“I miti raffigurano personaggi ideali che agiscono secondo le esigenze del Super-Io, mentre le fiabe rappresentano l’integrazione del sé che permette la corretta soddisfazione dei desideri dell’Es.” (Bruno Bettelheim: “The Uses of Enchantment: The Meaning and Importance of Fairy Tales”, 1976).
Si potrebbe affermare che narrazioni, racconti, fiabe, sia orali che scritti, abbiano costituito uno dei supporti privilegiati della psicoanalisi. Una probabile motivazione consisterebbe nel fatto che, come il mito, la fiaba sembra toccare i più profondi meccanismi delle funzioni psichiche, sino a quell’immaginario collettivo, intriso di simboli che finiscono col farne un “oggetto” particolarmente ricco dal punto di vista psicoanalitico.
Nicole Belmont
L’antropologa francese Nicole Belmont sostiene che fiaba e sogno differiscono, nonostante possano a prima vista apparire simili. L’interpretazione dei sogni rappresenta uno dei principali strumenti d’analisi, per cui ci si attenderebbe che anche la narrazione non onirica, in quanto “oggetto” più vicino alla coscienza, presenti un analogo ventaglio interpretativo.
Ma questa ipotesi di lavoro dà contestualmente avvio allo sviluppo di diverse aree investigative. Una speculazione “culturale” affronta i racconti popolari come risultato d’un compromesso tra diverse istanze della vita psichica. Una “teoria dello sviluppo della personalità umana” evoca un’evoluzione dalla sessualità polimorfa dell’infanzia fino alla genitalità adulta, attraverso tutte quelle numerose prove da superare e risolvere, come il complesso d’Edipo. Un sistema dottrinario, infine, di processi inconsci, per il quale l’appagamento d’un desiderio e il relativo fantasma abbiano un ruolo nello sviluppo di narrazioni di finzione, tra cui appunto le fiabe, dove, per esempio, il fantasma del “ritorno al grembo materno” s’esprime nel nascondiglio in cui “Le Petit Poucet” viene protetto dalla moglie dell’orco, il fantasma della “scena primaria” corrisponde all’interdizione della camera genitoriale proibita da Barbablù, e meno velatamente in “Peau d’Ane” s’espone quello della seduzione e dell’incesto.
Ombra, Animus e…
Gli psicoanalisti junghiani, alle teorie freudiane aggiungono che personaggi ed eventi rappresentino fenomeni psichici archetipici tali da richiedere quella maturazione ottenuta dall’integrazione della personalità individuale con la collettiva.
Per Marie-Louise von Franz, continuatrice dell’opera di Jung, i racconti ineriscono al processo di individuazione. Per cui, questi indugiano in quello stadio relativo all’integrazione degli aspetti più primitivi e istintivi (dell’Ombra), nell’espressione di Animus e Anima (rispettivamente lato femminile e principio maschile, insiti, in maniera controversa, in ogni uomo e donna), sulle immagini delle figure genitoriali (sessualmente “distinte” in padre e madre), o ancora sulla ricerca d’un prezioso tesoro, celato in un inaccessibile luogo di quel “nessun dove” di Rainer Maria Rilke (1875-1926).
Genius gentis
Ad apportare un originale contributo all’interpretazione psicoanalitica della scuola junghiana, oltre che una chiave di lettura, forse più contemporanea, è Clarissa Pinkola Estés, nel proporre l’assimilazione e la detenzione di tradizioni etniche quali modalità per contribuire all’affermazione d’una cultura creativa e d’una civiltà fondata sul rispetto dello spirito dei popoli (e genius gentis).
Das Schwarze Dekameron
“Der schwarze Dekameron: Belege und Aktenstücke über Liebe, Witz und Heldentum in Innerafrika” (1910) di Leo Frobenius (1873-1938) dimostrò che il repertorio dei racconti orali era ricchissimo anche nel continente nero, il che gli consentiva di ribaltare lo stereotipo del “buon selvaggio” incolto. L’attività creativa del simbolo la trasferì sul piano storico; considerò quindi le antiche culture, e quelle dei cosiddetti primitivi, in un più vasto repertorio di esperienze, rese comprensibili soltanto tenendo conto di quegli elementi di conoscenza, in grado di trascendere altri aspetti dell’umanità e di determinarne il potenziale di civiltà.
