Nel 2007, il geriatra David M. Dosa ha enfatizzato un ben strano caso di pet therapy specificamente psicotanatologica. Oscar è il gatto di una clinica per malati di Alzheimer, Parkinson e altre malattie dell’età avanzata, che si trova a Providence, nel Rhode Island. Gironzolando tra le varie stanze, annusa garbatamente un po’ tutti, ma si raggomitola solo accanto ai pazienti terminali. “La sua semplice presenza sul letto del malato è considerata dai medici e dal personale infermieristico come un indicatore pressoché assoluto di morte imminente e fa sì che i membri del personale possano dare adeguata notifica alle famiglie. Oscar ha fatto compagnia a chi altrimenti sarebbe morto in solitudine”. Il mistero di Providence, la città del pittore William Congdon, del romanziere Cormac McCarthy e dello scrittore onirico Howard Phillips Lovecraft, si proietta adesso, raddoppiandosi, nell’agire di un felino sornione. Come fa Oscar a distinguere i morituri e, soprattutto, qual è la sua reale motivazione all’assistenza terminale e all’estremo saluto?
Nella pet therapy non si ricorre ai rettili perché non sono in grado di offrire la stessa reattività emotiva dei mammiferi, disposti a concedere affetto disinteressato e, interpretando il nostro umore, porsi con noi in connessione diretta, forte e franca. Sono note le diminuzioni del ritmo cardiaco registrate nei cavalli gentilmente accarezzati, come negli esseri umani che accarezzano i loro beniamini domestici. I cani avrebbero funzione antidepressiva, i gatti sarebbero i più efficaci antistress.
Accostare la figura del gatto a quella del topo serve di solito a sottolinearne innate differenze in netto contrasto, senza alcuna comunanza. Ma a proposito di compassione ed empatia non è proprio così, perché entrambi si comportano da mammiferi, quali siamo anche noi.
Russell M. Church, psicologo sperimentale della Brown University, noto per gli studi sui processi decisionali, nonché sulla capacità di stimare la durata del tempo e l’associazione di eventi negli animali, fermamente convinto che il condizionamento sia sotteso a ogni comportamento, elaborò un esperimento, sintetizzato nel 1959 come “Emotional Reactions of Rats to the Pain of Others”, in cui avrebbe dimostrato come, quando un ratto assiste alla sofferenza di un proprio simile, provi timore per il proprio benessere. L’esperimento consisteva nell’addestrare dei ratti a procurarsi del cibo premendo una leva che contemporaneamente avrebbe potuto cagionare una scossa al compagno; in quest’ultimo caso, interrompevano drasticamente il loro gesto.
Nel tentare di determinare l’effettiva preoccupazione dei ratti nei confronti de propri simili, Joseph F. Lucke e Daniel C. Batson (1980) propendono per una risposta negativa. Ma è più probabile che, nel recepire segnali di sofferenza, determinino una reazione emotiva innata, equivalente alla compassione, l’udito, l’olfatto e soprattutto la vista,. Difatti, decisamente determinante è la visione.
Alcuni autori hanno notato che l’ordine in cui vengono impiegate le cavie sembra influire sulle loro risposte al dolore, in modo che l’ultima dimostra di essere più sensibile della prima, quasi provasse l’esperienza umana della sala d’attesa di un dentista (Langford D. J., et al., 2006).
La sofferenza appare contagiosa, in quanto assistere al dolore provato da altri intensifica la risposta allo stesso dolore. E non solo, i topi presentano un’accresciuta sensibilità anche per stimoli doloriferi differenti, implicanti reazioni diverse, escludendo pertanto un’eventuale spiegazione sulla sola base dell’imitazione motoria. Insomma la percezione della reazione altrui intensifica la propria esperienza.
Solo nel caso in cui si fosse trattato di un estraneo, la sensibilità si manteneva più bassa, similmente a quanto accade con i soggetti umani, che se vedono soffrire qualcuno con cui abbiano interagito, attivano istantaneamente le aree cerebrali deputate al dolore. Se invece la persona sofferente si era dapprima presentata ostile, si attivano i centri del piacere. Questa schadenfreude sarebbe prerogativa maschile, sia negli animali che negli umani, a mo’ di maggiore passività e diminuita empatia tra rivali.
Vedere le reazioni emotive di altri suscita le nostre, ma da qui al coinvolgimento empatico v’è la costruzione di tutta una complessa procedura di comprensione della situazione corporea dell’individuo con cui ci rapportiamo.
