C’è stato un momento nella storia della cultura umana in cui un termine indicativo del senso del palato, in funzione alimentare, e quindi soggettiva, naturale, ed istintiva, ha acquisito valor di metafora con significato estetico, collettivo, culturale, acquisito. L’idea di buongusto, praticata “fuor di metafora” in campo gastronomico, ha condotto ad una sua estensione altrove, in un terreno di coltura già abituato alle delicatezze percettive del palato, e per ciò stesso in grado di trasporre il giudizio dei sapori in un suo uso figurato e letterario, e quindi modificare la critica della tavola in quella della “tavolozza”. Sarebbe poi accaduto forse che, nel ridefinire retroattivamente un’assegnazione caratterizzante ai significati dei due termini, al “gusto” sia toccato il compito sensoriale di riconoscere come buono ciò che piace ed al “buongusto” quello culturale di sapere perché piace ciò che è buono, grazie alla mediazione del tirocinio di un meditato affinamento.
L’equazione, che diverrà irreversibile in seguito alla trasposizione dei termini, per cui al gusto si rivelerà buono quanto soddisfa ed il buongusto otterrà appagamento dalla salubrità, verrà contrastata dall’adagio “de gustibus…”, che in merito richiede un’assoluta sospensione del giudizio (“epoché”). La disputa rischierebbe di differenziare vari dispositivi per il tramite di valutazioni “altre”, oltre il consentito dibattimento strettamente sapienziale, quale potrebbe essere un’eventuale esclusione di classe, quella del cosiddetto “parvenu”, o “bifolco arricchito”, alla Trimalcione di petroniana memoria. In quest’ultimo caso, la distinzione attraverso il gusto potrebbe divenire un meccanismo culturale atto a “snobare” ingenui ed inesperti, costringendoli a confessare, forse non senza malcelata ripicca catalana: “Mon senyor, mangeu les peres, que les tinc de llançar al porc” (Mio signore, mangiate voi le pere, ché noi le diamo ai maiali). Il che trova eco nella rassegnata preghiera meridionale a Sant’Accutuffato, affinché assicuri la provvidenza al ricco in quanto il povero (alla miseria) è già abituato.
Il concetto di eguaglianza traballa di fronte alla constatazione araba in forma interrogativa, secondo cui: “se io son principe e tu sei principe, chi condurrà i somari”. A ciascuno, quindi, un compito da assolvere, all’interno di un’uguaglianza generica, ma non portata alle estreme conseguenze. L’essere signore o contadino dell’uno sarà infatti congeniale all’essere contadino o signore dell’altro, per cui ci sarà sempre qualcuno disposto, consapevolmente, a dover “condurre i somari”, piuttosto che essere principe senza un seguito.
Se il gusto non accomuna eletti e diseredati, nobili e villani, il buongusto differenzia nettamente le classi sociali? Fin quando resiste l’immutabilità del dato ontologico istintuale, l’ideologia della diversità deve orientarsi verso una sapienza che si può insegnare ai prescelti, ma anche verso un’abilità che ne faciliti l’assimilazione, la quale abilità possa essere riconosciuta quale capacità di discriminazione tra un sapore ed un altro. L’agro, allora, è rustico quanto il dolce è più delicato e ricercato?
“Il gusto è un’attitudine naturale o culturale? Istintiva o acquisita?…” a questa domanda Massimo Montanari, in “Il Formaggio con le pere” (Laterza, Bari 2008), risponde: “Il meccanismo è semplice: da un lato il bisogno (l’esigenza fisiologica di chi mangia) genera desiderio (di mangiare qualcosa); dall’altro la natura (di un cibo) genera il suo sapore; se il desiderio ed il sapore si incontrano positivamente nell’atto gustativo – vale a dire, se il cibo piace – ciò significa che la natura di quel cibo si addice al bisogno fisiologico di chi lo sta mangiando”. In un ambito del tutto naturale, l’equivalenza bontà = salubrità varrebbe a conciliare l’accoppiata gusto/piacere, così spesso in antitesi all’idea di dieta.
Esiste dunque, in natura, una facoltà alla quale far ricorso per poter giungere istantaneamente all’essenza delle cose? E’ il sapore dei cibi a qualificarli in funzione delle necessità nutritive? E’ il gusto uno strumento di analisi e selezione ed il piacere un mezzo di conoscenza? (Per come, sotto molti aspetti, pure linguistici, la definizione di conoscenza “biblica” farebbe supporre?) Di solito ciò che soddisfa il gusto si pratica più volentieri e con maggior frequenza!
Il buongusto eccede l’istinto e, filtrato dall’intelletto, va coltivato, onde evitare che “ai peggio porci” vadano “le meglio pere”, quel tale aforisma che ripercorre il senso dell’invito evangelico: “Nolite dare sanctum canibus, neque mittatis margaritas vestras ante porcos, ne forte conculcent eas pedibus suis, et conversi dirumpant vos” (Matteo 7, 6).
Ne suoi “Les Essais” (II, 12), Michel Eyquem de Montaigne ipotizza un insegnamento “istintivo”, per la capacità dimostrata da: calabroni, formiche e topi, “di scegliere sempre il formaggio migliore e la miglior pera, ancor prima di averli assaggiati”.
In un opera del 1542, “La formaggiata di Sere Stentato” del piacentino Giulio Landi, ci si sofferma su di una considerazione di carattere gnoseologico che ci appare di estrema importanza, specie se generalizzata a tanti altri aspetti della vita, dei quali si ha consuetudine certa, ma di cui si è persa la motivazione originaria, tipo: “si fa, ma non si sa”. “Quantunque sia dal vulgo confessata,” scrive il conte Landi, elogiando la bontà del formaggio piacentino: “non perciò allegano ragione perché così buono sia”. Il “vulgo” è tale in quanto non saprebbe dare spiegazione alle proprie preferenze. Si tratterebbe ancora di un “gusto” inconsapevole ed acritico, strettamente legato alle sensazioni del palato, non ancora sottoposte all’analisi della ragione.