La morfologia storica non va indagata per via razionale, bensì intuitivamente, perché le civiltà si manifestano, prima che in ogni altra cosa, nella produzione artistica, luogo dell’emozione, o meglio della “commozione”, intesa quale istinto primordiale, capace di superare razionalità e individualità. All’interno d’una sfera culturale (Kulturkreis), ogni civiltà si trasforma quindi con caratteristiche biologiche, simili a quelle degli organismi viventi, nei tre stadi di Ergriffenheit (“commozione”, o stadio emotivo-aurorale), Ausdruck (“espressione”, stadio maturo) e Anwendung, stadio dell’utilizzazione, quindi pure “meccanico e materialista”, e tipico della contemporanea decadenza.
Paideuma
L’uscita dallo stadio primitivo d’adattamento è dovuta principalmente al mito, ancora da esprimere. L’arte come espressione della commozione che solo l’uomo è in grado di provare, costituisce la civiltà, o Terzo regno. Questa forza interna alla civiltà Frobenius la definì Paideuma (“ciò che si acquisisce mediante l’apprendimento“, almeno dal punto di vista etimologico), mentre dal lato culturale, si tratta del “sorgere e trasformarsi di tutte le esperienze della coscienza commossa“. Questa sua teoria del simbolo come elemento d’una conoscenza “commossa”, che trascende l’uomo, in etnologia, sembra un tentativo, analogo a quello di Carl Gustav Jung, in psicologia, d’interpretare l’esperienza psichica collettiva.
La bella (Zellandina) addormentata
Bruno Bettelheim (1903-1990) dimostra che la fiaba ha un posto importante sia nell’apprendimento, sia nell’affrontare e facilitare la maturazione di tutti i livelli della personalità. Le storie narrate ai bambini li rassicurano circa il fatto che le loro fantasie non siano né uniche, né anormali e neppure tanto mostruose.
Molte sono diretto prodotto dell’oralità e dei suoi oggetti, come, del tutto esplicitamente, il tema della fame, in primo piano nei racconti di Pollicino, o di Hansel e Gretel (che può essere interpretato come un invito a una rinuncia per imparare invece a usare intelligenza, occhi e orecchie), o come il dito/seno della “bella” Zellandina “addormentata”, che appena succhiato dal poppante avuto da Troilo, la sveglia dal letargico sonno.
“Talia, Sole e Luna”, nel Pentamerone di Basile, assume il ruolo di “un gioco cortigiano”, le cui “licitazioni” non escludono improvvisazioni ed enfasi infantili, in quanto l’immaginazione, svincolata dalla realtà, diviene passatempo, nella piacevolezza dell’ascoltare. Questo è il senso del sottotitolo “trattenimento de’ piccerille”, fornitoci da Michela Pazzaglia, che insieme con Andrea Armati, ha curato “La Bella addormentata e le sue sorelle”(Eleusi, Perugia 2013).
Continuando a dormire, Talia (talea, germoglio) non può che vegetare e fiorire, mettendo al mondo due gemelli che devono pur allattare al seno. Ma accade che, una volta, al posto del capezzolo venga succhiato il “dito” dov’era penetrata la lisca di lino, che vien fuori provocandone il definitivo “risveglio”. I rimandi sono evidenti a quei “frutti d’amore” da cogliere a tempo debito: “Talia gaudette longa vita co lo marito e co li figlie, canoscenno a tutte botte ca a chi ventura tene quanno dorme perzì chiove lo bene.”. “O logos deloi oti”: Chi ha fortuna, ce l’ha pure quando dorme.
