Nel comune parlare quotidiano non ci si meraviglia della presenza di frequenti espressioni considerate triviali, in quanto, nel fare implicito od esplicito riferimento a voci che ne rammentino l’origine sessuale, verrebbero classificate come sconvenienti e quindi da non impiegare liberamente in tutti i contesti, oppure, qualora non costituiscano compulsione coprolalica, tacciate di scurrilità, demandate e confinate ad un linguaggio familiare o gergale. Difatti, è proprio attraverso il lessico a cui si fa ricorso giorno per giorno che si possono valutare i livelli culturali e di conseguenza, temperamenti soggettivi e condotte sociali. Eppure, i dialetti, in particolare quelli ricchi di forme idiomatiche complesse, contengono voci provenienti dalle testimonianze dei contatti antropologici intercorsi in un determinato territorio, che ne contraddistinguono anche le caratteristiche connotazioni emotive.
Quale che sia la dimensione della lingua predominante, l’italiano nei confronti dei dialettismi, o frasari imposti nei vari ambiti diplomatici, commerciali, o di predilezione culturale, interverrebbe nella pratica giornaliera una sorta di manipolazione tale da far emergere, più o meno spesso, quanto appartiene a modalità relegate nelle cosiddette volgarità. Del resto, dobbiamo ricordare come “volgare” sia stato persino l’inserimento della lingua italiana, prodotta dall’assemblaggio di varie parlate orali, in un aulico consesso di colto latino. Le buone maniere avrebbero previsto di dialogare linguaggi più elevati, latino versus italiano, spagnolo, francese o inglese, a seconda dei momenti storici e di predominio, contro altri idiomi locali, ritenuti meno nobili.
Oggi, invece, si è quasi costretti ad accettare l’invasione di lingue straniere, pure al di fuori di quegli ambiti di opportunità o di circostanza, prevedibili prima ed adesso sempre più pressanti. L’attuale velocità con cui si modifica il linguaggio sembra addirittura non avere precedenti. Per cui, al momento, stiamo assistendo a delle trasformazioni che in qualsiasi altro periodo storico sarebbero avvenute di certo molto più lentamente. L’italiano contemporaneo sembra infatti caratterizzarsi notevolmente per la sua particolare dinamicità, venendo a distribuirsi al suo interno su più varietà (scritta o parlata, popolare, regionale, speciale) e registri (formale, informale, ecc.), in una sorta di caotica, perenne mobilità.
Nell’affrontare questo tema, Dario Fo, in ”L’Osceno è sacro”(Guanda, Parma 2010), scrive: “Dante Alighieri, per formare il proprio volgare poetico, compì un’inchiesta davvero scientifica sulla lingua parlata e scritta e sulle espressioni letterarie e orali degli autori del suo tempo, soprattutto sulla giullaria, raccogliendo ballate, strambotti grotteschi e fabulazioni, di autori popolari conosciuti o anonimi, poi confluiti nel De vulgari eloquentia. Tra questi spicca la famosa Rosa fresca aulentissima di Ciullo o Cielo d’Alcamo, ove si scopre che, fin dalla prima strofa, si allude al fallo, chiamato appunto ‘rosa fresca’, di cui sono golose le donne, tanto le pulzelle quanto le maritate: Rosa fresca aulentis(s)ima ch’apari inver’la state,/ le donne ti disiano, pulzell’e maritate… Allo stesso modo, l’Alighieri fece tesoro del Detto del gatto lupesco, del Lamento della sposa padovana e della storia erotico-amorosa sull’incontro accidentale di due amanti del Salento. Ancora: studiò i testi di Bonvesin de La Riva, poeta milanese che lo precedette di una trentina d’anni e che con Bescapè fu uno degli ispiratori del suo viaggio all’inferno…”
Intorno al 1274, Pietro da Barsegapè e Bonvesin de La Riva avevano composto, in lombardo, un “Sermone” di 2500 versi che riassumeva le storie del vecchio e del nuovo testamento e, rispettivamente, un poemetto in quartine, “Libro delle Tre Scritture”, che si sarebbero rivelati entrambi basilari per lo studio della comune lingua letteraria lombardo-veneta e che, nello stesso tempo, anticipavano quella sceneggiatura dell’aldilà, dalla quale avrebbe tratto suggestione il sommo poeta. Pur nella diversità di stile, il “Libro delle Tre Scritture” di Bonvesin si presenta come una retorica raffigurazione di Inferno, Paradiso e Passione di Cristo, mentre la freschezza lessicale del Sermone di Pietro da Bescapè si coglie già dall’incipit: “No è cosa in sto mundo, tal è lla mia credença,/ ki se possa fenir, se la no se comenca”.
