L’ingegneria approssimativa della mente umana – accrocchi, pastrocchi… quisquilie e pinzellacchere: “ma mi faccia… il piacere!”

E’ sicuramente il piacere la nostra bussola, come, ben prima di Freud, aveva notato Aristotele. Se le specie si sono propagate è proprio grazie al piacere; eppure la più recente ricerca relativa alle motivazioni che giustifichino tanta dedizione al sesso, oltre a “piacere” e “riproduzione”, ne elenca altre 235, tra cui “sfuggire alla noia”, “fare un po’ di sano esercizio”, “un modo come un altro per dire grazie”, “una maniera per avvicinarsi a Dio”, ecc. (Meston C.M. e Buss D. M. (2007): “Why humans have sex” in Archives of Sexual Behavior, 36 (4) pp.477-507).

Siamo soliti classificare automaticamente ed inconsciamente qualsiasi cosa nella categoria gradevole-spiacevole. Per quello che in psicologia cognitiva viene conosciuto come “effetto priming positivo”, si reagisce più prontamente a qualcosa che viene avvertito appartenente alla categoria del buono. E’ dubbia l’ipotesi che tale categoria debba necessariamente condurre ad un beneficio genetico diretto, visto che, nella stragrande maggioranza delle circostanze, persino il sesso appare una pura e semplice ricreazione, piuttosto che un’attività procreativa finalizzata alla perpetuazione del patrimonio genetico.

Il piacere può essere considerato un adattamento oppure si tratta di una soluzione efficace ad un problema, adottata da quella che Gary Marcus definisce “l’ingegneria approssimativa della mente umana” (“Kluge”, Codice, Torino, 2008). Se avesse prevalso, infatti, la logica evoluzionista, il piacere sarebbe dovuto essere più strettamente collegato a quelle attività in grado di garantire il più alto coefficiente di moltiplicazione del corredo cromosomico, mentre di fatto ci ritroviamo ad inseguire una mescolanza di cose di genere astratto, a cui, nell’insieme, si dà la definizione di “felicità”, ma che sostanzialmente, ad un’analisi più approfondita, corrisponde un po’ all’autostima, un po’ al successo, alla considerazione di cui si è oggetto tra i propri simili, alla percezione del controllo sulla propria esistenza, al benessere, e così via dicendo.

A questo punto si inserisce il problema neurofisiologico della stimolazione diretta delle porzioni cerebrali sensibili al piacere, a cominciare dal nucleus accumbens, da parte di quelle sostanze (alcol, nicotina, eroina, cocaina, anfetamine ed altre droghe), che inducono dipendenza perché rinchiudono in quel “cortocircuito del piacere”, di cui non si riescono a prevedere le devastanti conseguenze a lungo termine.

Anche il sesso, oltre che piacevolezza, può indurre dipendenza. Godere dell’attività sessuale non corrisponde ad escluderne ogni altra. Pur essendo la strada da percorrere per la riproduzione, gli individui ossessivamente attratti dall’attività sessuale, alla fin fine, si moltiplicherebbero smodatamente, in numero superiore a quanti si comportano invece con maggiore continenza, rompendo così ogni equilibrio demografico. La dipendenza dal sesso sembra da assimilare a quella procurata dallo zucchero raffinato, dal sale e dai grassi. Un bisogno spasmodico indotto dalla perdita di contatto con la natura.

L’incentivo universale rappresentato dal piacere è sottoposto ad una regolazione di cui ci resta incomprensibile la logica. La maggioranza delle attività umane che costituiscono fonte di piacere non sembrano predisposte ad assicurare l’idoneità riproduttiva.

La funzione cerebrale che determina il percorso del piacere è bipartita in una sezione, piuttosto ridotta, relativa alla soddisfazione a lungo termine sostenuta dal sistema cosiddetto “deliberativo”, che ci fornisce la forza sufficiente per poter procrastinare la gratificazione, mentre la stragrande maggioranza dei godimenti si riporta al più arcaico sistema “riflesso”, decisamente più immediato e più semplice. Il primo sistema, quello deliberativo, nel decidere quali attività siano da perseguire, al fine di soddisfare la richiesta di piacere, si dimostra esigente e reagisce soltanto di fronte a qualcosa di veramente autentico.

