“Non ricordiamo mai i giorni, ma solo i momenti” – Il mistero della percezione del tempo

Se gli anni si accorciano man mano che invecchiamo – scrisse William James nel 1890 – è colpa della monotonia del contenuto memoriale e della conseguente semplificazione dello sguardo sul passato…  Vuoto, monotonia e familiarità… fanno avvizzire (il tempo)”. Perché dimentichiamo facilmente ciò che si ripete, mentre a marcare fortemente le tracce mnemoniche sono le novità.

Non ricordiamo mai i giorni, – diceva Cesare Pavese – ma solo i momenti”.

Nel rievocare accadimenti noiosi reputiamo che il tempo trascorso sia molto inferiore all’effettivo, viceversa se invece quegli eventi hanno risvegliato il nostro interesse. Come ribadisce Claudia Hammond, varietà e replicazione sono i fattori cardinali de  “Il mistero della percezione del tempo” (Einaudi, Torino 2013).

La montagna incantata” di Thomas Mann viene considerata una pietra miliare nel campo di ricerca sulla percezione temporale. Il protagonista, Castorp si chiede se anche la cronologia segua i movimenti delle persone e quindi rallenti se esse stanno ferme. E in effetti, in sanatorio, gli anni sono decisamente più lunghi, mentre fuori accelerano, unitamente alla vita frenetica della pianura.

La novità rinfresca il senso di durata e un cambiamento di abitudini imprime un ritmo diverso. I sofferenti di “debolezza vitale” ne risentono per poco e per minore sensibilità? Le ferie sono sempre molto più brevi rispetto a qualsiasi aspettativa, mentre le attese sembrano interminabili. Ma in questa sensazione deludente c’è da chiedersi se giochi un ruolo il processo di adattamento.

La memoria di una breve vacanza, contraddittoriamente la dilata. “In generale, – spiega William James – il tempo riempito con esperienze varie e interessanti sembra breve mentre passa, ma lungo quando vi si ripensa. D’altronde, un lasso di tempo privo di esperienze sembra lungo mentre passa, ma breve in retrospettiva” (The Principles of Psychology,1890).

Viktor Frankl acutamente osservò qualcosa di analogo nella terribile situazione nella quale si trovava prigioniero in un campo di concentramento. “Un breve periodo di tempo, per esempio il giorno – pieno delle angherie di tutte le ore – pareva durasse quasi all’infinito; mentre un periodo di tempo maggiore, come la settimana, per esempio – con la monotonia dei giorni – sembrava scorrere rapidissimo. I miei compagni mi davano ragione, quando dicevo: ‘Nel Lager un giorno dura più che una settimana”.

 

Fu lo stesso neuropsichiatra austriaco a paragonare la sua personale esperienza di dilatazione temporale a quella descritta da Thomas Mann sull’incantata montagna elvetica (Der Zauberberg, 1924). Ogni istituzione totale affida l’esistenza alla rigidità di indicatori temporali regolari e costanti. E sono questi ultimi a scandire il decorso delle esperienze che si fanno. La loro rimozione interrompe il noioso vissuto ripetitivo dell’abitudine e apre il varco alla moltitudine di novità a cui prestare attenzione.

Tutto quello che è successo, in tanto ingorgo da discontinuità nella percezione temporale, ci ha  interessato a tal punto da incidere un novero maggiore di tracce mnemoniche, il che stravolge a posteriori la consueta misurazione mentale della durata.

Un tale paradosso trova origine, sia nel meccanismo della registrazione e rievocazione dei ricordi, sia in due opposte visualizzazioni mentali, rispettivamente in prospettiva e in retrospettiva. Il primo caso si verifica quando si giudica l’estensione in corso d’opera, l’altro nel valutarne il decorso in seguito. Solitamente queste rappresentazioni sono tra loro sincronizzate, se non interviene una qualche condizione distorcente che impone una percezione diversa.

La noia, per Mann diventa un “morboso accorciamento del tempo”, in cui “i grandi e grandissimi periodi di tempo si accorciano e volatilizzano addirittura fino all’annullamento… Se un giorno è come tutti, tutti sono come uno solo; e nell’uniformità perfetta la più lunga vita sarebbe vissuta come fosse brevissima”.

Sebbene l’invecchiamento comporti un’accelerazione nella percezione del tempo, i singoli giorni, le singole ore, i singoli momenti non necessariamente passano più veloci. Ce ne accorgiamo facilmente assistendo alla crescita d’un bambino: sono gli anni che passano in fretta!

