“Il caso Wölfli potrà un giorno essere d’aiuto per fornire nuovi chiarimenti sulle origini della forza creativa e ribadisce la singolare e sempre più autorevole opinione che molti sintomi di malattia sarebbero da incoraggiare (come suppone Morgenthaler), in quanto suscitano il ritmo mediante il quale la natura tenta di riconquistarsi quanto le è diventato alieno e di strumentarlo in una nuova melodia” (Rainer M. Rilke a Lou Salomé, 10 settembre 1921, citato su “Arte e follia in Adolf Wölfli” di Walter Morgenthaler, Alet, Padova 2007).
A parlare per primo di come la follia possa generare arte è lo psichiatra elvetico Walter Morgenthaler che nel 1908 prende in cura un contadino internato nel manicomio di Waldau, aggressivo e allucinato, abusato da piccolo e arrestato poi per abusi.
“Questa fu la vita di Adolf Wölfli. Il quale dunque, se incredibilmente è stato uno degli artisti più straordinari del nostro secolo (‘nostro’ affettivamente ed elettivamente, ormai), lo sarà stato in quanto pazzo: più precisamente schizofrenico. In tanta desolazione solo la pazzia, infatti, può giustificare tanta creatività: così argomentiamo per esclusione, così (paradossalmente) ragioniamo secondo volgare buon senso, così, quando pur non agiscano suggestioni evangeliche, siamo indotti a pensare dalla teoria platonica del furor, dal senechiano nullum magnum ingenium sine mixtura dementiae, dal mito rinascimentale e barocco della melanconia saturnina, dalla vulgata romantica, persino dal positivismo lombrosiano, da esempi come Lucrezio, Pontormo, Tasso, Borromini, Hölderlin, Schumann, Nietzsche, Maupassant, Van Gogh, Campana, Ligabue. Senonchè proprio questo elenco di nomi dovrebbe farci esitare, visto che in tutti questi casi, a eccezione di Ligabue, abbiamo a che fare con un personaggio che prima fu artista e poi, a un certo punto della propria carriera, artista pazzo se non solamente pazzo. Al contrario Wölfli, prima di essere internato (1895), non scrisse nulla e non disegnò nulla, inattività che anzi si protrasse per i primi quattro anni della sua reclusione; e solo quando le sue psicosi e la sua sofferenza giunsero all’apice, solo allora egli, di colpo e dal nulla, divenne un artista. Di colpo e dal nulla vuol dire anche che nella sua opera non si danno progressi, avvicinamenti, tentativi, esercizi, preludi, fasi o periodi…” (Michele Mari, su “Arte e follia in Adolf Wölfli” di Walter Morgenthaler, Alet, Padova 2007).
A Morgenthaler, Michele Mari attribuisce “tre grandi meriti”: l’aver dato il via agli studi sul rapporto fra follia e creatività; aver incoraggiato l’arte terapia, al di là del mero intrattenimento, ma proprio in quanto sia arte che terapia; non aver sfruttato il suo paziente in esibizioni istrioniche, dimostrando così quella discrezione e sensibilità di cui furono privi gli psichiatri che ebbero in cura i vari Artaud, Nerval, Maupassant o Campana.
Estraneazione dal mondo, fuga nel delirio, compulsione, “… il mio sospetto è che nel caso di Wölfli l’esorcismo del male non sia definibile in termini di sublimazione nella forma, ma dipenda piuttosto dall’elemento performativo della creazione, dalla sua stessa durata e continuità e fatica: esorcismo meccanico più che chimico, dunque, qualcosa che ha a che fare con la distrazione più che con la sublimazione. L’horror vacui di cui parla Morgenthaler, l’esigenza di dover riempire sempre tutto il foglio, hanno un corrispettivo ancora più importante nell’aspirazione a vivere senza smettere mai di creare: in questo senso la compulsiva serietà del lavoro è legata alla sua serialità, intesa sia come passaggio immediato da un disegno all’altro o da un racconto all’altro, sia come ripetizione ossessiva delle stesse immagini, degli stessi motivi ornamentali, delle stesse parole, degli stessi numeri (ripetizione che equipara tutta la sua produzione a un’ecolalica e auto-ipnotica litania)” (Michele Mari, su “Arte e follia in Adolf Wölfli” di Walter Morgenthaler, Alet, Padova 2007).