Prendiamo ad esempio la necessità nutritiva dello zucchero, rintracciabile nella frutta, per cui, in natura, si è sviluppato il gusto per questo alimento, grazie a dei sensori che reagiscono al sapore, ma non ai valori nutritivi. Tali sensori che afferiscono ai centri del piacere possono venire facilmente ingannati dagli aromi artificiali di caramelle e succhi dolcificati, i quali riproducono il sapore ma contemporaneamente incrementano, senza coerente motivazione, la nostra dose quotidiana di calorie.

I meccanismi grazie ai quali si trae piacere dal sesso funzionerebbero più o meno alla stessa maniera. Già nel momento in cui l’attività è mirata a rinsaldare un legame affettivo si mette da parte lo scopo riproduttivo. E poi ci sono motivazioni e circostanze i cui stimoli non daranno alcun contributo all’evoluzione della specie. Ci si può servire di orifizi, e di altre parti anatomiche erogene, che non concorrono affatto alla procreazione. Pur di non andare incontro a gravidanze indesiderate, ci sono eterosessuali che decidono di farsi “sterilizzare”, momentaneamente o definitivamente; omosessuali che affrontano il rischio dell’AIDS pur di fare del sesso non protetto; mentre i pedofili insistono nei loro interessi, malgrado la riprovazione unanime della società e la condanna penale prevista.

Per l’omosessualità la psicologia evolutiva ipotizza l’esistenza di un valore adattativo nell’investimento di risorse per accudire la progenie dei consanguinei. Ma la correlazione genetica della prole dei collaterali, consistente dopo tutto in un solo ottavo, non controbilancerebbe a sufficienza il mancato guadagno della riproduzione. Poi c’è la teoria del “servilismo” e quella della “riserva”, in cui, rispettivamente, nel prestare le cure parentali, si è assoggettati ad una coppia dominante che si riproduce per tutto il clan, oppure si rimane di riserva nel fare le veci di chi, tra i procreatori, potrebbe venire a mancare (Richard Dawkins: “The Selfish gene”, trad. it.: “Il gene egoista. La parte immortale di ogni essere vivente”, Mondadori, Milano, 1995).

L’esperienza di sintonizzare il piacere con un particolare genere di attività avrebbe avuto come conseguenza la dissociazione della funzione dall’adattamento. Diretto risultato della selezione naturale oppure suo sottoprodotto, la “morale della favola” erotica non cambia, poiché alla fin fine tutto dipende, non dalle “nobili” origini evolutive, ma dal consenso. La medesima considerazione non potrebbe avere lo stesso valore per pedofilia o zoofilia, ad esempio, in quanto una delle due parti non avrebbe sufficiente maturità per esprimerlo questo “benedetto” consenso.

L’omosessualità viene oggi interpretata alla stregua di qualsiasi altra variazione della sessualità, un sistema di produzione del piacere che l’evoluzione ha adattato soltanto all’intimità del contatto fisico, piuttosto che ad uno scopo genetico. Ma non è sempre stato così. I movimenti per i diritti civili degli omosessuali, nel secondo dopoguerra, hanno raggiunto un considerevole peso politico, tanto da ottenere la cancellazione delle norme giuridiche che ritenevano reato le pratiche sodomitiche. Dal 1973 è andata sempre più in disuso la diagnosi clinica di omosessualità come malattia mentale, per scomparire definitivamente dalla terza edizione del DSM dell’American Psychiatric Association Board of Trustees.

Tra i criteri diagnostici per la pedofilia, la convenzione indica l’età critica dei sedici anni, per cui superando questa soglia anagrafica si viene considerati molestatori nei confronti di quanti sono almeno di cinque anni più giovani, scendendo al di sotto si è abusati da coloro i quali abbiano cinque anni di più.

