Per l’uomo moderno la temporizzazione degli eventi è divenuta sempre più irregolare ed una teoria dello sviluppo psichico, in specie in età adulta, basata su di una successione di fasi, sembrerebbe, per vari motivi, troppo semplicistica (Neugarten, 1979). Di modificazioni intrapsichiche ne avvengono di continuo nel corso degli anni, tant’è che le tematiche predominanti, riferite da adulti appartenenti a diverse fasce d’età, non seguono quell’ordine che ci si aspetterebbe.
L’anzianità potrebbe essere vista, allora, quasi come una transitoria fascia in mobilità, suscettibile di ininterrotte evoluzioni e di ambivalenti sovrapposizioni, determinate dalla percezione che si ha di se stessi e da quella che gli altri hanno di noi, diversa in quanto coetanei, e ancora differente se essi sono più giovani o più vecchi.
Di solito, non ci si vede quando si è immersi nel fluire dell’esistenza, ma se diventa inevitabile il confronto, non ci si riconosce più, specie nell’ identificarsi con un corpo tra quelli che ci hanno rivestito nel tempo. Nell’era della comunicazione quest’identificazione è assoluta, costrittiva, investendo ogni ambito delle possibilità. Ma, mentre i maschi sembrano più proiettati verso l’esteriorità degli spazi liberi, le donne si richiuderebbero nell’intimo domestico. Il benessere, per i primi, equivale a forza e potere, per le altre, più semplicemente a bellezza, e al pregiudizio che ne deriva. L’età non fa altro che esasperare questa distinzione.
I maschi possono persino compiacersi di avere interessi leggermente pedofili, mentre alle donne spetta un’irreversibile obsolagnia, e quando rivolgono le loro attenzioni a “prede” più giovani diventano “coguare” (cougar). La trasgressione femminile, per via dello squilibrio della coppia coniugale, è sempre stata una minaccia all’ordine costituito e a Giocasta non si concede neppure la tragedia di un Edipo rovesciato. Per Raymond de Saussure (1919) si tratta solo di un morboso attaccamento materno, quasi un capovolgimento dell’idea di James Jackson Putnam (1913) circa l’ avversione del padre verso la figlia che, raggiunta l’età adulta, gli preferisce un altro uomo (Griselda Fantasy).
Elena Gianini Belotti (1988) evidenzia come “la coppia ideale” sia documentata nel “marito-padre“ e “moglie-bambina”, in cui il rapporto che si costituisce ricomponga la relazione del “dominante” sulla “dominata”. Qualora ciò non si verifichi, si potrà individuare una regressione a quella vituperata “primitiva dipendenza dal femminile”.
Con l’avanzare dell’età, spesso, si verifica il fenomeno del passaggio del potere dal marito alla moglie, ovviamente più evidente laddove, per tradizione (Asia), l’esercizio dell’autorità è prerogativa maschile e la moglie si trova relegata, finché è giovane, a ruolo subalterno e sottomesso. Dopo lo svincolo dai figli, resisi indipendenti, la donna prende il sopravento e inverte il ruolo di sottomissione verso la propria suocera, divenendo ella stessa dominante nei confronti delle nuore e del marito, che, perdendo di autorità, le lascia sempre più spazio per prendere decisioni in ambito coniugale.
In occidente, a livello intrafamiliare, ci si troverà ad affrontare la fase della vedovanza, quella del “nido vuoto”, e il conseguente cambiamento di rapporto con i figli ormai adulti.
Per la prima volta, il divario intergenerazionale tra genitori e figli, si sarà già reso evidente nel corso della fase adolescenziale di questi ultimi, durante la quale i genitori eserciteranno sicuramente maggiore esperienza. Ma, man mano che i figli si rendono autonomi, la situazione tende a invertirsi, perché, divenuti adulti, i figli avranno sviluppato una propria visione del mondo, che potrebbe ritenere obsolete e svalutate le convinzioni dei genitori. Quanto più sono stati rilevanti i cambiamenti in seno alla società, come può avvenire, ad esempio, nel caso di una migrazione transculturale, tanto maggiore sarà il divario intergenerazionale, sino a delineare una vera e propria inversione di valori e di ruoli. Il tradizionale rispetto filiale, che, nelle società asiatiche, è un vero e proprio ideale culturale, può deviare notevolmente, a seconda delle condizioni socioeconomiche e della situazione lavorativa (Osako M. M. & Liu W. T., 1986; Yu L. C. & Wu S. C., 1985; Kiefer C. W. Et al., 1985).