L’anonimo, profano, “Lamento della sposa padovana o della bona çilosia” non sarebbe se non una sorta di monologo recitativo teatrale, in novenari rimanti a coppie, in cui una giovane piange alla partenza del coniuge per le crociate.
Il Detto del gatto lupesco si offre come un ben strano viaggio in cui si devono affrontare animali veri, quali tasso, tigre, cervo o leone ed altri di pura immaginazione, come il tinasso, la baldivana, il gatto padule e la gran bestia baradinera. “…sì vidi bestie ragunate,/ ke tutte stavano aparechiate/ per pigliare ke divorassero,/ se alcuna pastura trovassero./ Ed io ristetti per vedere,/ per conoscere e per sapere/ ke bestie fosser tutte queste/ ke mi pareano molte alpestre;/ sì vi vidi un grande leofante/ ed un verre molto grande/ ed un orso molto superbio/ ed un leone ed un gran cerbio;/ e vi divi quattro leopardi/ e due dragoni cun rei sguardi;/ e sì vi vidi lo tigro e ‘l tasso/ e una lonza e un tinasso;/ e sì vi vidi una bestia strana,/ ch’uomo appella baldivana;/ e sì vi vidi la pantera/ e la giraffa e la paupera/ e ‘l gatto padule e la lea/ e la gran bestia baradinera;/ ed altre bestie vi vidi assai,/ le quali ora non vi dirai…”. Ma è soprattutto la ruvida e dissonante musicalità dei distici, che l’accomuna alle filastrocche infantili ideate allo scopo di stimolare la fantasia, a rendere il Detto del gatto lupesco una parodia di improbabili quanto strampalati ed iperbolici percorsi iniziatici: “L’aria era molto scura,/ e ‘l tempo nero e tenebroso;/ e io com’uomo pauroso/ ritornai ver’ lo romito,/ da cui m’iera già partito…”.
Il testo della Rosa fresca aulentissima di Ciullo o Cielo d’Alcamo potrebbe sembrare a prima vista, ma solo ai primi due versi, l’opera graziosa di un aristocratico ispirato, ma, a leggere meglio il testo, dal terzo verso in poi, quella che appariva una lirica di alta poesia si trasforma in un dialogo (“contrasto”) d’amore carnale che fa l’occhiolino ad argomentazioni da trivio. “Cosa” desiderino le “maritate” non differisce da quello che piace a ”li fimmani schietti”. Nel “De Vulgari Eloquentia”, Dante ammette che “c’è pure qualche crudezza in questo ‘contrasto’, qualche rozzezza, ma certamente l’autore è un erudito, un colto”. Più recentemente gli storici della letteratura, come Toschi e De Bartholomaeis, hanno dimostrato ampiamente come si tratti di un testo popolare, recitato probabilmente da un giullare. E la riprova starebbe pure nel nome stesso dell’autore, che potrebbe indicare la provenienza, se letto “d’Alcamo”, altrimenti un panno (“dal Camo “), il tessuto che ne caratterizza le vesti; poi, per alcuni (Angelo Colocci), Cielo (da Celio, Celi, Cheli, diminutivo di Michele), per altri (Ubaldini ed Allacci), Ciullo (Ciulo, da Vincenzullo), tenendo però in considerazione il fatto che, in molti dialetti della penisola, dalla Lombardia alla Sicilia, con qualche variante, quale “ciolla”, Ciullo svela il sesso maschile. Del resto Ruzante, altro soprannome giullaresco (di Angelo Beolco), è l’epiteto dialettale veneto di chi pratica il bestialismo.