Adesso si va formando un movimento di opinione, che proclamando la pedofilia alla pari di qualunque altro orientamento, o preferenza sessuale, rigetta l’idea di doverla considerare un reato. Come prima finalità, il movimento si è così proposto l’abbassamento, da sedici a dodici anni, di questa soglia di età per il consenso ai rapporti sessuali, ma manifesta anche l’intenzione di ottenere la depenalizzazione del reato di diffusione e possesso di materiale pedopornografico. L’iniziativa verrebbe motivata da giustificazioni educative, laddove la proibizione incrementerebbe una morbosa curiosità, da una parte, e l’emarginazione nell’illegalità, con tutto ciò che ne consegue, dall’altra. Sembra, però, quanto mai opportuno distinguere meglio i concetti di sfruttamento a danno dei minori, violenza su di essi, abuso e perversione, da quello che dev’essere il sacrosanto diritto dei medesimi di vivere con la massima serenità, e nel pieno rispetto di quelle che sono le fisiologiche tappe evolutive, una sessualità adeguata alla loro età, dalla possibilità di difesa dal plagio, o da una eventuale suggestione psicologica, nonché da ciò che può ritenersi consapevolezza e libertà di scelta.

Il tema più scabroso non sembra essere quello del diritto dei minori a vivere una loro sessualità e ad intrattenere rapporti tra di loro, ma l’intraprendere delle relazioni intergenerazionali con adulti, o quanto meno con soggetti più anziani di almeno cinque anni. Il tabù che si cela dietro questa facciata è quello dell’incesto che si può perpetrare in famiglia, perché questa perderebbe la sua sacralità, smarrendo la principale funzione della procreazione e dell’allevamento dei bambini.

Se i bambini provano dei desideri per gli adulti dovrebbero essere gli adulti a frenare questi impulsi, in quanto l’asimmetria della contrattazione intergenerazionale vedrebbe l’adulto alla stregua di un invasore. Eppure, in un approccio pragmatico, nient’affatto gravato da pregiudizi, eros e libido andrebbero inquadrati quali fattori aggreganti che esulano da tutte le sovrastrutture ideologiche. Orientamenti, preferenze, scelte, che si traducano in comportamenti aggressivi, o dannosi per altri, vanno perseguiti comunque, indipendentemente dall’età. Non sarebbe allora la condizione di pedofilo a dover essere considerata reato ma, indistintamente, la pratica della violenza e dell’abuso. Eppure sembra che la nostra civiltà abbia perduto dei bersagli, non sappia ben individuare i propri nemici, e, dato che una deviante mostruosità da indicare è pur sempre necessaria, si è rintracciata genericamente nella pedofilia la maschera del diverso per eccellenza. Risulta difatti molto più comodo inquadrare l’intero universo all’interno di categorie facilmente riconoscibili, senza tener conto che spesso, cercando tra queste etichette, potrebbe risultare piuttosto difficile trovare quella che meglio si confà a descrivere e riconoscere quanto ci sta di fronte, con tutta la sua peculiarità. E si è quindi costretti a forzare il problema irrisolto dentro i più comodi contenitori delle convenzioni e dei pregiudizi.

L’attrazione verso ragazzi più giovani soddisfa un desiderio immaturo, tipico dell’ideazione “magica” primitiva, di riconquistare parte della propria giovinezza attraverso un altro corpo. Il disturbo di personalità più frequente nei pedofili è quello narcisistico, per l’intensa identificazione e la fantasia di fusione con l’oggetto, o di ripristino di un sé giovane ed idealizzato capace di puntellare una fragile autostima; in modo maggiore nel caso della pedofilia omosessuale, l’identificazione avverrebbe con la madre per cui il pedofilo si interessa del bambino così come avrebbe voluto che la madre si interessasse a lui.

Gli adulti che nutrono fantasmi sessuali riguardo ai minori sono piuttosto numerosi. Nel corso delle interviste effettuate da Brett Kahr nel più recente lavoro (“Sex & Psyche”, 2007) a proposito di fantasie sessuali, ben il 31% degli intervistati maschi (pari, in base alle sue proiezioni, a quasi 7 milioni di britannici), ha dichiarato una, o più, fantasie sessuali incentrate su adolescenti, mentre l’8% (pari a circa 2 milioni) avrebbe rivolto il suo interesse verso ragazzi di età inferiore ai sedici anni.