“Le donne sono costrette a guardare alla propria vecchiaia come alla fine della persona”, scrive Loredana Lipperini in “Non è un paese per vecchie” (Feltrinelli, Milano 2010). Come la regina Grimilde della favola di Biancaneve, nel cercarsi allo specchio trovano sempre qualcos’altro o qualcun’altro, il riflesso di uno sguardo obliquo oppure l’opposto di quella dismorfofobia che affligge le anoressiche insoddisfatte della propria immagine. Ci si guarda per rintracciare una foto sbiadita di quando si era nel fiore degli anni, con il risultato che può prevalere l’illusione, come può avere il predominio l’angoscia.
Le fiabe ci raccontano di vecchie streghe cattive, mentre la letteratura classica ci parla di una figura maschile del senior concepita sempre in positivo, saggio o santo. Con qualche eccezione forse, ad esempio Thomas Mann, quando descrive il personaggio di Gustav von Aschenbach in “Der Tod in Venedig” (1912). La versione al femminile, il Nostro la fornisce più di otto lustri dopo, nel 1953, con “Die Betrogene”. Rosalie von Tümmler è vedova in menopausa e ritiene che “la difficoltà più grave sia l’adattamento dell’anima al nuovo stato del corpo”; quando irrompe nella sua vita una nuova passione, ricambiata, le sembra che l’amore l’abbia riportata all’età fertile della giovinezza e invece si tratta purtroppo di metrorragia cancerosa. Le mestruazioni che le vengono restituite sono quelle di una “primavera dolorosa”, perché, in fondo, ogni “ventre sterile agita fantasmi di morte”.
“La donna che porta su di sé i segni della fine della fecondità non serve più, ha adempiuto al suo compito”, asserisce Elena Gianini Belotti in “Amore e pregiudizio” (1988). Si deve comunque notare come diversi fattori culturali siano in grado di influenzare la reazione al climaterio, in base ai differenti significati attribuitigli e a un’interpretazione del tutto individuale (Goodman M., Grove J. S. & Gilbert F. Jr., 1978). Laddove la riproduzione è considerata importante sarà concepito come il termine definitivo della fase evolutiva, altrimenti, dove il mestruo è ritenuto impuro e fonte di contaminazione, contro cui occorre elaborare strategie di evitamento, viene accolto come auspicata cessazione degli impicci mestruali. La gravità dei sintomi della menopausa e la percezione dei disturbi fisici correlati varierebbero, poi, a seconda del gruppo d’appartenenza. Ma questo sembra più un dato correlato all’alimentazione, in base al consumo di sostanze vegetali simil-estrogeniche (isoflavoni), contenute nella soia (genisteina) ed i suoi derivati (tofu, germi, farina, bevande…, ma anche nei legumi in genere quali lenticchie, fagioli, piselli).
Questa “seconda” adolescenza è fatta di amori improbabili, di occhiate maliziose, di ricordi perduti, di personalità ormai svanite. “Non solo ho dimenticato chi ero”, dice il “Molloy” (1951) di Beckett, “ma anche che ero…”.
Con le menomazioni e le debolezze, inesorabilmente, si appassisce, per quell’imposizione quotidiana del ritornello del tempo. “Eccomi qui, un vecchio, povero, misero, cadente, disprezzato”, dice di sé lo shakespeariano Re Lear, senza nascondere il suo bisogno di riconoscimento, di continuare ancora a illudersi, anche se è troppo tardi per realizzare dei sogni.
Dopo una lunga teoria di insuccessi, sopraggiunge l’umiltà, quale tributo da versare agli anni trascorsi senza gloria. Eppure George Bernard Shaw ammoniva di fare attenzione ai vecchi che “non hanno nulla da perdere”. Anche il fallimento può riservare un aspetto trionfale, oscillante tra lo splendore dell’eroico e la dignità del tragico, poiché gli anni rendono la sconfitta sopportabile, pure se disonorevole.