Una Demopsicologia
Nella versione “Suli, Perna e Anna”, raccolta dal demopsicologo, come amava definirsi, Giuseppe Pitré (1841-1916), la protagonista, in età prepubere, rimane “incantata” dalla puntura d’un fuso, che le resta in mano fin quando non diventa una fanciulla in fiore e il principe non glielo toglie, scuotendola da quell’incantesimo, che non nasconde affatto il riferimento alla “fase di latenza”, preparatoria del risveglio affettivo, proprio della successiva fase preadolescenziale.
Frayre de Joy e Sor de Plaser
Nella versione catalana “Frayre de Joy e Sor de Plaser”, più che d’Amor cortese, si parla di Joy fisica e del carnale Plaser d’un rapporto sessuale nient’affatto consensuale, se non d’un vero e proprio stupro, a dar retta alle lamentele della vittima pulzella: “Se egli avesse saputo aspettare che io gli dessi la gioia del mio amore e che io facessi la mia scelta, lo considererei nobile. Non v’è donna al mondo tanto spregevole che la si possa toccare o prendere qualcosa di suo senza chiedergliene il permesso: le cose prese con la forza non hanno valore”.
Nella traduzione italiana del “Roman de Perceforest” (La dielettevole historia de valoroso Parsaforesto…), le allusioni erotiche persistono, senza attardarsi su certi dettagli un po’ scabrosi, sostituiti da espressioni decisamente più pudiche: “Il cavaliere si mise in letto e la damigella venne a perdere il suo nome chiamandosi donna”.
I fratelli Grimm
Con il consolidamento della borghesia, nel XIX secolo, l’infanzia divenne una categoria sociale a cui destinare un genere letterario. E racconti che prima avevano un primitivo carattere popolare, e in seguito s’erano indirizzati all’aristocratica malizia delle classi colte, finirono per essere monitorate dalla censura degli adulti, operata sotto forma di innocue storielle per bambini. Le fiabe vengono adattate all’idea che si aveva allora della pedagogia e reimpiegate quali strumenti propedeutici in un processo educativo di prescolarizzazione. Anche se, già ai suoi tempi, Jacob Ludwig Carl Grimm (1785-1863), il filologo della celebre coppia di autori dei “Kinder- und Hausmärchen” (1812), esprimeva su questa questione seri dubbi: “Le fiabe sono mai state davvero concepite e inventate per i bambini? Io non lo credo affatto”.
Nel collezionare queste forme poetiche della tradizione popolare, lui e suo fratello minore Wilhelm Carl (1786-1859), pur tenendo conto dei contenuti, li rielaborarono stilisticamente, secondo un “ideale romantico” che ne evidenziasse l’espressività creativa dello spirito della collettività.
Amalie “Male” Marie Hassenpflug (1800-1871), sorella d’un loro cognato (Ludwig, che aveva sposato Charlotte), divenne prodiga fonte per le loro fiabe, tra cui: “Die drei Männlein im Walde”, “Der Herr Gevatter”, “Die wunderliche Gasterei”. Ai congiunti del fratello raccontò l’edulcorata versione di Dornoroschen (Rosaspina), ovvero Schlafrose (Rosa dormiente), corrispondente a quella di Perrault delle “Histoires ou contes du temps passés, avec des moralités” (1697), ma solo fino al risveglio della Bella addormentata e l’incontro fatidico con il Principe “Azzurro”, che “le sfiorò le labbra con un bacio”.
Il Principe Azzurro
Universalmente noto come “Charming”, traduzione del francese “Charmant”, in tedesco Märchenprinz (principe delle favole), nella versione portoghese, “Encantado”, fa pendant con l’incantesimo della sua promessa sposa, appunto “incantata” dalla puntura del fuso.
Basile, Perrault, Andersen, Afanas’ev o i fratelli Grimm non accennano all’emblema cromatico che caratterizza questa figura in Spagna (Principe Azul) e in Italia. Guido Gozzano (1883-1916), ne “L’amica di nonna Speranza” (1907), lo menziona esplicitamente, senza altri richiami: “Loreto impagliato e il busto d’Alfieri, di Napoleone/ i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto!)… Carlotta canta, Speranza suona. Dolce e fiorita/ si schiude alla breve romanza di mille promesse la vita./ O musica! Lieve sussurro! E già nell’animo ascoso/ d’ognuna sorride lo sposo promesso: il Principe Azzurro”.