“Rosa fresca e profumatissima che appari d’estate”, ci spiega Dario Fo, è l’inizio del discorso di un gabelliere, che allora si chiamava “gru” o “grue”, per via del registro attaccato ad una coscia, con una cinghia, sul quale appuntava nomi ed introiti, assumendo una postura, con un piede sul ginocchio dell’altro, simile a quella dell’omonimo uccello dalle zampe lunghe. Nel rivolgersi alla ragazza, vorrebbe forse dare l’impressione d’essere nobile e ricco, così come la fanciulla, affacciata alla finestra, preferirebbe essere scambiata per la padrona di casa. “Di canno ti vististi lo maiuto/ bella, da quello jorno so’ feruto”, da quando hai indossato il saio sono rimasto colpito. Sembra il verso della canzoncina tradizionale “Calabrisella”: “… ti vitti all’acqua chi lavavi/ e lu me’ cori si linchìu d’amuri:/ quandu li panni a la sipala ampravi,/ jeu t’arrobbai lu mègghiu muccaturi”. Il saio, o “maiuto”, è un grembiule senza maniche, una specie di “pazienza” apprettata, usata per non bagnarsi dalle lavandaie che, nel compiere le loro attività, si pongono in quella tal posizione prona, in cui giocoforza vengono offerte, allo sguardo degli astanti, le rotondità posteriori, in movimenti sussultori ed ondulatori. “Tràgemi d’este focora, se t’este a bolontate…” (sottraimi a questa vampa che mi divora, se acconsenti) è l’invito di lui che ottiene come risposta: per me… puoi andare ad arare il mare ed a seminare al vento… non ti concederò un bel nulla… con tutti i soldi e tesori di questa terra che riuscirai a racimolare non mi avrai di certo… e ti dirò di più, visto che insisti, piuttosto che giacere con te mi rado i capelli e mi faccio novizia pur di non vederti più attorno. Il maschio coglie la palla al balzo e le ribatte per le rime: se davvero lo fai, allora anch’io mi rapo a zero e mi faccio monaco, giusto per entrare nel tuo convento a confessarti, ed al momento opportuno approfittarmene. Svergognato, come ti permetti, piuttosto mi butto a mare. Se lo fai tu, lo faccio anch’io e ti vengo a prendere sino in fondo, ti trascino a riva, ti stendo sulla spiaggia e mi approfitto di te, anche se sei annegata. Ma non si prova nessun piacere a farlo con le annegate, replica lei, se provi a farmi violenza mi metto ad urlare finché non arrivano i miei parenti per darti un sacco di legnate. Se i tuoi parenti mi pescano in flagrante non mi potranno fare proprio niente perché mi appellerò alla legge (defensa) che preserva i nobili dalle eventuali vendette dei “cornuti”. Il dualismo linguistico si rintraccia già nell’opposizione del terzo verso apertamente dialettale (“tràgemi d’este focora, se t’este a bolontate”), in netta antitesi con i primi due che iniziano come esempio di lirica colta: “Rosa fresca aulentis(s)ima ch’apari inver’la state,/ le donne ti disiano, pulzell’e maritate…”. In una varietà di francesismi mescolati ad espressioni popolari più crude e realistiche, emergono formule cortesi di vassallaggio d’amore (“madonna mia”), alternate a quelle, più rozze, in cui la posizione maschile prende il sopravvento (“besogn’è ch’io ti tenga al meo dimino”).