La “soma del tempo sulle spalle” (Ionesco) modifica il carattere e, con la svalutazione, ci si espropria di tutto, anche degli interessi, e della fantasia, perché manca la forza della progettazione. All’assenza di futuro, sul quale proiettare la realtà, subentra il silenzio dell’inutilità o dell’indulgenza. Eppure è solo alla fine della vita che ogni essere rivela la piena manifestazione della propria essenza, come gli alberi contorti o i ruderi consunti o gli oggetti che trattengono la patina della loro storia, sostiene James Hillman ne “The Force of Character” (1999). “Quello che più di ogni altra cosa nella nostra vita vogliamo sapere è chi siamo veramente. E questo, tuttavia, chi veramente siamo è anche ciò che facciamo di tutto per non sapere”. Non riusciamo mai a capire chi siamo fin quando non sopraggiunge, con la vecchiaia, la rivelazione ultima del carattere, la rivelazione dell’essenza, qualunque sia, di questo fenomeno.
Ogni vecchio ha una storia inimitabile, in quanto sufficientemente lunga da escludere somiglianze. Il ritratto migliore che si potesse fare consisteva, un tempo, nella maschera mortuaria del volto, la quale veniva eseguita proprio per catturare quest’unicità. Adesso, i vecchi sembrano somigliarsi di più tra di loro, forse perché vengono guardati come vecchi, prima di essere visti come persone.
“A quindici anni ho aperto il mio cuore al sapere. A trenta, i miei piedi erano solidamente piantati in terra. A quaranta, non ho più sofferto per le perplessità. A cinquanta, ho imparato cosa fosse la volontà del Cielo. A sessanta, essa suonava dolce al mio orecchio. A settanta, ho potuto seguire i dettami del mio cuore, perché ciò che desideravo non oltrepassava più i confini del giusto” (Confucio).
Un tempo, l’autorevolezza dell’anzianità veniva procurata dal prestigio della prossimità della fine. Tutte le culture che ci hanno preceduto hanno elaborato la consapevolezza che la morte è una precondizione della vita, sviluppando con l’ineluttabile una relazione che si andasse inserendo ciclicamente tra gli eventi da attendere collettivamente, e di cui rendersi, in un certo qual modo, protagonisti.
“We begin to die as soon as we are born. What is so strange about death? It’s no surprise. It’s part of life. It’s change” (“Harold and Maude” di Hal Ashby, 1971)
La nostra civiltà della comunicazione si è strutturata come società di iscrizioni e registrazioni, sostiene Maurizio Ferraris in “Documentalità” (2009); “lo scopo inconscio è intimamente funerario: lasciar traccia di noi dopo la morte”. Tanta frenetica archiviazione non ci aiuta ad affrontare il presente, ma ne accumula il possesso; il presente viene al più presto consumato per poterlo trasformare in passato da riguardare o da dimenticare, in nostalgia o angoscia di perdita. Gli oggetti, se non rientrano in una compulsione al collezionismo, si inseriscono in questo sistema di informazione, e sono anch’essi destinati a morire. Anche la categoria degli oggetti si è arricchita a dismisura nel corso del tempo, offrendosi alla serialità del superfluo. Cambiando continuamente, non si ha il tempo sufficiente a conoscerne utilità e modalità d’impiego, e neppure un’eventuale collocazione di appartenenza all’area dell’intrattenimento, alle funzioni del proficuo o alle esibizioni del futile; sono andati incontro come ad una “giocattolizzazione”. Lo stesso “stile di vita” degli oggetti ha subìto una radicale modificazione, pel tramite di una frettolosa comunicazione e di un’altrettanto rapida archiviazione. Sono predisposti per una repentina eliminazione e appena vanno incontro ad un intoppo, si sostituiscono con il successivo modello più avanzato; non si riparano, si cambiano. La medesima rappresentazione dell’idea di morte ha subìto una profonda ridefinizione, perché, come aveva osservato Jean Baudrillard, in “L’Echange symbolique et la mort” (1976), “una macchina o funziona o non funziona”.
Ciò che conta infatti è il funzionamento della macchina, la vitalità del corpo. L’identificazione con il corpo non tollera il deperimento, o il corpo è perfetto, giovane e senza difetti o non esiste. Se viene da chiedersi cosa si intenda per esistenza, o quando essa abbia inizio, non v’è incertezza sulla sua fine, che accade prima di ogni legittima previsione!
La morte, negata da una parte, esorcizzata da un’altra, potrebbe persino venire banalizzata ed esposta, dopo un procedimento di plastinazione da parte dell’anatomopatologo di Nowe Skalmierzyce, Gunther von Hagens, oppure rientrare nel ciclo delle speculazioni finanziarie, con fondi pensionistici e investimenti assicurativi, per far diventare anche l’industria del “caro estinto” tutto un affare!