In che modo il “contagio emotivo” avrebbe favorito sopravvivenza e riproduzione è un’altra “bella” domanda. Un disagio individuale, auto-centrato, disorienta e solo una reazione appropriata agli stimoli aiuta a evitare pericoli o a prendersi cura della prole. Frans de Waal, in “L’Età dell’Empatia” (trad. it. Marco Pappalardo, Garzanti, Milano 2011), chiama “altruismo auto-protettivo” il comportamento teso ad aiutare per difendere se stessi da sensazioni negative. L’accezione biologica di “altruismo” è quella di “un comportamento che avvantaggia l’altro a scapito del sé, indipendentemente dal fatto che l’effetto sull’altro sia intenzionale o meno”; ma, “nella misura in cui l’altruismo auto-protettivo mira a ridurre uno stato negativo di eccitazione causato dalla condizione in cui si trova un altro individuo”, rientra a pieno titolo nella definizione di empatia, la cui vera essenza consiste nel provare dolore di fronte all’altrui sofferenza. Dietro la natura cooperativa sta semplicemente l’incontro con l’altro, che tradotto in scontro, produce egoismo, predisponendosi invece all’unione, spingerà all’altruismo.
La definizione dell’empatia, riscontrata da William McDougall (1871-1838) negli animali gregari, era quella di “cemento che tiene insieme tutte le società animali, che rende armoniche le azioni di tutti i membri di un gruppo e consente loro di trarre alcuni dei principali vantaggi della vita sociale” (“An Introduction to Social Psycjology”, 1908).
Eppure, l’empatia è anche “un” modo in cui il cervello, ponendo in connessione l’ambiente con la dimensione interiore, risveglia ricordi sopiti di analoghe circostanze, attraverso la riattivazione automatica di certi circuiti neurali. Una volta percepite le emozioni degli altri, in conformità, si attivano i substrati neuronali propri per avere accesso a esse, comprenderle e renderle comuni. Quest’idea già presente dall’imitazione interna, o Innere Nachahmung (1903) di Theodor Lipps (1851-1914), viene riformulata da Stephanie D. Preston e Frans B. M. de Waal (2002) quale “meccanismo di percezione-azione”. Ciò sta a significare che il modo di dire “mettersi nei panni di qualcuno”, equivalente a immaginarne la condizione altrui, attiva quei substrati neurali che ricordano situazioni simili in cui si è stati coinvolti in prima persona (Preston S. D. et al., 2007).
A supportare tali argomentazioni a livello cellulare è intervenuta la scoperta dei neuroni specchio, del tutto speciali per il fatto di rendere indistinguibili immaginazione, visione, azione, nonché indifferenziato il sé dall’altro.
“L’idea di riconoscere sé stessi nell’altro e provare empatia e un collegamento con la razza umana” venne riconosciuta da Roger Waters, un membro dei Pink Floyd, per spiegare un verso di Echoes, contenuta nell’album Meddle del 1971: “I am you and what I see is me”.
I neuroni specchio sono stati trovati anche negli uccelli, quindi i meccanismi di percezione-azione di cui parlano Stephanie D. Preston e Frans B. M. de Waal (2002) potrebbero addirittura risalire a un rettile, antenato comune di uccelli e mammiferi (Prather J. F. et al., 2008).
“Prevedo che i neuroni specchio saranno per la psicologia quello che il DNA è stato per la biologia: daranno un quadro unitario e aiuteranno a spiegare una serie di abilità mentali che finora erano rimaste misteriose e inaccessibili agli esperimenti”. (Vilayanur S. Ramachandran, 2000)
Ramachandran, il neuropsicologo apostrofato dal premio Nobel Eric R. Kandel come “il moderno Paul Broca”, ha ipotizzato che la ricerca sul ruolo dei neuroni specchio ci possa aiutare a spiegare tutta una serie di facoltà mentali, dall’imparare per imitazione sino all’apprendimento ed evoluzione del linguaggio. Ramachandran ha anche teorizzato sui neuroni specchio quale indispensabile chiave per comprendere le basi neurologiche della coscienza di sé nell’uomo (Oberman L. M. & Ramachandran V. S., 2008; Ramachandran V. S., 2009).
Molti esprimono delle perplessità sul vero significato di “automatismo”, in relazione al contagio emotivo; per alcuni potrebbe equivalere a quanto è “fuori controllo”. Nel caso in cui però si dovesse entrare in contatto empatico indistintamente con tutti, si sarebbe costretti a vivere in un perenne stato di agitazione, prodotto dall’assommarsi delle emozioni osservate. Per altri, con il termine “automatismo”, si fa riferimento sostanzialmente alla natura inconscia e alla repentinità della reazione, più che all’impossibilità d’interromperla.