La formazione dell’identità, collegata al picco di reminiscenze tardo-adolescenziali, evidenzia ancor di più il fenomeno. Soltanto tracce mnemoniche marcate potranno sostenere una forte identificazione personale. Gli indicatori temporali non si soffermano sui giorni, bensì maggiormente sulle altre suddivisioni calendariali, per cui contrastano con le valutazioni in retrospettiva, effettuate grazie alle sempre più rare registrazioni di ricordi costituenti delle vere e proprie novità interessanti che val la pena rammentare. Ed ecco formarsi la sconnessione con i dati ricavati dall’altro tipo di stima in prospettiva. Una dissonanza alla quale difficilmente ci si può abituare, se non ci sottoponiamo a un semplice test: un appuntamento viene fatto slittare, senza altra spiegazione, di due giorni: spontaneamente vi muovete verso il futuro e l’appuntamento lo ritenete rimandato, oppure lo considerate anticipato, lasciando che sia il futuro a venirvi incontro?

 

Il principio di questa duplice rappresentazione del tempo rende vana ogni imposizione di rigida puntualità, in quanto in tale frangente si tende a sottrarre e di rado ad aggiungere. Portare più varietà nella routine lavorativa, con scambi di mansione oppure licenza di svolgere liberamente i propri compiti in ordine sparso o in posti inusuali, accrescerebbe il benessere e la qualità della vita di tutti e non decurterebbe minuti utili all’orario da impegnare. Una più idonea gestione temporale, assecondando “ritmi naturali”, potrebbe incrementare la produttività e l’efficienza professionale, arricchendo la prospettiva di trasformazione personale in virtù delle ore risparmiate.

Introdursi in una coda disciplinata ci assicura di aspettare quanto è giusto, ma l’atteggiamento psicologico resta sempre quello di chi, avendo resistito alla tentazione di intrufolarsi e superare la fila ordinata, sente impellente il dovere degli altri a fare lo stesso. Più o meno ciò che fanno i cani da pastore che proteggono le pecore dai lupi, perché non possono divorarle loro. Barry Schwartz (1975), che ha studiato il fenomeno, commenta dicendo che: tutti dobbiamo essere salvati dal peggio di noi stessi!

Il tempo di attesa lo si reputa più lungo per via della modalità anticipatoria, ma soprattutto per l’obbligo che ci richiede e che non ci consente di assaporare  nessun aspetto gradevole di quest’ozio non ambito.

Afflentibus lentae celeres gaudentibus horae”, o, come diceva Plinio il Giovane: “Più felice è il tempo, più sembra breve”, e viceversa!

William J. Friedman e Steve M. J. Janssen (2010) hanno constatato che quanti abbiano trascorso il loro tempo correndo frettolosamente, hanno la convinzione che anche il tempo sia andato alla stessa andatura, anzi la consapevolezza di non avere minuti a sufficienza sposterebbe l’attenzione sullo scorrere delle ore, con il risultato di accelerarle.

L’équipe di Peter A. Mangan (1996) ha notato che, nel provare a indovinare quando siano trascorsi tre minuti, i giovani tendono a sovrastimare davvero di pochissimo, le persone di mezza età sopravvalutano in ragione di meno del 10%, gli ultrasessantenni in una percentuale più che doppia, come se il loro orologio interno fosse rallentato. Noia, tristezza, ansietà, come tutte le situazioni poco intriganti, registrano i maggiori ritardi. Gli esperimenti sotto ipnosi non escludono completamente il potere residuo esercitato dalla fantasia sull’espansione percettiva.

Karen O’Reilly (2000) ha condotto uno studio socio-antropologico sugli inglesi emigrati, venendo a scoprire che, per quanti si erano trasferiti in una ridente regione turistica iberica, una delle attrattive principali di ricominciare all’estero consisteva nella volontà di vivere di più la dimensione del presente, evitando che si rinvangassero ricordi in comune con vecchi amici e che nessuno dei nuovi vicini fosse interessato ai loro programmi futuri. Insomma, proprio niente a che vedere con la nostalgia melanconica, o la sindrome dei mercenari svizzeri del dottor Johannes Hofer, tutt’altro! La comunità britannica stabilitasi sulla Costa del Sol aveva deciso di modificare il proprio ritmo di vita, immergendosi nell’hic et nunc (“qui e ora”), e, nell’ipotesi di poter arrestare la marcia progressiva del tempo, tentare utopisticamente di sfidare la concezione stessa che il tempo sia unidirezionale.

Se si prediligono i percorsi alternativi, si rende il tragitto diverso e sempre nuovo, si presta maggiore attenzione e si memorizzano più cose. Un pilota automatico non solo risulta freddo, grigio e tedioso, ma potrebbe pure farci sbagliare strada. Per allungare il tempo non c’è niente di meglio che il consiglio di Jean-Marie Guyau: “riempitelo, se ne avete l’opportunità, di mille cose nuove” (1885).