Il genere horror può essere rassicurante quando si manifesta come un addomesticamento dell’aldilà, ricostruito in modo da rendersi familiare, oppure dimostrarsi inquietante nell’indicarci gli angoli bui della nostra mente. Il rifiuto della vecchiaia pretende eterna giovinezza. Si dice che i vampiri siano quelli che ritornano, che diffondono attraverso il contagio quella che non può essere se non una vera e propria anomalia sociale. Alla deriva si è aggiunto l’inganno. Ciò che spaventa attrae e nella repulsione c’è il germe della fascinazione.
Le totentänze medievali testimoniavano un punto fermo dell’immaginario collettivo occidentale, un labirinto in cui perdersi. Nella saga dei vampiri ci si identifica con i minotauri, forse perché, come diceva Borges, la maggior parte delle persone applica a se stessa la morale di Cristo e agli altri quella di Zarathustra. Eppure l’analisi della morte corrisponde ad una “sterile elencazione del contenuto del vaso di Pandora”.
Nell’era della plastica non si può concepire niente che non sia consumato secondo il sistema “usa e getta”. Dinanzi alle incertezze di un mondo “liquido”, come lo definisce Zygmunt Bauman (2003), si combatte l’insicurezza controllando il corpo, così si va dall’ospedalizzazione della società all’adolescentizzazione, o all’imperativo categorico del jeunisme, indicatore di discriminazione in base all’età, seguendo l’ideologia dell’ageism, di cui hanno parlato William Graebner (980) e Judith C. Hushbeck (1989), nata da un eccesso di praticità produttiva e da un’estrema semplicità della mente umana, la cui percezione è resa influenzabile da una ben confezionata (framing) retorica, secondo la definizione di George Lakoff (2004).
Nelle società arcaiche, dedite alla caccia o all’agricoltura, non si presupponeva nessuna linea di confine che indicasse nettamente il termine dell’attività lavorativa. Oggi, con il sistema previdenziale in vigore, è divenuto più problematico l’adattamento alla fase successiva al lavoro, soprattutto per coloro i quali si pongono a riposo prematuramente, privandosi di status e di supporto sociale (Quinn J. F. & Burkhouser R. V., 1990). Soluzione possibile di age neutrality sarebbe la mobilità funzionale in corso di prepensionamento, in modo da assumere ruoli di orientamento e formazione, per lasciare i posti esecutivi ai nuovi arrivati?
Ma lo stereotipo femminile delega alla donna, ben oltre il mestiere o la professione, la cura e la consolazione, non riconosce alcuna pulsione né quel senso del tragico che Sofocle vede nell’Edipo a Colono e Victor Hugo in Jean Valjean (Les Misérables), procurato dal fallimento dell’incontro con l’esserci, da quel mancato appuntamento, e dalla privazione dell’appagamento. “Con la fine della fertilità, il pendolo rallenta la sua oscillazione tra Puttana e Madonna e si ferma sulla seconda possibilità…” (Loredana Lipperini: “Non è un paese per vecchie”, 2010), obbligando alla castità e all’invidia.
L’attuale generazione, essendo priva di miti di origine, ha assunto come tabù la fine della vita. Le generazioni precedenti, che avevano ritualizzato una loro cosmogonia, come tabù proponevano la sessualità. Oggi, invece, è osceno dimostrare la propria età!
Il dio primigenio dell’antica Grecia, Urano, viene evirato dal figlio Crono, che a sua volta, sarà spodestato dalla sua stessa progenie. Eppure, sarebbero dovuti essere i padri a consegnare ai propri figli il futuro, come fa Ettore quando solleva al cielo Astianatte, augurandogli di diventare migliore di lui (Luigi Zoja, 2003). “Il gesto di Ettore” non può essere riattualizzato perché non avverrebbe verticalmente, in quanto il rapporto generazionale si è trasformato in orizzontale, quasi paritario o addirittura di una ben strana superiorità da parte degli ultimi nati, gli unici ad attingere effettivamente a quella forma più sicura di solidarietà sociale, la famiglia, che sopperisce concretamente ad un welfare, altrimenti del tutto teorico. Almeno, fino all’avvento dell’ambiguità preannunciata dall’amara considerazione di Cormac McCarthy in “No Country for Old Men” (2005): “Quando arriverà la prossima generazione e neanche quella vorrà tirare su i propri figli, allora chi ci penserà. I loro genitori saranno gli unici nonni disponibili, e neanche loro vorranno tirarli su”.