La capacità di inibire o controllare le risposte viene modulata dall’attenzione e soprattutto dalla selettività dell’immedesimazione. Questa selettività privilegia le persone che ci stanno più vicine, come familiari e amici, poi via via coetanei, colleghi di lavoro, persone con lo stesso retroterra culturale, ecc. Anche negli esperimenti con le cavie la familiarità, o il fatto di essere compagni di cella, aumenta le risposte di tipo empatico (Miller R. E. et al., 1959; Masserman J. et al., 1964).
La competizione tra gruppi è la situazione in cui un po’ tutti dimostrano di provare minore empatia (Stürmer S. et al., 2005). In questi casi di blocco dell’immedesimazione, equivalente alla disumanizzazione dei rivali, tra le scimmia, ci si riferisce alle vittime come fossero descimpanzeizzate, secondo l’espressione non proprio felice di Jane Goodall (1986).
In molte circostanze, l’empatia è opportuno che venga stroncata fin da subito. Come in alcuni ambiti professionali (personale di Pronto soccorso, Traumatologia, Chirurgia), che richiedono un certo distacco emotivo. In altri casi, è come se si attivasse una sorta di “doppio binario”, cosicché si possa essere adeguatamente empatici con dei soggetti, “disumanizzandone” altri.
Frans de Waal (2011), si riferisce all’evitabilità dell’empatia, suggerendo come possa automaticamente essere suscitata “da coloro che sono stati ‘preapprovati’ sulla base di somiglianze o intimità”.
In queste circostanze, non possiamo che reagire in risonanza con la loro mimica, ma pure con tutti quei gesti degli arti e posture del corpo, in grado di esprimere emozioni. Si reagisce alle pose e agli atteggiamenti corporei allo stesso modo con cui si reagisce alle espressioni dei volti (de Gelder B., 2006). Dai muscoli contratti e pronti a scattare deduciamo l’atteggiamento di spavento di fronte a un pericolo; l’ira dall’esibizione del torace. Per lo più, è proprio il linguaggio corporeo a rivelarsi maggiormente decisivo, rispetto alla mimica, nella valutazione dello stato emotivo di una persona (Meeren H. K.M. et al., 2005). Beatrice de Gelder (2006) sostiene che le emozioni si accodino agli atteggiamenti corporei, in base alla teoria che prende il nome da William James (1842-1910) e Carl Georg Lange (1834-1900), della priorità del corpo sulle emozioni. Il nostro corpo riceve i messaggi corporei degli altri e a essi fanno eco le emozioni. Cosicché imitare un sorriso rende felici per il semplice fatto che l’emozione iniziale viene trasmessa attraverso la riproduzione della mimica facciale. Stringere una matita tra i denti, senza toccarla con le labbra, forzatamente impegna a non tenere il broncio, la qualcosa spinge a valutare le cose in maniera diversa da quando invece si dovessero aggrottare le sopracciglia.
Ma se emozionare significa “mettere in movimento”, quale sarà l’espressione più aderente alla realtà: “devo essere spaventato, visto che sto correndo” oppure “corro perché sono spaventato”?
La teoria della priorità dell’emozione poggia invece sia su di un meccanismo simile a quello di percezione-azione, veloce quasi quanto un riflesso, sia sulla più lenta valutazione cognitiva degli stimoli nel loro contesto.
Il contagio emotivo viene procurato dal diretto e immediato contatto tra sensazioni che potrebbero essere considerate corrispondibili. La corresponsione più celere, rispetto alle posture e ai gesti, viene fornita dalla mimica, molto probabilmente per il semplice motivo che il volto costituisce la sede della centralità identitaria dell’individuo, sulla quale si basa la possibilità di quell’immedesimazione in grado di influenzare le reazioni emotive. La paralisi facciale mina questa identità individuale, al punto da emarginare i pazienti che ne sono colpiti, come i parkinsoniani, per altro capaci di esprimere pensieri e sentimenti con altrettanto efficaci modalità verbali. Comprensione e interazione si affievoliscono di fronte alla rigidità, per l’impoverimento dell’espressività che non suscita quella sufficiente risonanza con cui normalmente ci si confronta, per come evidenziato da Maurice Merleau-Ponty (1908-1961): “vivo nell’espressione facciale dell’altro, nel momento in cui la sento vivere nella mia” (1945).