Nell’irreversibile formula binswangeriana, il “manierismo” individuale compenserebbe una “esistenza mancata”; ma il più naturale sbocco del delirio fantastico avverrebbe nella malattia, nell’arte o più semplicemente nel sogno?
Freud era convinto che ogni adulto inconsciamente desideri tornare al perduto periodo infantile. Tra i modi in cui questo desiderio si esprime, può esserci il sogno, la malattia, l’arte. L’ispirazione creativa consiste allora nella capacità di distillare aspirazioni, emozioni e immagini infantili.
La critica che J. Allan Hobson ed Hellmut Wohl, in “Dagli Angeli ai neuroni – L’arte e la nuova scienza dei sogni” (Mattioli 1885, Fidenza 2007) muovono alla psicoanalisi moderna è quella di aver ecceduto nel vincolare lo sforzo creativo al conflitto psicopatologico, mentre la neurofisiologia del sogno offre un’imprevedibile sintesi del processo creativo. “La nostra posizione e la sua critica nei confronti della psicanalisi può essere illustrata dal quadro di Paul Delvaux, L’École des Savants. Delvaux e i Surrealisti puntavano a esplorare l’imprevedibilità creativa della mente sognante in quanto fonte di ispirazione artistica, e a descriverla, come ha fatto Delvaux nel paesaggio onirico che sta al centro del suo dipinto, e di cui sia lo psicanalista che parla con la persona che sta sognando davanti a lui, sulla destra, sia il neurobiologo che esamina un cervello senza vita, sul lato sinistro, sono inconsapevoli”.
“…Siccome sognare è un’azione intrinsecamente creativa, si può affermare che ogni uomo è un artista quando sogna…”(?). Ciò che avviene è certamente un passaggio di stato mentale con caratteristiche formali specificabili. J. Allan Hobson ed Hellmut Wohl mettono in dubbio l’interpretabilità dei sogni, perché basata sull’idea erronea del cervello come sistema chiuso. Il tentativo onirico non sarebbe quello di nascondere, bensì di creare tout court, precorrendo un futuro riconoscimento di tale intrinseca espressività. Come l’arte, il sogno è trasparente nell’inanalizzabilità di ogni fonte d’ispirazione; più che un crittogramma psicobiografico sarebbe una folgorante illuminazione.
Tratti formali distintivi dei sogni si rintracciano in uno studio preparatorio di Hieronymus Bosch (1503) del cosiddetto “uovo-uomo”, nel pannello di destra (inferno) del trittico delle delizie, conservato al Prado (Madrid), definito invece “uomo-albero” ed esposto a Vienna, all’Albertina. L’impossibile, incongrua verosimiglianza si trova tuttavia uniformemente integrata in seno ad un paesaggio realistico. Si tratta del “prodotto naturale della mente che simula uno stato alterato di coscienza”. L’universale esperienza della visione onirica allucinatoria testimonia della naturalezza e perfino della normalità della psicosi. La miscela di cui sono fatti i sogni mescola l’incredibile con l’improbabile, il possibile con il banale, in un equilibrio instabile, di cui sono protagonisti, a volte, chimere familiari, altre volte, mostruose.