“Ma il punto chiave dell’analisi in questione – precisa Dario Fo (”L’Osceno è sacro”, Guanda, Parma 2010)- è l’uso dei termini che le persone perbene definiscono osceni, triviali, o semplicemente parolacce. Ogni regione italiana può esibire una quantità strepitosa di epiteti scurrili, in una specie di tenzone interregionale dove è impossibile stabilire quale sia vincitore. In verità, l’utilizzo e il peso di queste cosiddette volgarità cambiano enormemente di valore e di significato appena varchiamo il confine di ogni singola provincia. Tutto dipende dalle origini storiche delle varie comunità, dai differenti costumi, dalle opposte tradizioni civili, morali e religiose che hanno determinato nei secoli culture e senso civico assolutamente diversi… un attento esame delle scurrilità e degli improperi fa scoprire con chiarezza inconfutabile i valori o le bassezze di un popolo meglio di qualsiasi altra analisi scientifica.”
Una prima arguta discriminazione di sconcezze riguarda il genere, maschile o femminile. Per spagnoli (coño) e francesi (con), come pure nel dialetto calabrese (quello catanzarese prevalentemente), cunno, o cunnu, inteso quale sesso femminile, costituisce un insulto, sulla scia del latino che non sembra scorgere particolari valori di armonia e bellezza nell’organo della riproduzione femminile, cunia, matrice, assimilato al conio numismatico. In italiano appunto, conio, cogno (congius), oppure conno (cosnus, dal greco “kus-òs”, “kògche”, conchiglia, o dal sanscrito “çush-is”, cunicolo,), non compaiono con risvolti necessariamente allusivi, eccezion fatta per l’espressione “femmina da conio”, meretrice, assimilata cioè a qualcosa che si ha a nolo. Pertanto è nei dialetti regionali che “cunnu” (cunnus) torna a significare sesso femminile, anche in senso metaforico (‘ncugnàta, “quella” che viene messa sotto pressione).
Nonostante l’assonanza con il latino, l’inglese “cunt” potrebbe derivare dal norreno kunta, venendo attestato nel XIV secolo in un adagio dei “Proverbi di Hendyng”: “Give your cunt wisely and make (your) demands after the wedding”(dàlla con saggezza e la ricompensa l’avrai dopo il matrimonio).
Shakespeare stesso, nelle “Merry Wives of Windsor” (I, 3 – Pistol: “Convey, the wise it call: steal! foh; a fico for the phrase!”, il saggio lo chiama trasferire: sgraffignare! Vah, che vale parlarne!), nell’Henry V (III, 6 – Pistol: “Die and be damn’d! and figo for thy friendship!”, morire ed essere dannato! Ed alla malora l’amicizia!) e nell’Henry VI (II, 3 -Thomas Horner: “Let it come, i’ faith, and I’ll pledge you all; and a fig for Peter!”, lasciate che venga il mio turno e berrò alla salute di voi tutti; di Pietro non m’importa nulla) riporta il “floccifacere” (“parvi pendere”, non curare, mettere in non cale, in greco mokàsthai) letteralmente al maschile: fico, figo, fig, nel senso di cosa da nulla, fico secco, alla stessa stregua che nell’”Orlando Innamorato” (I, 26, 62) di Matteo M. Bojardo, rifatto da Francesco Berni: “E poi ti proverò quel ch’or ti dico,/ che non ti stimo e non ti prezzo un fico”.
Invece, un contemporaneo di Shakespeare, Thomas Lodge (“Wit’s Miserie and the Worlds Madness”, 1596), come “dare il fico”, descrive un gesto di disprezzo, compiuto col pollice in bocca: “I see contempt marching forth, giving me the fico with his thombe in his mouth”, paragonabile all’oltraggioso modo cinese di appoggiare il naso sulla V formata da indice e medio. Un tale modo di “fare”, oltre che di dire, in maniera gestuale differente e linguisticamente più edulcorata, in italiano, diventa: “far le castagne”, assimilabile al “far le fiche”, mentre “far le fiche alla cassetta” equivarrebbe invece a “far l’agresto” (far la cresta… sulla spesa).