Fu il poeta scozzese Andrew Lang (1844-1912), a ricorrere ai colori, nel pubblicare, nel 1889, “Blue Fairy Book” [a cui poi fecero seguito ben altri undici: Rosso (1890), Verde (1892), Giallo (1894), Rosa (1897), Grigio (1900), Viola (1901), Cremisi (1903), Marrone (1904), Arancione (1906), Oliva (1907), Lilla (1910)]. In quella prima serie di racconti, tra i cinque di Marie-Catherine Le Jumel de Barneville, baronessa d’Aulnoy (1650-1705), e precisamente l’Oiseau Bleu, il Roi Charmant diviene Prince Charming, definizione d’indiscutibile successo se si pensa che, l’anno dopo, si ritrova in “The Picture of Dorian Gray” di Oscar Fingal O’Flahertie Wills Wilde (1854-1900).
Forse per l’Italia e la Spagna, maggiormente vale il colore dinastico dei Borbone e dei Savoia, oppure l’espressione “sangue blu”, per via della carnagione non scurita dal sole, che rende visibili le ramificazioni venose.
In “Suli, Perna e Anna”(Sole, Perla e Anno), è più facile individuare già nel titolo, i protagonisti calendariali del mito, come nel caso della “fidanzata delle Ceneri”. Tra le braccia del principe (Sole), un année (annata, Anna) scaccia l’altra, e la matrigna, o regina malvagia, prima moglie del re, o meglio anno vecchio, deve cedere il posto a quello nuovo, più giovane e attraente, come rara “perla”. Le gelosie della malefica strega (madre cattiva) sono costrette a soccombere alla fatalità che presiede al corso delle stagioni della vita. E la rappresentazione coreutica dell’avvicendamento degli opposti si prolungherà dall’Epifania alla domenica delle Palme, ma alla fine, nel corso della settimana santa, un “sacrificio umano” sancirà l’avvenuto passaggio iniziatico.
Da questo punto di vista, la storia di Biancaneve appartiene al modello della “Bella addormentata”, anche se la conflittualità è ancor più diretta con una madre snaturata, e per questo matrigna, che non vuole cederle il posto.
Tebaldo e Doralice
La versione più antica di “Peau d’âne” si trova ne “Le piacevoli notti” (1550), di Gian Francesco Straparola (1480-1557): “Tebaldo, prencipe di Salerno, vuole Doralice, unica sua figliuola, per moglie ...”. Nel propiziare il nuovo anno, il travestimento rituale era prerogativa d’una primitiva liturgia sciamanica. Cosicché, a Beltane, la regina di Maggio, o la “fidanzata” di Primavera, indossava corone di fiori, cortecce d’albero, una pelle animale, o quella d’una vecchia deceduta da poco, il cui orrido aspetto evocava le nebbie dell’inverno che dovevano dissolversi al tepore della buona stagione. Magicamente, dietro il desiderio incestuoso di Tebaldo, si auspicava la sostituzione di chi s’è estinto (la defunta madre) con qualcosa (la pelle), o qualcuno (la figlia Doralice), di pari bellezza.
La bella e la bestia
Le origini de “La bella e la bestia” potrebbero essere riscontrate nell’intradiegetico “Amore e Psiche”, contenuto ne “L’asino d’oro”, o Metamorfosi, di Apuleio, ripreso da Giovanni Francesco Straparola, nel 1550, e poi, nel 1740, da Madame Gabrielle-Suzanne Barbot de Villeneuve (c.1695-1755), in “La jeune américaine, et les contes marins”. Nel 1756, in “Magasin des enfants, ou dialogues entre une sage gouvernante et plusieurs de ses élèves”, Jeanne-Marie Leprince de Beaumont (1711-1780), snellì la narrazione, riducendola a una semplicità quasi archetipica. Eliminando tutti i personaggi secondari, omise completamente ogni pesante sfondo familiare e tragico, e, si svincolò dal villeneuviano messaggio critico nei confronti della società a lei contemporanea, in cui le donne erano costrette a sposarsi per convenienza, con dei mariti che, letteralmente, erano talvolta ben peggiori delle “bestie”.