“L’instabilità fluida dei sogni che dirige le nostre spaventose convinzioni viene simulata dall’incredibilità dell’equilibrismo dell’Uomo-albero di Bosch. Immaginate che i vostri piedi indossino delle scarpe simili a barche galleggianti sulla superficie dell’acqua. E’ possibile che noi abbiamo sognato di sfiorare l’acqua e di restare a galla e in piedi sulla superficie di laghetti, canali e fiumi onirici, ma mai in situazioni in cui ci sia stato chiesto di tenere in equilibrio sulle nostre teste un vassoio circolare contenente una profonda brocca dentro la quale è conficcata un’alta scala a pioli, a metà della quale sta un uomo che tira un cavo attaccato a un pennone che spunta dal nostro ventre a forma di uovo rotto. Su questa vertigine irreale regna un saggio gufo appollaiato su un ramo che si eleva alla stessa altezza della scala, fin sopra la nostra testa, proprio come la nostra testa è sopra l’acqua. Questa animazione sospesa – un disequilibrio che sta per squilibrarsi – è, com’era prima, una descrizione visiva del processo di allucinazione-delirio che si appropria delle nostre menti-cervelli quando sogniamo. La tensione dinamica dell’uomo-albero sembra esistere sull’orlo della catastrofe: sicuramente non ci si può aspettare che i fili sottilissimi che mettono in connessione la scala pericolosa, il pennone e la punta delle scarpe-barche ai ginocchi dell’albero reggano; ma reggono e l’intera illusione viene sorretta nell’aria, come l’uomo che cammina sul filo in un circo.” (J. Allan Hobson ed Hellmut Wohl: “Dagli Angeli ai neuroni – L’arte e la nuova scienza dei sogni” Mattioli 1885, Fidenza 2007). E se noi siamo “l’uomo che cammina sul filo”, e siamo anche quello che tira il cavo attaccato al pennone che spunta dall’uovo rotto, e poi pure ciascuno dei commensali seduti al desco nel ventre dell’albero-uovo, ancor più siamo l’allocco basito da tanta spaventosa meraviglia. Perché , come, ne “La Tempesta”, ci conferma Shakespeare: “Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita”.
Indubbiamente il cervello vigile è più efficiente quanto a linearità di logica, critica, giudizio, quantificazione, analisi. Ma quando si esprimono delle emozioni, si visualizza o si devono mettere a confronto associazioni apparentemente prive di fondamento (pensiero analogico), subentra la mente onirica.
“Freud attribuisce all’inconscio la forza di uno scrittore che dispieghi mirabilmente i tropi classici per trasformare il proprio materiale. Per molti di noi, – scrive Lesley Chamberlain in “The secret artist: A close reading of Sigmund Freud” (2003) – affascinati dall’interazione che caratterizzò Finnegans Wake di Joyce e dall’interfaccia di filosofia e metafora, Freud cercò di catalogare l’inventiva della mente sullo sfondo della filosofia moderna. C’è qualcosa di Locke e Hume, ma anche della fenomenologia di Brentano, nella sua descrizione di come noi rappresentiamo il mondo a noi stessi, come le nostre rappresentazioni mentali si allaccino alle parole, come si finisca per pensare agli oggetti grazie alle loro associazioni reciproche, e cosa significhi per un oggetto esistere solo nella mente. Quest’eclettica miscela filosofica caratterizza la sua spiegazione dell’inconscio. Il Libro dei sogni, con la sua meravigliosa esplorazione del linguaggio, è la chiave per capire il Freud francese. Lacan, giustamente, mette in luce la grande affinità tra il senso del dramma di Freud e il lavoro che fece con i sogni. E ciò rappresenta un ulteriore motivo per cui noi continuiamo a leggere… il suo grande libro sul processo creativo. La psicanalisi angloamericana si è rivolta a un altro Freud e l’ha individuato. Il mondo anglofono è stato parzialmente fuorviato da James Strachey, traduttore ed editor dell’edizione standard. Strachey commise degli errori decisivi come tradurre ‘istinto’ per Trieb e ‘mente’ per Seele. Quel che è decisamente peggio, Strachey pensò che Freud stesse parlando di strutture invece che di processi. Introdusse astrazioni pseudo-mediche latine e terribili astrazioni non-inglesi come ‘ideazionale’, seguendo le indicazioni ricevute da Ernest Jones per allettare gli scienziati. Lo stesso stile di Freud era molto più colloquiale…”.
Le percezioni oniriche sarebbero una visualizzazione che supera la proiezione cinematografica, poiché il sognatore, oltre che osservatore è pure il protagonista, coinvolto in una realtà virtuale.
“Per quanto stravaganti siano gli aspetti cognitivi dei sogni, noi utilizziamo il sonno per mantenere le nostre capacità di prestazione e/o migliorarle. Pertanto, l’attività onirica è l’esperienza soggettiva di un programma progressivo concepito in maniera infallibile per aiutarci a mantenere e a migliorare il nostro repertorio comportamentale. Al punto che artisti moderni come John Cage hanno inteso celebrare l’aleatorio rispetto al prevedibile e hanno simulato il sonno rem”.