Affine per certi versi al “far le fiche”, l’espressione francese “faire la potte”, (faire sa fesse! broncio), da “pòt”, pignatta, brocca, boccale, vaso, pòta in bergamasco, bresciano e cremasco; popolarmente più diffuso, con il raddoppio della “t”, risulta potta (dal latino puta). I versi del “Processo di Sculacciabuchi”: “Il culo e’ per la gente dotta; per il villan fottuto c’e’ la potta” sembrano riandare, in paremiologia, all’apoftegma: “al contadin non far sapere…”).
L’insulto, nelle regioni settentrionali, viene veicolato più decisamente dal sesso maschile: soprattutto da “pirla” (lombardo emiliano: trottola), bigolo (friulano lombardo); ancora lombardi: piciu, üsell (uccello), lüganega (salsiccia). Per l’etimologia dell’intercalare ligure belìn si è ipotizzata la derivazione da un rito omosessuale, incentrato su di un arcaico culto proto-celtico di Belenos, Belemnus o Belanu, assimilato presumibilmente, per il tramite dei Fenici, da contatti con popolazioni medio-orientali: Bel sarebbe quindi Baal (Signore), come in Belzebù (signore che vola; nella versione ebraica dispregiativa: signore delle mosche o dell’immondizia), o accoppiato al pronome nostro (innu, e dunque Nostro Signore: Bel innu) oppure affiancato al suo stesso genitivo: bel belim, Signore dei Signori.
Nel meridione, semmai, quando il membro virile fa sentire la sua presenza è indice di irritazione: “aviri ‘i cazzi”. Più offensivo di “cazzùni” (semplicione tutt’al più o stupidotto) risulta infatti “aricchjùni”, per l’accusa di omosessualità ed emarginazione, impotenza e malattia (orecchioni: parotite, complicata da orchite), oltre che nel sottolineare la consuetudine ad attrarre la sfortuna di un genere maschile incombente come spada di Damocle, secondo “Creuza de ma”: “a sfurtûn-a a l’è ‘n belin ch’ù xeua ‘ngìu au cû ciû vixín” (La sfortuna è un “uccello” che vola intorno al culo più vicino).
Al contrario, il sesso femminile esprime grazia, gioia, illuminazione, limpidezza, sapienza, come testimonia il campidanese e sassarese: “Non narat nudda, chi no ata pompiau udda!”, non ha niente da dire chi non ha conosciuto il sesso (femminile).
All’universo dell’avifauna rimanda il ticinese böcc dell’adagio: “Böcc l’é böcc l’üsèl al g’ha mia l’öcc” (buco è buco, l’uccello non ha l’occhio). L’ascolano ciogna (cicogna) ci fa capire meglio perché partorire corrisponda all’arrivo dei trampolieri, e poi, con ampia diffusione, c’è la passera, mentre nel meridione reggino piciùni, piccione, come in barese e salentino, oppure altro riferimento animale allusivo: cunigghiu (elevato all’ennesima potenza se poi: lu cunigghiu avi lu pilu!).
In veneto, geosinonimo relativo sia a sciocco sia al sesso femminile è mòna, scimmietta babbuino, bertuccia, per cui anche monasìna, babbuina, monna (forma sincopata di madonna, signora). Nel napoletano, dove “nisciun’è fesso”, l’insulto è maschile ed il sesso femminile pur sempre femminile, la fessa. Varianti: pucchiacca (valle infuocata: “Cicch’t e ciacch’t int’a puchiacc’”è inequivocabilmente onomatopeico) oppure pertuso (“Per la legge del rattuso ogni buco è nu pertuso”).
Il termine catanese pacchio (dal latino patulum, pastura), per via di questa etimologia, al femminile indica un’allegra convivialità: proprio “una pacchia!”, nonostante la derivazione dal greco pachys, grosso, giustifichi più probabilmente l’aggettivo pacchiano, appunto nel senso di grossolano.
Affini alla napoletana fèssa (in francese “fesse” è la natica), che vale per spacca, la romana abruzzese e marchigiana frègna, o l’umbro-marchigiana fresca, da cui, rispettivamente, fregnone, fregnacce, e, per parafonia: frescone, frescacce. In dialetto calabrese fissa equivale a minchione, ma soprattutto finto tonto o gradasso, prepotente (“Cu mia no ffari ‘u fissa”, con me non ci provare).