Si può dedurre che un individuo su tre faccia rientrare nelle sue tematiche fantastiche un’adolescente e che per almeno uno su dieci l’età bersaglio delle fantasie sia decisamente prossima alla pubertà. L’1% (circa 250.000 persone) ha ammesso di avere fantasie sessuali su impuberi, senza contestualmente dichiarare una predisposizione a compiere atti che costituirebbero reati. Individuare, infatti, quanti siano maggiormente soggetti a commettere illeciti in questo ambito è attualmente oggetto di studio da parte di psicoterapeuti e forze dell’ordine. Ammesso sia possibile che la qualcosa venga determinata con sufficiente prevedibilità, una delle ipotesi più accreditate è costituita da una proporzione inversa tra l’età dei bambini e la gravità della devianza: più i bambini sono piccoli più accentuata sarebbe la psicopatologia di coloro che fantasticano su di essi. Altro dato significativo sarebbe che quanti mostrano tendenza alla pedofilia sarebbero stati a loro volta vittime di attenzioni sessuali durante la loro infanzia, per cui, sia pur in maniera inconscia, cercherebbero in un certo senso di pareggiare i conti con il loro passato ed, invertendo la situazione, espellere, oppure eventualmente erotizzare, i propri ricordi.

Per pedofilia vera e propria si deve intendere l’interesse diretto nei confronti di bambini prepuberi, che si può attuare concretamente oppure con un impegno a livello di fantasia. L’interesse può anche esprimersi con modalità simboliche, ma in quest’ultimo caso ci sarebbe uno sconfinamento nella parafilia del “feticismo da travestimento” (il partner, ad esempio, deve vestirsi, atteggiarsi e recitare la parte del fanciullo o della “lolita”, acconciarsi con le trecce, ecc.). Se il rapporto avviene con soggetti a cui si è legati da stretti vincoli di parentela, si parla di incesto. A volte la concreta attività erotica potrebbe essere commista ad un certo grado di violenza, vissuta come “vendetta” nei confronti del proprio aggressore (quello che lo avrebbe fatto oggetto di attenzioni nell’infanzia); questa istanza sfocia nel la parafilia del sadismo. L’attrazione pedofila può essere, o no, esclusiva, e dirigersi in senso eterosessuale, omosessuale o verso entrambi i sessi. Se, comunque, non si partecipa all’attività erotica e ci si limita ad osservare si sfocia nella “scopofilia”.

Ed è all’interno della parafilia voyeuristica che andrebbe collocata la pedopornografia, più spesso consumata su internet. Luoghi comuni, duri a morire, blaterano sullo strumento, sul mezzo, sul veicolo come sul tentatore più subdolo grazie a quale scambiare questo tipo di materiale. Ma l’ipocrisia che si carbura un po’ troppo per lo scandalo delle immagini, sottilizza poi su tutto il resto.

Riguardo all’età, abbiamo visto esistere un’ampia zona franca che va antropologicamente considerata a partire dalla pubertà, difficilmente distinguibile da una adolescenza che perdura nel tempo ben oltre i limiti anagrafici previsti. La pedofilia che si consuma “simbolicamente”, che non è troppo lontana poi dalla perseveranza nel mantenersi giovani a tutti i costi e con tutti i mezzi della chirurgia plastica, ci insegna che esistono vari metodi per comportarsi da adolescenti a più livelli, nel posare, nel truccarsi, nelle acconciature, nella moda, o in una particolare foggia, come in altri atteggiamenti da “teenage fashions”. Non è forse con questo sistema che si stimola e si incuriosisce l’impreciso meccanismo di ricerca del piacere, inducendolo a fenomeni paralleli o conseguenti? Per qualcuno sarebbe più giusto che fosse obbligato il provider ad un’oggettiva responsabilità circa i contenuti postati su un suo sito, magari però, non solo e semplicemente, con la formula “all models are at least 18 years of age”.