Le pratiche meditative orientali, coltivate da musicisti come Cage, si sforzano di arrivare a quelle profondità di suono interdette alla ragione. “Il resto è rumore”, sentenzia Alex Ross, “ascoltando il XX secolo” e riportando l’esperienza di un ex compositore neoclassico, Alvin Lucier, innamoratosi della musica di Cage. “In Music for Solo Performer (1965), Lucier si trasformò in una specie di cavia di un esperimento sul controllo della mente collegando una serie di elettrodi alla propria testa e trasmettendo le onde alfa del suo cervello attraverso altoparlanti sparsi nella sala, mentre le frequenze basse facevano vibrare gli strumenti a percussione” (Alex Ross: “Il resto è rumore”, Bompiani, Milano 2009).
L’attività onirica è l’esperienza soggettiva di un programma progressivo concepito per mantenere il nostro repertorio comportamentale e migliorarlo. Quando Walter B. Cannon parlò de “La saggezza del corpo” (1932), forse alludeva anche al fatto che nei sogni perdiamo la ragione passando da un livello di controllo, corticale, all’altro, quello che si occupa delle funzioni ricostruttive favorite dall’oscurità della notte. Alcune associazioni si allentano altre si intensificano. Solo se la tensione associativa si oppone all’integrazione, la stravaganza procede verso la follia; se i legacci si tengono lassi è probabile sfociare nell’arte; nel mezzo rimane la discontinua incongruità dei sogni.
Un assioma vuole che chi sogna di più sia più creativo e ciò varrebbe anche per gli animali.
Il fondatore della teoria della Gestalt, Wolgang Köhler, a Tenerife, osserva degli scimpanzé risolvere problemi con modalità (da insight) di immediatezza e irreversibilità, del tutto diverse dalla normale procedura per prove ed errori, che secondo Edward Lee Thorndike, caratterizzerebbe il comportamento animale. Köhler scopre che sono le galline a continuare a ripetersi, perché incapaci di ristrutturare il campo cognitivo (fissità funzionale), mentre cani e scimmie riescono ad assegnare agli oggetti destinazioni diverse da quelle note, o meglio sono in grado di modificare il loro set mentale, oltrepassando gli schemi preesistenti. La maggiore plasticità comportamentale apparterrebbe ai primati, come pure a gatti, topi, gabbiani e corvi, e invece galline colibrì e koala sarebbero più tardi nello sviluppare nuove risposte all’ambiente. Sembra che ciò si debba attribuire all’attitudine comportamentale nei confronti dell’attività di predazione. Naturalmente le prede sono sottoposte a uno stress continuo, per poter riportare salva la pelle nella tana; i predatori, che non devono difendersi da troppi assalitori, possono andare alla continua ricerca di cibo e, per farlo, esplorano l’ambiente con cui entrano in contatto; la loro dieta più varia è di incentivo per trovare alternative commestibili; e soprattutto hanno più tempo da dedicare al gioco, dormono di più, e, quel che conta maggiormente, sognano di più, consolidando, in fase rem, le trame nervose che codificano le nuove esperienze.
“Evoluzione culturale e biologica si intrecciano e interferiscono” scrive Annamaria Testa, in “La trama lucente” (Rizzoli, Milano 2010), aggiungendo: “gli individui che imparano ad adattarsi –creativamente – all’ambiente hanno maggiori possibilità di sopravvivere e di riprodursi. La trasmissione di cultura si trasforma così in un vantaggio selettivo.”
Tra i primi a studiare la trasmissione culturale negli animali è Kinji Imanishi, fautore della procedura per l’osservazione dei primati definita “invasione silenziosa” dall’autore de “La scimmia e l’arte del sushi” (Garzanti, Milano 2002), Frans De Waal. Si tratta sostanzialmente di abituare pazientemente la comunità delle scimmie a tollerare la presenza umana. Le scimmie di Koshima (Macaca fuscata), studiate dal team di Imanishi, si mostrano capaci di sviluppare un abbozzo di trasmissione della conoscenza, una sorta di proto-cultura. Il cibo che i ricercatori offrono agli animali sono patate sporche di terra. Da principio, le scimmie, prima di mangiarsele, le spazzolano alla meglio con le dita, successivamente una di loro prova a lavarle in un ruscello, poi nel mare per aggiungere il sapore salato. Questo comportamento di lavaggio delle patate dolci contiene i tre aspetti del fenomeno culturale: emersione, trasmissione e modificazione. I discendenti continuano a praticarlo, anzi i gabbiani hanno imparato a rovistare tra i rifiuti delle scimmie. Frans De Waal asserisce che tale comportamento non può derivare da un qualche tipo di condizionamento associato a un premio.