Sempre in calabrese meridionale ed siciliano orientale il sostantivo maschile pilu (dal latino pilus, dal greco pilos, feltro, pelo, o dal sanscrito “insetto”, per cui papilio e palpebra) dà origine alle locuzioni: “nu pilu i fimmana tira cchjù i nu parìcchju i voi”, per dire che quello del sesso è un fascino eccezionale; ovvero: “allisciari’u pilu”, conciare per le feste; “inchiri i pilu”, millantare, è quasi analogo all’invito a non divagare: “chi nnicchi e nnacchi”; nnicchiu (nicchia, nicchio, niclus da mytilus, mollusco, o dal tedesco schnecke, chiocciola, da cui nacchera) è geosinonimo di vulva; nnacchi potrebbe corrispondere alla “naca” (culla), dal greco “nake”, il vello di pecora con cui un tempo si formava la culla, la quale, solidamente attaccata al soffitto, dondolava, restando ben ferma, e da qui il senso metaforico di “annacare”, perder tempo, dunque immobilismo, conformismo, soprattutto se l’azione è prodotta da qualcuno, ed in specie se di sesso maschile, da cui ci si aspetterebbe qualcosa, altrimenti, trattandosi di una donna, sottolinea l’intenzionalità di attrarre gli sguardi su delle forme procaci.
In Provenza, in Piemonte ed in Lombardia di dice parpàja (farfalla, falena, vela del parrocchetto); nel Lazio troviamo ciumachèlla (diminutivo di lumaca), e nomignoli come zoccola, pantegàna, sòrcia e sòrca e tutti hanno a che fare coi ratti. Va da sé quindi che in Toscana potrà esserci anche la topa e, più a nord, la tòpola. In calabrese, zòccula e zocculàra sono più affini a tappinàra (malafemmina, da tappìna) ed al maschile, zòcculu, è indicatore di furbizia.
Ad un colore rimanda la piemontese neira (nera); viòla ricorda sia il colore che il fiore, ed altre locuzioni settentrionali rinviano a dei frutti: persegghìn (pesca), mugnaga (albicocca), broegna (prugna). Invece, in calabrese, “cu ‘nd’avi pruna” è cornuto.
A qualcosa di appetitoso riporta la romagnola gnocca (da gnocco), mentre patacca (dall’arabo: abu taca, il padre della finestra) ritorna al senso numismatico e spregiativo del conio, trattandosi di una grossa moneta di basso valore, sulla quale la “finestra” era rappresentata dalle colonne d’Ercole del vessillo imperiale spagnolo.
“Dalla fica son nati tanti eroi, regni, città,/imperatori e regi, e tanti e tanti monumenti egregi” (Prodigi della mona).
Il maggiore tabù pende comunque sul femminile del frutto del fico, nonostante la derivazione dal greco sykon rientrasse, con la stessa accezione, nella mistica misteriosofica. Sicofante era chi proteggeva dai ladri i frutti proibiti, ma anche chi svelava le cose sacre durante le cerimonie misteriche ed era preposto ad iniziare ai segreti della fecondità. E simboli di fecondità per antonomasia erano considerati un po’ tutti gli alberi, in particolar modo l’albero di fico, il cui frutto, arrivato a giusta maturazione, si schiude fornendo un’immagine suggestiva della vulva. Per cui il nome di tale frutto, come si suole al femminile, ha subìto una netta trasformazione di significato assurgendo alla più diffusa rappresentazione di una metafora sessuale. Tale metafora è passata dal greco sykon al latino ficus, che lo avrebbe preso in prestito come calco morfologico, secondo cioè quel procedimento di formazione delle parole in altre lingue che si appoggia ai termini già esistenti con quel determinato significato.
In Aristofane non mancano le allusioni al sesso femminile (ad esempio: Ecclesiazuse 97; Acarnesi 769; Vespe 1374-7), del tutto esplicito però il riferimento al frutto del fico al verso 1350 della Pace: “grosso quello del marito, della sposa è saporito” (“Tès d’edù tò sùkon”).