Una “dipendenza” tipicamente moderna sembra la coazione all’utilizzo di internet, o di telefoni cellulari. Si tratta di una compulsione che presumibilmente trae spunto dall’ancestrale circuito di ricompensa per l’ottenimento di informazioni, di qualunque natura esse siano. George Miller, autore, nel 1963, assieme a Chomsky, dell’articolo “Finitary models of language users”, è convinto che la nostra sia una razza di “informivori”, perché l’evoluzione avrebbe premiato maggiormente i neofili e tutti coloro che provavano piacere ad accumulare dati, a collezionare cose, ad accoppiarsi con partner sempre differenti, a scapito dei misoneisti, conservatori che si sarebbero accontentati sempre della “solita minestra”. Anche quando non torna utile, la primizia (e questo forse vale pure per la pedofilia) procura sempre un maggior piacere, “una ciliegia tira l’altra” e non si riesce a smettere. Nel lavorare su internet, poi, si realizzerebbe quella che Mihaly Csikszentmihalyi ha definito “condizione di flusso”, in cui un individuo si trova talmente assorto in quanto sta facendo da non riuscire ad accorgersi neppure del trascorrere del tempo.

Eppure il maggior piacere dovrebbe provenire dalla sensazione, sia pur effimera, di aver assunto un qualche genere di controllo. Anche questo avrebbe un significato adattativo, piuttosto che la confusione, meglio un sistema che presenti degli obiettivi rigorosamente definiti.

Il mondo attuale ci offre una ridondanza di stimolazioni “ipernormali”, per quanto riguarda perfezioni di misure, di ritmi, di intensità. La sfida attuale non ci pone di fronte ad ambienti inospitali, ma semmai di fronte alla consolle dei videogiochi, dai quali si trae soddisfazione fin quando però essi ci permettono di sperimentare un potenziale controllo, altrimenti il divertimento svanisce. Anche i videogiochi approfittano dell’evidente approssimazione del meccanismo di ricerca del piacere (Thompson C.: “Halo 3. How Microsoft labs invented a new science of play”, Wired, 15, 140-147).

Guardando con un occhio all’etologia e l’altro allo spartito, Geoffrey F. Miller (“Evolution of Human music through sexual selection”, 2000) ha individuato nel corteggiamento, e nel piacere che procura, una motivazione adattativa del talento musicale. Con tutto che la predisposizione infantile all’ascolto ed al canto farebbe più pensare ad una forma di autoapprendimento e di memorizzazione. Secondo la prima ipotesi, quella che mette in gioco la selezione sessuale, dovrebbero essere gli adolescenti maschi a dimostrarsi musicalmente più dotati, cosa sicuramente più evidente nel mondo degli uccelli, dove la connessione con il corteggiamento è palesemente più diretta. W. T.Fitch (“The evolution of music in comparative perspective”, 2005) riferisce come piccioni e pesci siano in grado di riconoscere stili musicali diversi e che, in alcune specie di scimmie antropomorfe, accanto alla presenza di una rudimentale forma di produzione ritmica, vi sia pure una più raffinata facoltà di avvertire differenze di tono.

Oltre che alla ricerca di accoppiamento, la musica è strettamente correlata ad una certa intimità sociale, già a cominciare dalle ninnananne cantate ai bambini. La ritmica, dal canto suo, offre la possibilità di una reale gratificazione, proveniente dal riuscire ad indovinare accurate previsioni, da aggiungere, con la definizione di un dosaggio “quanto basta”, alla soddisfazione di effettuare tempestive giustapposizioni con quanto è invece inatteso. La musica troppo prevedibile, infatti, risulta noiosa, e quella assolutamente imprevedibile sgradevole per la sua dissonanza. Il giusto equilibrio tra sorpresa e ricorrenza sembra ubiquitario e vale per i generi musicali come per i monologhi teatrali, i thriller cinematografici, gli sketch televisivi, le battute comiche, che riscuotono tanto più successo quanto più l’improvvisazione sembra inventare la sorpresa dell’inevitabile.