Allora, “Empathy need a face”, come suggerisce Jonathan Cole (2001), l’empatia abbisogna di una faccia.
Qualcuno interpreta l’umana tendenza a gesticolare come una vivace e incisiva eloquenza muta, finalizzata a modulare le proprie emozioni, come anche quelle degli altri.
Provare un sentimento insieme con un altro individuo significa esprimere una compartecipazione emotiva. “L’empatia può, meglio di qualsiasi altra cosa, essere adatta – ha scritto Martin L. Hoffman (1981) – a gettare un ponte tra egoismo e altruismo, dato che ha la caratteristica di trasformare le sfortune di un’altra persona in un sentimento di dolore proprio”. Il suo contrario non è rappresentato dall’antipatia ma dalla schadenfreude, caratterizzata dall’assoluta difformità dei sentimenti, in una sorta di dissociazione emotiva, fino ad avvertire la sensibilità opposta.
“La solidarietà… – sentenziava Adam Smith (1723-1790), in “The Theory of Moral Sentiments” (1759) – non può in alcun modo essere considerata un movente egoistico”. Ma la solidarietà differisce dall’empatia, in quanto non si limita a raccogliere informazioni circa lo stato emotivo di altri, bensì aggiunge un interesse a migliorarne la condizione. In “The Psychology of Sympathy” (1991), Lauren Wispé, nel formulare una definizione di solidarietà, la rende il prodotto di questi due aspetti: “primo, un’aumentata consapevolezza dei sentimenti di un’altra persona e, secondo, il forte desiderio di prendere qualsiasi misura sia necessaria per alleviare le sue difficoltà”. Questo si traduce praticamente nella possibilità di essere sufficientemente empatici senza essere solidali, ma non viceversa.
In un insolito quanto insinuante esperimento, audacemente tautologico, sui limiti della compassione umana, condotto nel 1973 da John M. Darley e Daniel C. Batson, con l’allusivo titolo: “From Jerusalem to Jericho:”, si perviene a conclusioni non lontane dal paradosso, quasi fino a sfiorare il sarcasmo. A degli studenti di teologia veniva chiesto di recarsi a piedi presso un altro edificio dove avrebbero dovuto impartire una lezione sulla parabola del “buon samaritano”, il miscredente che, contrariamente alle aspettative, assiste un moribondo abbandonato per strada. Lungo il loro percorso verso l’aula indicata erano costretti a passare davanti a una persona accasciata a terra in evidente stato di bisogno d’aiuto. Soltanto pochi, tra quelli che non erano stati spronati a far presto, si fermavano chiedendo se ci fosse qualche problema, gli altri, nonostante fossero portatori consapevoli di quella buona novella che esorta a una vita esemplare, passavano oltre.
Tuttavia, fermarsi per chiedere se qualcosa non va sta all’empatia come la solidarietà alla consolazione. Il buon samaritano avrebbe avuto un comportamento più simile forse a quello istintivo di Oscar, il gatto di Providence.
In quello che gli psicologi anglosassoni definiscono “sympathetic concern” rientra il bisogno di riappacificarsi dopo uno scontro, cosa abbastanza comune agli umani come agli scimpanzé. Nel dimostrare sensibilità verso chi si trova in difficoltà, lo si accudisce per alleviarne le sofferenze. Stare vicino, abbracciare, ispezionare eventuali lesioni, fare il cosiddetto grooming (letteralmente toelettatura, o cura) aiutano la ripresa psicologica delle vittime di aggressioni. Orlaith Fraser e il suo gruppo di ricerca (2008) hanno evidenziato come la consolazione abbia, in chi la riceve, un tangibile effetto di riduzione dello stress.
“E’ davvero impressionante quanto i giovani scimpanzé, di solito incuranti e irresponsabili, siano premurosi con un qualunque compagno malato o ferito” scriveva, in “Almost Human” (1925), Robert M. Yerkes (1876-1956), preoccupandosi, per non venire sospettato di idealizzare il contegno di questi animali, di non soffermarsi sul “comportamento altruistico e chiaramente compassionevole” del suo bonobo, in un’epoca in cui la distinzione tra bonobo (Pan paniscus) e scimpanzé (Pan troglodytes) non era stata ancora fatta, né, come sottospecie (1929), da Ernst Schwarz (1889-1962), né, come specie separata (1933), da Harold Jefferson Coolidge (1904-1985).