La voce figa, associata all’essenza stessa della bellezza e della provvidenza, ha a che fare con la giustizia di Afrodite, od ancor meglio di Venere, intesa come dea sia dell’amore che della fortuna, come testimonia l’antico tempio dedicatole, nelle Marche (a Fano), quale appunto Fanum Fortunae.
Nel gergo italiano, l’apposizione della “s” iniziale “privativa” determina la creazione del termine sfigato con cui ci si riferisce a chi non gode della gioia espressa dal sesso femminile, a chi è sfortunato, in tutti i sensi, anche come dotazione di natura; invece, dalla sintesi di una s iniziale al geosinonimo siciliano pacchio, si ottiene spacchiu (sperma) e spacchiusu, con cui si intende tutto il contrario, cioè fascino e attrattiva per chi, nel gergo giovanile, viene indicato con figo.
Nel caso della voce “sticchio” (in alcune zone della Sicilia sud-orientale sticciu) scompare l’iniziale del latino Osticulum ovvero piccola bocca (da Os), con la quale si rende la similitudine tra il superiore sorriso orizzontale e quello inferiore, verticale. Volgarmente, nella Calabria meridionale, sempre per indicare l’organo sessuale femminile, viene utilizzata anche al femminile: sticchia, la quale, verosimilmente, potrebbe essere considerata corrispondente femminile del termine minchja, che indica invece l’organo maschile, da cui, come insulto, si dice minchione e minchjafrìdda, per incapace, indolente.
Nei dialetti meridionali capita che l’organo genitale maschile venga designato al femminile (“la” minchja), mentre quello femminile al maschile (“lo” sticchio), quale presumibile retaggio della colonizzazione spagnola, dato che una stessa inversione di genere, rispetto all’italiano, si ritrova nella lingua iberica, la quale chiama il pene la polla e la vagina el coño. La voce minchia viene impiegata pure come una popolare forma di esclamazione, mentre la parola sticchio si fa rientrare in espressioni colorite in funzione di imprecazione (es. sticchio della malora) oppure di audace complimento (pezz’i sticchio) all’avvenenza, proprio come avviene con “gnocca”.
Nelle formule apotropaiche, i genitali, seppur toccati, non vengono neppure nominati: “Magarìa, magarìa, ssi fatta pe’ chida puttana i’ mammata, chidu cornutu i’ patrita, e no’ pe’ mia” (maleficio, degno figlio dei tuoi genitori, tornatene da dove sei venuto!). Questa ci appare quale arcaica formula di un arcano cerimoniale di aversione, quasi fosse attestato in libri sacri ormai dispersi. Sia nell’Atharva Veda che nel Kaucika Sutra leggeremmo: “Noi conosciamo i tuoi genitori, o Sonno: tu sei il figlio delle spose degli dei, il braccio destro di Yama, tu sei il Passaggio, tu sei la Morte. Tale noi ti riconosciamo, o Sonno, tale, o Sonno, difendici dall’incubo. Come ci liberiamo da un debito a quarti ed ad ottavi, così rimandiamo verso il nostro nemico ogni incubo”.
Anche il gesto di “fare le fiche” (pollice tra indice e medio), più che un insulto, rappresenta uno scongiuro molto antico, essendo riprodotto da amuleti etruschi ed egizi. La definizione latina “medium unguem ostendere” infatti non corrisponde al “medium ostendere digitum”, con cui si inveisce contro qualcuno, sollevando il dito medio. Johann Praetorius, in “Philologemata abstrusa de Pollice”, Sagani et Lipsiae, 1677) ne fa una descrizione inequivocabile: “Inserto pollice inter medium et indicem, ita ut pollex ipse insertus emineret, et apparet, reliquis digitis in pugnum contractis”. Dante ne fa riferimento nell’Inferno (XXV, 1-3: “Al fine de le sue parole il ladro/ le mani alzò con amendue le fiche,/ gridando: Togli, Dio, ch’a te le squadro!”). Gian Leonardo Marugj, in “Capricci sulla Jettatura” (1815), ci consegna la prescrizione: “Se poi viene un susurrone/ e lodando vi scompone,/ presto il pollice volgete/ sotto l’indice, ‘l tenete/ a lui ritto in faccia/ sin che parti, ovver si taccia”. Frederick Thomas Elworthy, fa menzione del gesto nel suo classico “The Evil Eye. An Account of this Ancient & Widespread Superstition”, pubblicato a Londra da John Murray nel 1895.