Gli enigmi della Sfinge d’Edipo
Attraverso i diversi racconti, Biancaneve, Cenerentola o La Bella e la Bestia, Bettelheim analizza il contenuto psicoanalitico delle storie per l’infanzia, in particolare in riferimento a grandi temi come la rivalità fraterna (o sororale, e generazionale), o il complesso d’Edipo. Dimostra quindi che tali narrazioni corrispondono alle angosce dell’età corrispondente a quella di chi dev’essere informato su quali prove imminenti (e altre di là da venire) dovrà affrontare e sugli sforzi da compiere per raggiungere la maturità.
I Tre porcellini
Lo psicoanalista austriaco mette, inoltre, a confronto differenti versioni delle medesime fiabe e indica quelle che più, e meglio, corrispondono alla struttura psicologica infantile. I “Tre porcellini”, per esempio, è la storiella che maggiormente permette ai bambini d’incorporare la necessità di crescere, spostando il principio del piacere, governato dalla prevalenza del mondo immaginario dell’onnipotenza infantile, verso quello di realtà, disciplinato invece dai vari stress della vita quotidiana, dovuti alla socializzazione.
“Ogni fiaba è uno specchio magico che riflette alcuni aspetti del nostro mondo interiore e le misure richieste dal nostro passaggio dall’immaturità alla maturità. Per chi s’immerge in quello che la favola deve comunicare, diventa un lago tranquillo che sembra rispecchiare la nostra prima immagine; ma dietro a questa immagine, ben presto scopriamo il tumulto interiore della mente, la profondità e come metterci in pace con noi stessi e il mondo esterno, il che ci ricompensa dei nostri sforzi” (Bruno Bettelheim: “The Uses of Enchantment: The Meaning and Importance of Fairy Tales”, 1976).
Pierre Santyves
Negli anni ’20 del secolo scorso, l’editore parigino Émile Nourry (1870-1935), dietro lo pseudonimo di Pierre Santyves [scelto in omaggio all’esoterista Joseph Alexandre Saint-Yves, marchese d’Alveydre (1842-1909)], pubblica una serie di saggi sulla valenza iniziatica delle fiabe, che celano cerimonie ancestrali tramandate descrittivamente dall’immaginario dell’anima popolare. Le domande che si pone e alle quali vuol dare risposte sono semplicissime, tipo: perché la Bella Addormentata cade in un sonno profondo? Perché un principe vuol far calzare una “scarpetta” a tutte le fanciulle del suo regno?
Nel primo caso l’interpretazione psicoanalitica del sonno, equivalente della fase di latenza, è lampante, nel secondo lo è il tema sessuale dell’esercizio d’uno “ius primae noctis”, rivendicato in base a un primitivo diritto feudale, se non si tiene in considerazione l’origine cinese nella storia, raccontata da Tuan Ch’ing-Shih, autore e studioso della Dinastia Tang, morto nel 863 dell’era volgare, di Yeh-Shen, o Ye Xian, fra i cui elementi basilari emergono proprio i piedi minuti della protagonista, notoriamente segno di distinzione e nobiltà per quella cultura estremo-orientale, e per antonomasia oggetto di feticismo sessuale.
Eppure Santyves si sofferma sulla versione in cui l’evocazione degli antenati avviene dinanzi al camino, per il quale passa ogni anno la nostra Befana, o alla quercia secolare del cimitero, da parte d’una “fidanzata delle Ceneri”, liturgicamente ricollegabile alla Candelora e a San Valentino.
Manifesto il sincretismo tra antiche deità abitatrici dei boschi, culto degli avi, dei genii locorum ed esorcizzazione della morte. Il barocchismo e la letteratura romantica avrebbero rivestito dapprima di cortigianeria, e poi di borghesismo, ancestrali amuleti e riti misterici, riducendoli a banali escamotage narrativi.
Giuseppe M. S. Ierace
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