La sensazione che ne deriva è quella della padronanza del controllo, ma anche della condivisione. Steven Pinker, autore con R. Jackendoff dell’articolo su “The faculty of language. What’s special about it?”, ha elevato a “piacere tecnologico” quanto deriva dagli artifici culturali, o “tecnologie del piacere” che subdolamente accentuano le reazioni del nostro sistema di ricompensa. Le tecniche culturali, approfittando delle carenze di precisione del meccanismo di ricerca del piacere, predispongono delle trappole in cui catturarlo senza mezzi termini, e perfino lasciarvelo invischiato.

La funzione mentale raziocinante, la capacità riflessiva, definita “deliberativa”, riteniamo sia allocata nella corteccia prefrontale, mentre alla corteccia orbito frontale ed al sistema limbico attribuiamo le emozioni. A poter mediare tra le due facoltà potrebbe essere la corteccia cingolata anteriore. I due campi operativi , automatico di percezione delle emozioni e deliberativo raziocinante, si trovano a ridosso l’uno dell’altro senza possibilità di sostituirsi tra loro e dunque in continuo conflitto. L’Es e l’Io sono in lotta come Giacobbe con l’angelo. E le aspirazioni a lungo termine non concordano con quelle a breve. L’adolescenza, con l’esacerbare l’attrazione spasmodica per le ricompense a breve termine, è l’età critica durante la quale si raggiunge il massimo di questa tensione. Si è ipotizzato che il nucleo accumbens, interessato alle ricompense, a causa di un’inerzia evolutiva, arrivi a maturazione prima della corteccia orbito frontale, deputata a valutare conseguenze e rischi di un certo comportamento e quindi a procrastinare le gratificazioni.

Quella che i biologi evolutivi definirebbero come una parziale inidoneità riproduttiva del sistema, in qualche modo in fondo, ci potrebbe tornare di relativa utilità. Prevedere una felicità futura, più che assomigliare ad un bollettino meteorologico, è prossimo all’esercizio dell’incredulità nell’incredibile e ci aiuta a rigettare molte informazioni fasulle e valutazioni contaminate, per spingerci ad una critica correzione dei giudizi. Poi probabilmente subentra l’oblio e riemerge la necessità di perpetuare la specie. Infatti, il compito di accudire la prole, che ha indubbiamente il più evidente vantaggio adattativo, non si situa al primo posto nel procacciare piacere, bensì viene avvertito come piuttosto gravoso; in ogni caso rende molto meno felici allevare bambini che concepirli. Corinne Maier , esponendo le sue “quaranta ragioni per non avere figli” in “No Kid” (Bompiani, Milano 2008), mette all’indice la morale ipocrita per sconfessare il conformismo delle gioie della maternità.

E veniamo alla questione spinosa di un ipotetico “felicitometro”. In primis, perché dovremmo misurare la felicità? E poi sapremmo quantificarla in qualche modo variamente approssimativo? E, soprattutto, se incontrassimo la felicità, sapremmo riconoscerla? Ci può essere d’aiuto in questo la considerazione di Oscar Wilde: “Quello che c’è di divertente nella vita o è immorale o è illegale o fa ingrassare”. Forse perché qualunque sensazione soggettiva di felicità è pesantemente influenzata dal contesto. Più la soppesiamo, più ci sfugge, più la rincorriamo, più si allontana. La riflessione non ci aiuta a sperimentare la felicità. Ruminare è un affare per depressi. Parafrasando Mark Twain, Gary Markus, in “Kluge- l’ingegneria approssimativa della mente umana” (Codice, Torino 2008), dice che scandagliare la felicità potrebbe sortire lo stesso effetto di quando si va a sezionare la rana, non è certo che riusciremmo a conoscerle meglio, ma è indubbio che entrambe verrebbero soppresse.