In italiano, insomma, il vocabolo in questione ha subìto una specializzazione semantica tale da invertire la regola del maschile da attribuire all’albero (melo, pero, nespolo, banano…) e femminile al frutto (mela, pera, nespola, banana…). Laddove non è assolutamente primario il senso sessuale, il frutto ritorna di genere femminile, così ad esempio in Francia (la figue), in Piemonte, nel napoletano, nel salentino e nel reggino, in specie al plurale: “nu panaru i fica” (e figuratamente panaru è il deretano).
In Calabria, comunque, una qualità di fichi, che matura dopo la consueta raccolta (quella dei “fioroni”, “fica ‘i hjùri”), si definisce bifaru, voce proveniente dal latino “bis ferre” (fruttificare due volte), e che oltre a quella certa qualità di fichi, costituisce un insulto che indica rozzezza. Ficarìgnu significa debole, come il legno dei rami del fico e metaforicamente la persona con poca voglia di lavorare. La ricchezza della famiglia delle voci relative alla ficàra (la pianta), nel dialetto calabrese, sembra allontanare dal significato sessuale: ficaràzza (caprifico), ficaràzzu (frutto di fico selvatico), troiànu (ficus leucocarpa), catalanèdu (varietà piccola e scura), paradisu, gabbalàtru, ferticchjàricu, verniòlo (altre qualità di fico); nigredu (nerognolo), russèddu (rossiccio) e jancu (bianco) designano colori tipizzanti; schjòcca si chiama il ramo coi frutti, ma anche i fichi secchi infilzati da spiedini di canna; acquazzusu (acquoso), bbottu (non del tutto maturo), stìpitu (del tutto acerbo) descrivono le condizioni del siconio. Il quale svolge un ruolo da protagonista nel rompicapo popolare: “Sàcciu na favuleda a la divèrza, nuda palòra di la veritàti; avìa na ficarèda ed era cerza, stendu la manu mu pìgghju ceràsi; s’affaccia lu patrùni a la finestra: Oh latru, chi t’arròbbi ssi granàti! Mi mina cu ‘na petra ‘ntra la testa, lu sàngu mi nescìa di li costàti!” (conosco una storiella al rovescio, nulla di vero; avevo un fico ed era una quercia, allungo la mano per raccogliere ciliegie; s’affaccia il proprietario alla finestra: ladro che rubi codesti melograni, mi lancia un sasso in testa, il sangue scorreva dalle costole). Meno tortuoso, e forse più allusivo lo scioglilingua: “’ntra ‘nnu pignatèdu cupu, pocu pipi càpi, ‘n’anca di merlu e ttri di cacapìcastru” (Gerhard Rohlfs riporta: “cacapìstratu”), che tratta di contenitori oscuri e di uccelli di cui forse s’è definitivamente persa la memoria.
Sul piano del parlato, nell’italiano odierno, le voci dialettali sono percepite con sempre maggior frequenza come una fonte di espressività, perfino di innovazione stilistica, e, soprattutto, se si pensa al fatto di come qualcuno dei vocaboli impiegati per designare un determinato oggetto concreto si sia già imposto a livello nazionale, soppiantando i suoi geosinonimi, non vengono più relegate all’umile rango di riempimento di vuoti linguistici, che altrimenti verrebbero colmati da una terminologia, in molti casi, sprofondata in un inevitabile livellamento.
Giuseppe M. S. IERACE
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