I due piatti della bilancia sono inconciliabili: o si rallenta, per applicarsi con accuratezza e quindi accumulare ricordi, o ci si sbriga prima, precipitosamente e senza diligenza, per avere più ore libere e opportunità dopo. Distrarsi o concentrarsi? Un problema d’attenzione e non di tempo, perché giusto quello potrebbe rivelarsi persino identico, nel senso che quanto ne risparmiamo o recuperiamo in un modo, lo spendiamo o sperperiamo in un altro.

Una strategia, basata sulla prospettiva monocrona, prevede di cominciare a occuparsi di una cosa per volta, e, solo dopo aver compiuto un impegno, dedicarsi al successivo. Un programma si basa sull’elenco delle priorità, il memorandum è impostato sulla lista da spuntare, ecc.

Probabilmente da giovani si tende alla policronia, occupandosi di tante cose simultaneamente fino all’eccellenza del multitasting (Bluedorn, 2002). Se è consentita una scelta, entra in gioco comunque l’attenzione “residua”. Nello spostarsi da un compito a un secondo, rimane sempre una certa parte di sé ancora disponibile a continuare a pensare al primo, e, nel tornarvi, sarà sufficiente gestire la distrazione subita dall’altro impegno (Leroy S., 2009). E’ una condizione che accresce il carico cognitivo e abbisogna pertanto di un maggior controllo mentale, finché però non venga richiesta la massima concentrazione.

Gabriela M. Jiga-Boy, e il suo gruppo (2010), hanno rilevato che una meta appare tanto più distante quanto più onere richiede per arrivarci, sempre che non ci siano precise scadenze ad agire da punti di riferimento temporale. Una rigida deadline modifica perfino l’attenzione residua e immaginarsi un tranquillo futuro, in base a un progetto finalizzato alla perfezione, farà provare delusioni cocenti, invece dell’agognata distensione. Gli immigrati britannici, questa volta nel sudovest della Francia e non sul litorale di Malaga, che avevano sospirato il totale relax in gîtes e castelli da restaurare, s’immalinconivano, proprio come i mercenari elvetici del dottor Hofer, non appena finito di sistemare sobriamente la dimora. E questo la dice lunga sulla metafisica allegoria dell’incompiutezza e della perfettibilità!

 

In molti casi, la percezione che riceviamo riguardo al tempo è quella di non averne mai abbastanza. Si tratta fondamentalmente di una prospettiva valutativa differente, simile, se vogliamo, a quella degli insonni convinti di dormire molto meno di quanto non facciano in realtà, con l’obiettiva conferma dei tracciati poligrafici. Sottovalutazione che si esercita pure nei confronti del tempo libero; si pensa di averne di meno perché non risponde alle nostre aspettative. Come nel caso del sonno, se non ci svegliamo freschi e riposati, ci sembra di non aver dormito affatto, se non occupiamo proficuamente l’ozio, ci sembra di non averlo vissuto.

Si pensa con l’orologio alla mano”, diceva Nietzsche nel 1882. Ma, se ci si accorge di avere più tempo del previsto, si tende a sprecarlo e questo, per Robert Putnam (1995), equivale a un decremento del senso di appartenenza a un gruppo, associato a più bassi livelli di fiducia nella società e a un minore impegno politico.

La raccomandazione di Philiph G. Zimbardo, lo psicologo italo-americano  reso famoso dall’esperimento carcerario di Stanford del 1971, è di considerare il tempo quale dono da recare a chi si vuol vedere e a chi da noi ricava un vantaggio. Affetti, generosità, disponibilità e onestà agiscono almeno quanto la voglia.

Studiosi dei benefici psicologici prodotti dall’esercizio dell’attenzione, come Mark Williams , notano che lo stress d’una vita troppo piena spinge ad abbandonare le attività che maggiormente contribuiscono al benessere personale, per cui una gestione del tempo libero che si intenda saggia deve tenere in debita considerazione anche queste ultime come irrinunciabili.

Pianificare, in molte circostanze, specialmente quelle estreme, è l’unico modo per sopravvivere. Costruire quindi degli obiettivi, che in qualche modo possano offrirci una qualche parvenza di futuro, contrasta quanto di più deprimente possa oscurare l’esistenza, ovverossia la mancanza di un orizzonte temporale, che, alla stessa stregua della visione di un bel paesaggio, è in grado di ampliare la nostra coscienza.

Il meccanismo per cavarsela in ogni inconveniente non può che essere l’esercizio del controllo mentale, suggerì Viktor Frankl, dando origine alla logoterapia, basata sul pensiero e le parole. L’importante è saper scegliere la reazione, in quel piccolo spazio di tempo lasciatoci dall’impatto con lo stimolo, perché è proprio in questa scelta repentina che consiste la nostra libertà e la futura crescita della personalità.

 

Giuseppe M. S. Ierace

 

 

Bibliografia essenziale:

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