Se la nostra esperienza nel campo del piacere fosse un giallo, dovremmo immancabilmente andare alla ricerca del movente, perché forse in questo caso movente ed assassino si identificano. Perseguire la felicità ci aiuta a vivere, ad andare avanti, a non mollare per sopravvivere ancora un altro giorno. E se proprio non riusciamo a riprodurci, almeno abbiamo provato piacere a tentare di farlo. L’evoluzione non ci indirizza verso la felicità ma ci spinge a cercarla.

In questa ricerca probabilmente inseriamo una logica da bari, truffatori, imbroglioni, ricorrendo ad un ragionamento interessato, con lo scopo di tarare il felicitometro a nostro vantaggio. Ed anche l’autoinganno rientra tra i meccanismi di difesa di freudiana memoria. Fingere, mentire, discolparsi, razionalizzare sono tra gli atteggiamenti con cui comunque possiamo continuare ad affermarci. Quale delusione proveremmo nello scoprire di vivere nel mondo sbagliato! Ed ecco intervenire il meccanismo di difesa dell’autoinganno che ci spinge a mentire e ci porta a credere che il mondo sia giusto, il migliore tra quelli possibili. Con questa palese finzione si può arrivare a colpevolizzare le vittime e ritenere innocenti gli astuti. Quando ci si rende conto che le nostre convinzioni si trovano tra loro in conflitto ci si limita a concludere per una questione di “dissonanza cognitiva”.

L’inevitabile realtà dell’adattamento svalorizza persino il denaro. Indubbiamente averne molto aiuta tantissimo, ma non può rendere felici coloro i quali sono già abituati a possederlo. Se sia accaduto o si tratti di un aneddoto, quello che si racconta di F. Scott Fitzgerald, il quale si rivolge ad E.Hemingway, asserendo: “I ricchi non sono come noi”, per sentirsi rispondere: “Certo, hanno più soldi!”, non fornisce il dato della, pur sempre relativa, differenza. Essere al di sopra o al di sotto della soglia di povertà è abbastanza discriminante, ma chi vive da benestante, non per questo, è più triste di un miliardario. La felicità non aumenta con l’incremento del reddito e la ricchezza riesce ad acquistare solo una porzione piuttosto ridotta di felicità. Acquistare un bene materiale ci fa gioire per un po’, poi ci facciamo l’abitudine, subiamo un adattamento. Ed in ogni caso, ci sarà sempre qualcuno più ricco, che vivrà più lussuosamente, verso il quale indirizzare la nostra invidia. In un’era di eccessi, di edonismo e di apparenze, non ci sarà mai denaro sufficiente a soddisfare quella che si può rivelare una sete inestinguibile. Non per nulla si registra un fatidico parallelismo fra vincitori di lotterie e vittime di incidenti, tale da far innalzare la popolare preghiera: “Oh, sant’Accutuffato, manda la provvidenza al ricco che il povero è già abituato”.

Raggiungere una meta, ottenere un successo, acquisire un risultato conducono ad una condizione di sollievo parziale, procurano uno stato d’estasi relativo; insomma, non ci si trova mai di fronte ad una felicità definitiva. Poco dopo si ricomincia ad inseguire un altro traguardo. E questo avviene perché la nostra mente possiede una proprietà fondamentale che consiste nell’abituarsi a tutto, nel metabolizzare qualsiasi accadimento, nel familiarizzare con qualsivoglia assurdità. Perché il cervello deve difendersi dall’essere sottoposto intensamente e per troppo tempo ad una stimolazione eccessiva, che si tratti di sofferenza o di eccitazione.

GIUSEPPE M. S. IERACE – neurologo psichiatra psicoterapeuta – contatto email: gmsierace@gmail.com

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Ierace G. M. S.: “Magia Sessuale”, Armenia, Milano, 1982

,, ,, “Quel gran demone di Eros”, di prossima pubblicazione

Kahr B. : “Indovina chi viene a letto? Il mondo segreto delle fantasie sessuali”, Ponte alle Grazie (Salani), Milano 2007

Maier C. : “No Kid- quaranta ragioni per non avere figli”, Bompiani, Milano 2008

Marcus G.: “Kluge- l’ingegneria approssimativa della mente umana”, Codice, Torino 2008