Le gerarchie sociali vengono trasmesse per via matrilineare, ma in questo caso è una madre a imparare dalla figlia, che già poco prima aveva trovato il sistema per separare il grano dalla sabbia gettando entrambi in acqua.
I macachi sono scimmie piccole, monkeys, e, sotto il profilo genetico, a noi umani, sono più vicine le grandi scimmie antropomorfe (apes), prive di coda, e i bonobo, più degli scimpanzé, dei gorilla e degli oranghi. Agili a camminare in posizione eretta, i bonobo vivono in comunità in cui sono molto strette le alleanze tra le femmine, e proprio per questo forse, invece di prodursi in dimostrazioni aggressive, fanno dell’attività sessuale un sistema ludico di rinsaldamento delle relazioni sociali. Frans De Waal sostiene che le grandi scimmie conoscano l’empatia tra individui e possiedano quella capacità di interpretare le azioni altrui che guida le interazioni nel gruppo.
L’autore de “La scimmia e l’arte del sushi” (Garzanti, Milano 2002), a proposito dell’apprendimento animale, non parla solo di una loro “teoria della mente”, e di una loro “psicologia naturale”, ma ci fa intuire come siano perfino in grado di darci anche delle lezioni di pedagogia, altruismo, onestà, e, oserei dire, anche umanità e dignità.
Attenzione e motivazione per le scimmie cappuccine si rivelano importantissime e, di fronte a certi test ripetitivi, alla fine si annoiano. Chi riceve il premio meno ambito, in una sorta di avversione ad un trattamento ineguale, esita nel formulare risposte o si rifiuta di svolgere il compito assegnato. Scimmie rhesus non accettano il cibo, se, nel procurarselo, rischiano di provocare sofferenza a una di loro, come dimostra il celebre esperimento di Jules H. Masserman. In quello di Thomas R. Zentall, sono i piccioni ad apprezzare maggiormente il premio quando rappresenta il giusto compenso a un lavoro ben svolto.
Per Frans De Waal gli animali possono imparare a imparare e, generalizzando le regole apprese, applicare a compiti simili l’esperienza acquisita. Siamo a un passo dal formulare teorie a partire da singoli fatti.
Gli animali sono creativi se c’è abbastanza cibo, ma non troppo, la quantità appena sufficiente per poter soddisfare i bisogni di sopravvivenza, in modo da mantenere nel contempo l’attitudine all’esplorazione. Negli umani, invece, “la creatività è un tratto labile – sostiene Annamaria Testa, in “La trama lucente” (Rizzoli, Milano 2010) – e può emergere solo in presenza di un sistema di concause. Cioè di altri tratti di personalità. Nessuno di questi è particolarmente raro, ma non è frequente che siano presenti tutti assieme, e nella giusta misura (per esempio: una dose di psicoticismo va bene, ma non se è troppo, e comunque dev’essere associato a un ego forte e strutturato)”.
Per Colin Martindale (“The clockwork muse: the predictability of the artistic change”, 1990) i fattori in gioco più che sommarsi si moltiplicano, e quindi, in assenza di qualcuno di essi, gli altri non si attivano per niente. La personalità creativa si sviluppa attraverso un gioco di contrasto, di trame di luce emergenti dall’oscurità, insomma in una zona di confine. “Quando luce e ombra diventano un caos di lampi e buio, creatività e malattia mentale arrivano a confondersi”, asserisce la Testa, riprendendo l’idea (dal “Tranquillitate animi”) di Lucio Anneo Seneca: “nessun grande ingegno è privo di una misura di follia”.