Fra tutte le grandi scimmie antropomorfe, i bonobo dimostrano la maggiore espressione di solidarietà, anche nei confronti di altre specie, inducendo Frans de Waal (2011) a interpretarla quale “soccorso mirato, cioè un aiuto commisurato all’esigenza o alla situazione specifica di un altro individuo”.
Ribaltando completamente la concezione hobbesiana, ripresa dal’Asinaria (a. II, sc. IV, v. 495) di Plauto (lupus est homo homini), il canide può essere per l’uomo più di quello che l’uomo è per i suoi simili. L’équipe di Carolyn Zahn-Waxler (1984), nel cercare di determinare a che età i bambini inizino a confortare i familiari che simulano malessere, non solo scoprì che lo fanno già prima che il linguaggio svolga un ruolo preponderante nelle loro reazioni, ma che pure gli animali domestici si comportano alla stessa maniera, dimostrandosi analogamente turbati, in atteggiamento di partecipante preoccupazione. Tra gli stessi lupi selvatici, è stata osservata, da parte di Giada Cordoni ed Elisabetta Palagi (2008), una sorta di riconciliazione tra precedenti avversari.
Il comportamento consolatorio si traduce, per lo più, in un riavvicinamento, tuttavia a esercitare il maggior conforto è proprio il contatto fisico che, nei mammiferi, favorisce la regressione all’età in cui, per qualsiasi cosa, dall’alimentazione al movimento, si dipendeva interamente dalla madre. E’ spontaneo toccarsi e abbracciarsi in molte circostanze della vita e della morte. Gli eventi luttuosi sono quelli in cui il messaggio trasmesso dall’abbraccio è avvertito come più confortante da chi lo riceve ed empatico da chi lo fa (Rosenblatt P. 2006). Alla fin fine, la rassicurazione è reciproca perché il contatto mitiga anche il turbamento ricevuto dal vedere l’altro soffrire. La motivazione a dare conforto risulta allora la medesima consolazione che se ne riceve.
Le emozioni sono maggiormente percepite, piuttosto che tra estranei, tra familiari e amici, ancora più evidente nel caso della prole o di parenti stretti, per cui verso di essi si esercita una sorta di “preapprensione”, come la chiama Frans de Waal. Si tratta di una tendenza innata a favorire un ulteriore apprendimento. Ad esempio, lo sguardo dei gatti, che viene irresistibilmente attratto da qualsiasi oggetto in movimento abbastanza piccolo da poter essere aggredito, risponde alla tendenza innata a compiere agguati per cacciare. Le scimmie cappuccine sbattono ininterrottamente tutto quello che non riescono ad aprire fin quando non imparano a schiacciare le noci con le pietre (Ottoni E, B., Mannu M,, 2001)
Non è insolito, quindi, che il comportamento preceda la comprensione. Del resto, la carriera pre-linguistica inizia universalmente intorno al settimo mese, con produzione di sequenze insensate di suoni, caratterizzate da coppie di vocali e consonanti (lallazione), seguendo un impulso primordiale. Analogamente il bambino si sente attratto dall’inquietudine parentale, pur non riuscendo a immaginare minimamente la situazione. All’arcaica preapprensione aggiungeranno poi complessità comprensione, apprendimento e intelligenza, secondo quella stratificazione aggiunta dallo sviluppo individuale e dall’evoluzione della specie. Intorno al nucleo iniziale del contagio emotivo e del meccanismo di percezione-azione si sono andate sovrapponendo ben altre complicazioni (de Waal F. B. M., 2003).
Solo osservando la situazione dal punto di vista dell’altro, si potrà passare dalla preapprensione all’apprensione e al soccorso mirato, percorrendo tutta la prassi della “compassione”, alla base del comportamento di soccorso, che presuppone tanto emozione, quanto immedesimazione e comprensione.
