezze, dettata da un sempre difficile rapporto individuale con il cibo, in cui la predisposizione alla dismisura conta quanto la patologia della volontà. Ma forse è l’insaziabilità dell’anima a farsi cupidigia della carne!
La contraddizione del rapporto col cibo si mette in evidenza nel voler trarre dall’alimentazione più di quanto essa possa concedere: il godimento, senza per altro assimilarne i contenuti, per evitare gli effetti collaterali negativi sulla silhouette. Soccombe ogni spontaneità di fronte a motivazioni utilitaristiche in una perversione che giustifica il vomito postprandiale. Quel che si perde non è solo ciò che si è mangiato, ma l’equilibrio!
Il narcisismo si impoverisce e prendono il sopravento fantasmi di onnipotenza ed immortalità.
Una delle cause dell’introduzione delle cattive abitudini alimentari si può imputare al mancato allattamento al seno, che impedisce l’autoeducazione del neonato a mangiare in base alle proprie esigenze. L’autoregolazione si compie quando la sazietà del poppante lascia la presa del capezzolo della nutrice in quel “gesto cefalo-giro dal valore semantico” che probabilmente contribuisce all’edificazione della funzione primitiva del giudizio, all’arcaica costruzione della volontà, alla genesi di quel primordiale processo che porta a rendere autonomo il desiderio.

Ereditarietà e genetica si accaniscono contro i deboli e ne segnano inequivocabilmente il corpo. Nel gioco delle relazioni sociali il sovrappeso viene bandito per la sua inaffidabilità e labilità di carattere. Come altri, può essere un “vizio solitario” con risvolti e ricadute sociali. Può essere catalogato tra i peccati che dallo spirito invadono la corporeità. Il piacere di ingurgitare appesantisce il ventre ed a mettere radici nello stomaco è la stessa durezza di cuore di avari e superbi.
“Troppe note!” reclama l’esaltazione, ma non l’eleganza dell’armonia.
Continenza, temperanza, moderazione contengono il presupposto di un atto di volontà. Al confine tra necessità e piacere, la moderazione è il discernimento tra quanto è dovuto al bisogno e l’aggiunta effimera del desiderio, distinzione dell’appetito naturale dalla fame sregolata.
E’ proprio nel mezzo (mesòtes), tra l’eccesso ed il difetto, che sta il bene, il buono, il giusto, il gusto.
Il richiamo alla temperanza quale virtù di moderazione si trova nell’aristotelica etica nicomachea. L’eccesso degenera nella morbosità; il difetto è lacunoso, insufficiente, e soltanto la gradualità porta equilibrio.
Omnia nimia nocent
Un eccesso verrebbe moralmente giustificato da un’alterazione del metabolismo individuale nel senso dell’accelerazione, che può richiedere più dell’ordinario. Altrimenti colpa e responsabilità del singolo vanno confrontati con quelle della società, visto che anche l’atto di volontà risente purtroppo dell’influenza di fattori culturali.
L’antica vergogna pagana, col cristianesimo, diviene colpa individuale, per essere poi considerata una responsabilità spalmabile sul sistema. Non imputabilità ed incapacità sono ammesse però soltanto se sostenute da malattia, perché questa va curata e non punita come peccato.

Alle sfere dei pianeti che l’anima deve attraversare nel suo viaggio di discesa, intrapreso per incarnarsi, corrispondono i 7 peccati capitali. Nel risalire a ritroso, fino all’Ogdoade, l’anima restituisce gli elementi caratteristici, ricevuti durante il percorso dai principali demoni della cosmologia gnostica. Il male è negazione della volontà divina, ma è insito negli spiriti (pneumata) delle stelle mobili che influenzano l’uomo attraverso i cinque sensi.
Questa tradizione viene confermata dal passo evangelico di Luca (8, 2) che descrive la Maddalena liberata da sette demoni. L’intelaiatura astrologica dei caratteri planetari veniva tramandata anche in ambito pagano da Servio Mario Onorato, nel suo commento all’Eneide, nonché da Orazio, iniziato alla scuola stoica di Posidonio.
La nozione stoica di sympatheia, l’unità tra le parti del sapere, esprime la connessione tra le varie componenti dell’universo. Posidonio imputava le passioni ad un’irrazionale facoltà originaria dell’anima. 7 i demoni planetari, i vizi capitali, i caratteri patologici, a capo di tutti gli altri. Si contrappongono agli spiriti del Signore fioriti sul tronco dell’albero di Iesse (Isaia II, 2).
L’apparato delle virtù si basa sul quaternario delle virtù cardinali enunciate da Platone, unite alla terna teologale dell’apostolo dei gentili. O forse si tratta di due trinità ricomposte con una unità? Riassumendo le tre strutture (cuore, anima, mente) ed i quattro elementi, l’uomo è una Shabna, un’eptade, un settenario, come i colori, o i metalli.
I mali da cui discendono tutti gli altri sono principalmente l’attaccamento ai beni materiali (philarghyria), ricerca di affermazione di sé (kenodoxia), ingordigia del ventre (gastrimarghia). E questo è un qualcosa che può verificarsi sia con l’anticipazione del pasto (praepropere), sia prediligendo alimenti troppo costosi, raffinati o sofisticati (laute), come mangiando più del necessario (nimis), o elaborando le pietanze con eccessiva ricercatezza (studiose), oppure in maniera esagerata.

L’absolutus, sciolto dai vincoli, non è di questo mondo!
La perdita della sensazione di piacere si esalta nell’immaterialità del distacco dalla consistenza corporea. La spiritualità si rafforza ad ogni arretramento di sensualità; così aumenta la fiducia in se stessi e la forza di volontà si esprime nell’astensione.
Cedere alla tentazione è manifestazione di akrasia (debolezza di volontà). Mentre la valutazione della qualità dei cibi è educazione del gusto, discernimento del palato.
Ma la gola non va confusa con il palato, glutonnery con gourmandise.
E’ un vizio, un peccato, una malattia, un affronto alla miseria, come anche una manifestazione dell’insaziabilità dell’anima!

Giuseppe M. S. Ierace

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