Ancor prima della Kay Redfield Jamison (“An inquiet mind”, 1967), Ernst Kris (1932) ha affrontato il problema dell’intreccio tra talento e follia, nell’imbattersi nelle sculture di Franz Xaver Messerschimidt. Quando aveva poco più di 35 anni, nel 1770, Messerschimidt comincia a realizzare, senza che nessuno glieli abbia commissionati, degli autoritratti in cui rappresenta le proprie smorfie autistiche (grimaces), espressioni facciali estreme che rientrano in un tratto comportamentale caratteristico della malattia schizofrenica. Nella deriva psicotica viene pregiudicato il senso delle proporzioni ed è questo che Messerschimidt tenta di contrastare, con il fissare disperatamente ogni sua espressione autentica, anche se innaturale, per ricomporre un perduto contatto con il sé.
Hans Prinzhorn (1922) aveva posto in relazione le produzioni dei suoi pazienti con gli orientamenti dell’arte contemporanea, giungendo alla conclusione che, in entrambi i casi, l’obiettivo è quello di costruire un ponte tra la propria psiche e quella degli altri.
I surrealisti francesi definiscono la produzione spontanea degli emarginati “Art Brut”, il critico inglese Roger Cardinal la chiama “Outsider Art”.
“Lo spirito creativo dell’artista, pur condizionato dall’evolversi di una malattia, è al di là dell’opposizione tra normale e anormale e può essere metaforicamente rappresentato come la perla che nasce dal difetto della conchiglia: come non si pensa alla malattia della conchiglia ammirandone la perla, così di fronte alla forza vitale di un’opera non pensiamo alla schizofrenia che forse era condizione della sua nascita” (Karl Jaspers: “Strindberg und Van Gogh”, 1949).
Schizofrenia è dissociazione di una mente in cui compaiono idee fisse, deliri, allucinazioni, nel mentre le componenti relazionali ed emotive diminuiscono, il linguaggio si impoverisce, il comportamento si disorganizza, i tempi di reazione rallentano. Ne soffrono Johan August Strindberg, Friedrich Hölderlin, Antonin Artaud…
“In retrospettiva possiamo individuare chi è o è stato ‘matto’. – dice Stephen D. Durrenberger nel suo contributo (“Mad genius controversy”) all’Encyclopedia of Creativity di Mark A. Runco e Steven Pritzker (1999) – E da questo punto di vista possiamo formulare teorie che riguardano la natura della creatività in relazione alla salute o alla malattia mentale. Alcune domande hanno trovato risposta in anni recenti. Altre rimangono nell’ambito delle questioni filosofiche e poetiche, ed è difficile che assumano una dimensione scientifica”.
La schizofrenia può avere conseguenze drammatiche sulla vita delle persone, mentre la sindrome maniaco-depressiva si presenta piuttosto come un’altalena di esaltazione e depressione, intervallata da periodi di equilibrio. Alla disperazione e all’astenia succede un sovrappiù di energia, la mania di grandezza. Soffrono di disturbo bipolare Alberto Savinio, George Byron, Ludwig Eduard Boltzmann…
I familiari di tali pazienti mostrano di possedere gradi di creatività superiori alla media. Nel loro studio (“Creativity in Maniac-Depressive, Cychlothymes, Their Normal Relatives, and Control Subjects”, inserito in Mark A. Runco & Ruth Richards : “Eminent Creativity, Everyday Creativity, and Health”, 1997), Ruth Richards, Dennis Kinney e colleghi, ipotizzano che la creatività possa compensare lievi forme psicopatologiche, fornendo così un implicito razionale teorico all’arte terapia. Una conferma la fornisce Szabolcs Keri (2009), nel correlare una mutazione del gene che presiede alla produzione di una proteina essenziale allo sviluppo del sistema nervoso (NRG 1), sia all’attitudine creativa come pure alla predisposizione a sviluppare sindromi psicotiche. “Fattori molecolari debolmente associati con disordini mentali gravi, e però presenti in molti individui sani, possono costituire un vantaggio perché ci aiutano a pensare in modo più creativo”. Del resto, come dice Annamaria Testa: “la vulnerabilità ipersensibile delle persone creative è, insieme, parte del problema e origine della soluzione”. Essere posseduti dalla divina follia, come pensavano i greci, non è proprio come essere in sintonia con una Musa ispiratrice. Controllare la propria creatività può essere allora una risposta compensativa al disagio mentale e una maniera di gestirne la tensione emotiva.
Giuseppe M.S. Ierace
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