L’odio dei figli nei confronti dei genitori potrebbe venire descritto come paradigmatico del rapporto generazionale, per cui gli anziani attirano l’aggressività dei giovani, ovvero la proiettano su di loro. Da qui la paura ed il senso di allarme che sopraggiunge con l’avanzare dell’età. “Diario de la guerra del cerdo” (1969) di Adolfo Bioy Casares, “The Lord of the Flies” (1954) di William Golding, “The test” (1954) di Richard Matheson affrontano il tema risolvendolo con una caccia spietata a quanti non superano l’esame psicofisico in grado di risparmiarli, qualora si dimostrassero ancora utili.
La vecchiaia non è più l’unica chance per non morire giovani. Per non morire occorre rinnegare la vecchiaia degli altri, nella convinzione che noi continueremo ad essere giovani in eterno. Per noi, allora, non varrebbe l’osservazione che ogni cosa ha il suo ciclo vitale. Negarlo ci priva della comprensione del senso più profondo dell’esistenza.
La cultura contemporanea, proprio in quanto ha perso il senso della storia, non preoccupandosi più né degli inizi né della fine, esclude ciò che teme, semplicemente non considerandolo esistente. Sarebbe come spostare il problema su uno scambio categoriale che prevede anagraficamente l’esistenza soltanto di persone, via via, sempre un po’ meno giovani. Parafrasando Kafka, si potrà allora affermare che il giorno del giudizio verrà differito dal ritardo del messia.
La moderna ossessione pretende che la morte ci colga giovani, repentinamente; semmai la vecchiaia potrà essere sopportata come un invisibile interludio prima dell’inesorabile. Questo che dovrebbe essere un breve frangente, quanto più tende ad allungarsi, tanto più tende a scomparire ancor prima della definitiva dissoluzione. In ogni caso, l’espulsione dal contesto dei vivi sarebbe già avvenuta. La vecchiaia è, in fondo, una “morte civile” in un paese incivile, anche quando i vecchi ne sono la stragrande maggioranza. Quanto più un paese è di vecchi, tanto più, spontaneamente si suppone, dovrebbe essere organizzato su misura per loro. Eppure, le circostanze ci dicono il contrario, o almeno così sembra!
E se non è un paese per vecchi, ancor meno lo è per vecchie, se si tiene conto che la condizione del genere aggrava la questione dell’età. L’enfasi culturale attribuita alla gioventù ed alla bellezza, alla forza, al potere ed al successo, penalizza indistintamente tutti gli anziani alla prima comparsa di segnali di indebolimento dei magici ingredienti della pozione (Butler R. N. & Lewis M. I., 1982). Ma, nell’aggiungere anni alla vita, le donne hanno perso in qualità della stessa; la loro solitudine è a maggior rischio di povertà e la vedovanza le copre meno da un punto di vista previdenziale. All’ageism va dunque aggiunto il sexism.
La più grande forza della natura è la sessualità, la fertilità, la riproduzione, non certo l’invecchiamento, che appare piuttosto quale effetto secondario, collaterale, e piuttosto indesiderato, del miglioramento dell’alimentazione, della prevenzione sanitaria, delle condizioni sociali.
Oggi nella vecchiaia, che la medicina ha forse contribuito a disumanizzare, prolungandone indefinitamente l’agonia, osserviamo un futuro che ci spaventa… “rifiutando di riconoscere nell’anziano insignificante come materiale riproduttivo e nell’anziana priva di attrazione e capacità riproduttiva, fantasmi che camminano lungo i muri cui bisogna dare spazio e precedenza – scrive Loredana Lipperini in “Non è un paese per vecchie” (2010)-, il proprio destino umano… La paura più grande che caratterizza i nostri anni è quella di essere bruciati nella fiamma di un tempo che va veloce”. Ma dev’essere proprio quello anagrafico il criterio per definire gli individui, insieme a genere, preferenze sessuali e provenienza (o razza)?