Emil W. Menzel ha analizzato la capacità degli scimpanzé non solo di avvertire cosa provino, o di cosa necessitino, i loro compagni, ma anche cosa desiderino e persino cosa sappiano. In base al contagio emotivo, gli scimpanzé riproducono l’entusiasmo o lo stato d’allarme dei propri simili, rispettivamente qualora questi ultimi conoscano il nascondiglio del cibo o abbiano visto un rettile. Tuttavia non si limitano a questo, specie quando il “conoscitore” è di rango inferiore a chi deve indovinare il nascondiglio. Se il maschio alfa non era presente, il gruppo veniva sistematicamente condotto al cibo affinché tutti ne potessero usufruire. “Invece, nei test condotti in presenza di Rock, Belle diventava sempre più lenta nel raggiungere il cibo. La ragione non era difficile da immaginare. Non appena Belle svelava la posizione del cibo, Rock ci si precipitava sopra e, dopo averla morsa o presa a calci, se lo prendeva tutto. Belle smise conseguentemente di svelare la posizione del cibo quando Rock era nelle vicinanze. Ci si metteva a sedere sopra finché Rock non se ne fosse andato. Tuttavia Rock imparò presto il trucco e quando la vedeva sedersi in un posto per più di qualche secondo arrivava, le dava uno spintone, ispezionava il sito dove Belle si era seduta e si prendeva il cibo” (1974). Belle avrebbe imparato a creare false piste, ma l’ostinazione di Rock stava a testimoniare la sua convinzione che Belle fosse a conoscenza di qualcosa che non voleva rivelargli. Ci troviamo quindi di fronte alla capacità di adottare un punto di vista diverso dal proprio, grazie all’assunzione di un’ipotesi circa l’elaborazione del pensiero altrui.
Negli esperimenti sui cosiddetti compiti di “falsa credenza”, la maggior parte dei bambini di quattro anni riesce ad assumere il punto di vista altrui, pur riconoscendolo sbagliato. Qualora si attutisse il ruolo linguistico di tali compiti, anche i bambini più piccoli dimostrano una certa comprensione (Perner J., Ruffman T., 2005).
Forse, più banalmente, si tira a indovinare le intenzioni. deducendole dai messaggi corporei, perché la piena comprensione dello stato mentale dell’altro è più di una mera astrazione, prerogativa sinora ritenuta esclusiva degli adulti della nostra specie. Eppure, così come la linea di demarcazione tra primati e cuccioli umani, è andata assottigliandosi anche la discriminazione tra scimmie antropomorfe, non antropomorfe, mammiferi e altri animali.
Prove di assunzione di prospettiva se ne hanno nelle scimmie antropomorfe (Hare B. et al. , 2001), non antropomorfe (Kuroshima H. et al., 2003), nei cani (Viràny Z. et al., 2005), negli uccelli (Dally J. M. et al., 2006), sconfessando l’opinione che tra gli animali non vi sia differenza alcuna, perché tutti indistintamente dipendenti da un apprendimento stimolo-risposta, per come asserito drasticamente da Burrhus Frederic Skinner (1904-1990) : “Piccione, ratto, scimmia, ma cosa è cosa? Non fa differenza” (Bailey M. B., 1986).
La definizione di Nicholas Humphrey (1978) degli animali “psicologi naturali” coincide con la nascita della concezione di “teoria della mente” di David Premack e Guy Woodruff (1978). Per teoria della mente si intende la capacità di riconoscere gli stati mentali degli altri.
L’assunzione di prospettiva è comunque cosa differente dall’empatia, in un caso la consapevolezza riguarda ciò che un altro individuo conosce perché ha visto, l’altra concerne sentimenti, emozioni e condizione di bisogno o di desiderio. Nonostante la teoria della mente implichi il pensiero astratto e l’estrapolazione dell’altro dal sé in virtù del ragionamento, si trova a un passo da quest’assunzione di prospettiva sviluppatasi verosimilmente a partire da inconsapevoli rapporti corporei.
Nel Caucaso è stato rinvenuto un fossile di 1,8 milioni di anni fa, appartenente a un ominide completamente sdentato che non sarebbe potuto sopravvivere senza l’aiuto compassionevole dei suoi simili (Lordkipanidze D. et al., 2007).
Emil W. Menzel credeva nell’opportunità di osservare in continuazione, per poi trarne delle attente considerazioni, persino qualora il comportamento fosse stato registrato una sola volta. E in effetti, essendo relativi a incidenti, molti esempi di assunzione empatica di prospettiva riguardano singoli episodi. Si tratta di situazioni assolutamente non testabili, in cui l’altruismo si scatena per proteggere da gravi minacce alla sopravvivenza.
Le ragioni effettive di un comportamento altruistico non andrebbero confuse con quelle della sua evoluzione, che inizialmente potrebbero essere state di natura egoistica o di calcolo di un’eventuale reciprocità. Per mettere a repentaglio la propria vita non basta fare delle previsioni, si devono scatenare motivazioni irrefrenabili. Sensibilità, dedizione, comprensione devono rientrare in una tale combinazione di impellenza da inibire ogni accortezza.
Giuseppe M. S. Ierace
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