Più si è vecchi più si diventa liberi e più si diventa liberi più si diventa radicali, dice Josè Saramago. “Se io penso che è un errore fare della gioventù un valore, neanche vorrei che si pensasse che sto dicendo che la vecchiaia è un valore, perché non lo è. Valori lo sono, quando lo sono, gli esseri umani, indipendentemente dall’età che hanno (“As intermitências da morte”, 2005). Questo pensiero però appare applicabile soltanto a quel livello culturale che ispira rispetto, che costituisce una fuga dagli stereotipi, una vecchiaia alternativa, age neutrality, fiera dell’unicità individuale dell’ultima parte della vita. Tuttavia, una diversa vecchiaia non può emergere, venendo, qualora ci riuscisse, scissa o decontestualizzata. Ed ecco che questa mancanza di futuro fa sì che la società non se ne preoccupi, perché si prende cura solo di ciò che rende…
Ad essere in difetto non è solo una parte politica, nelle sue varie porzioni previdenziale, sanitaria, assistenziale, della nostra civilizzazione, ma tutto il sistema sociale, il quale, per migliorare, deve mutare in toto e radicalmente, a partire dallo stile culturale per coinvolgere quello esistenziale.
“Non siamo adeguati dal punto di vista sociale né da quello culturale – scrive Sergio Tramma in “Inventare la vecchiaia” (2000) -. Continuiamo a ragionare come se la vecchiaia fosse quella di altri tempi, contadina e faticosa. Oggi abbiamo una popolazione anziana attiva rispetto alla quale, però, facciamo fatica a disegnare un nuovo ruolo sociale: così ci affidiamo, come sempre, all’iniziativa individuale. Pensiamo al fenomeno delle badanti: la loro presenza è stata importante perché ci ha consentito di rispondere ai bisogni del ceto medio della vecchiaia: ceto medio, ricordo. Ovvero, coloro che hanno un reddito sufficiente. Perché anche l’istituto di ricovero è costoso: e i servizi domiciliari territoriali non sono sufficienti. Inoltre, è assurdo seguire solamente la logica economica: dovremmo ripensare il territorio e le sue dimensioni comunitarie, e anche sviluppare forme di solidarietà fra gli anziani stessi. Il problema è che i modelli negativi degli anziani nella pubblicità, nella narrativa, nell’immaginario riflettono una pratica sociale reale. Non li mettiamo in condizione di essere autonomi o li costringiamo in un circuito separato: l’università della terza età, i viaggi della terza età. Ghetti…” tutto sommato!
Si dice che la memoria scompaia nel momento in cui viene archiviata. La storia ha assistito ad un progressivo impoverimento delle facoltà mnesiche da quando, prima dell’avvento della scrittura, tutto doveva venire trasmesso oralmente, al giorno d’oggi, in cui un tetra byte di dati può contenere tutto quello che si legge e si scrive nel corso di un’intera esistenza. Jorge Luis Borges si era posto il problema dell’utilità di tanta, “troppa grazia”, nel racconto “Funes el memorioso” (Artificios, 1944), giungendo alla conclusione che, non potendo dimenticare qualcosa, si finisce per non ricordare niente.
La mancanza di memoria corrisponde alla mancanza di riconoscimento, per cui le cose vengono definite con terminologia differente: morte fine vita, vecchiaia terza o quarta età… “Il garbo della parola sta divenendo semplice cosmesi” dichiara Loredana Lipperini in “Non è un paese per vecchie” (2010). Le motivazioni di un sinonimo si possono riscontrare nella scelta che se ne fa. Nel parlare di anzianità invece che di vecchiaia, ad esempio, afferma Giovanna Cosenza (“La donna trans-age”, 2008), “si valorizzano positivamente componenti di esperienza, sapere e prestigio che le persone raggiungono solo in età avanzata”. Linguisticamente non è proprio come percepire una differenza di grado, semmai una disposizione a valorizzare quella dimensione che, con l’altro termine, verrebbe disprezzata. Una cosa è dire, seguendo la battuta di Ennio Flaiano sulle fasi salienti della vita, “solito vecchio stronzo”, ben altra “venerato anziano maestro”.
Quando il re è nudo lo si veste dell’immagine che più gli si addice, ha affermato Marc Augé in “Ou est passé l’avenir?” (2008). Per cui cancellare le rughe o qualsiasi altro segno che il tempo abbia iscritto sul nostro corpo, poiché la parvenza non è l’essere, equivale a cancellarne la memoria, significa concepire l’apparenza dell’immediatezza quale valore superiore all’esperienza ed al riconoscimento.
Se l’eccesso di pudore trasforma la vecchiaia in senilità e chiama l’anziano “nonno” o “nonna”, non considera la definizione più appropriata che ciascuno, piuttosto che in funzione della prolificità, preferirebbe gli venisse attribuita in base alla propria storia personale.
Giuseppe M. S. IERACE
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