L’apprezzamento dei piaceri della vita corrisponde ad una superiore valutazione che si può acquisire imparandola, attraverso il quotidiano esercizio di appagamento dei sensi, dal quale trarre emozioni che siano di nutrimento per l’intelletto addestrato. L’affinamento di “un” buongusto “generalizzato” non nasconde la superiorità del palato, in quanto sapere, insegnamento, cultura, rispetto agli altri sensi, ai fini di una valutazione della realtà e di un riconoscimento della sua essenza e di una sua verità.
“Tutte le frutte in tutte le stagioni/ come dir mele rose, appie e francesche,/ pere, susine, ciriegie e poponi./ Son buone a ch’il le piaccion secche e fresche:/ Ma s’io avessi ad esser giudic’io,/ le non hanno a far nulla colle Pesche…”. Francesco Berni (1497-1535) ebbe una vita interiore piuttosto ricca e travagliata e di questo sembra ne fosse consapevole, nel dedicare alla propria complessità psicologica un’attenzione abbastanza irriverente, alla quale faceva seguito un’indagine introspettiva non convenzionale, ma dalla forza analitica capace di penetrare i tortuosi labirinti mentali e nient’affatto schiva dal rovistare nella sporcizia, dalla quale traevano spunto quegli strani protagonisti delle bizzarre sue fantasie.
“Ma chi ha gusto fermamente tiene,/ ch’elle sien le reine de le frutte…”, per esempio, sembra fare il verso all’Elogio della pazzia di Erasmo da Rotterdam.
“Chi vuol sapere se le pesche son buone,/ ed al giudizio mio non acconsente,/ stiasene a detto de l’altre persone,/ ch’hanno più tempo, e tengon meglio a mente,/ e vedrà ben che queste pesche tali/ piacciono a i vecchi, più che a l’altra gente./ Son le Pesche apritive e cordiali,/ saporite, gentil, ristorative,/ come le cose ch’hanno gli speziali…”. La sua curiosità assiste alla mutazione delle immagini e delle parole e, mentre sembra che parli di cose insignificanti, allude anche a qualcos’altro.
“Le pesche fanno un ammalato sano/ tengono altrui del corpo ben disposto;/ Son fatte proprio a beneficio umano./ Hanno sotto di sé misterio ascosto,… Ma non s’insegna a tutti i grossolani… Ma i’ho sempre avuto fantasia/ per quanto puossi un indovino apporre,/ che sopra gli altri avventurato sia/ colui, che può le Pesche dare e torre”.
Ci sarebbe da discutere di quali siano “le cose ch’hanno gli speziali”, del perché siano predilette dai “vecchi, più che a l’altra gente”, di come facciano “un ammalato sano”, e poi a cosa alluda quel “corpo ben disposto” ed il “beneficio umano”, la metafora del “dare e torre”, ma soprattutto cosa sottintenda “il misterio” che “non s’insegna a tutti i grossolani”, così prossimo alla retorica de “il formaggio con le pere”, tanto da presupporre la possibilità di un, sia pur ipotetico, stravolgimento di significato, in cui possono giocare un ruolo espressivo persino pratiche e tendenze sessuali.
Metaforici furono per Francesco Berni, non solo le pesche, ma anche orinali, aghi, anguille, carciofi, etc. finché, nel tessere l’elogio dei cardi, formula per primo il proverbiale divieto: “Non ti faccia, villano, Iddio sapere,/ ciò è che tu non possa mai gustare/ cardi, carciofi, pesche, anguille e pere”. L’assenza del “formaggio” non modifica l’essenza della sentenza.
“Io non dico de i Cardi da cardare,/ che voi non intendeste qualche baja;/ dico di quei, che sono buoni da mangiare…”. Questo suo “Capitolo” comincia con l’anticipare una spiegazione: “Poi ch’io ho detto di Matteo Lombardi,/ dè Ghiozzi, de l’Anguille e di Nardino,/ io vuò dir qualché cosa anche de’ Cardi./ Che son quasi miglior, che’l pane e’l vino:/ e s’io avessi a dirlo da dovero,/ direi di sì, per manco d’un quattrino/ e anche mi parrebbe dir il vero;/ ma la brigata poi non me lo crede,/ e fammi anch’ella rinegar San Piero./ Benché pure a la fin, quando ella vede,/ che i Cardi son sì ben adoperati,/ le torna la speranza ne la fede/ e dice, oh terque, quaterque beati,/ quei che credono altrui senza vedere,/ come dicon le prediche de i frati…”. Le immagini che lo ossessionano si fanno linguaggio, le sconcezze parole, l’impudicizia autenticità ed il delirio contorto è un messaggio sottile.
“I Cardi voglion esser grossi e sodi;/ ma non però sì sodi, che sien duri,/ a voler che la gente se ne lodi,/ non voglion esser troppo ben maturi,/ anzi più presto alquanto giovinetti;/ altrimenti non son molto sicuri./ Soprattutto bisogna che sien netti;/ e se son messi per la buona via,/ cagionano infiniti buoni effetti./ Fanno svegliar altrui la fantasia,/ alzan la mente agli uomini ingegnosi/ dietro i segreti de l’Astrologia…”. L’inconsistenza del desiderio scruta con la tecnica che in poesia ricalca l’antropomorfismo delle nature morte di Arcimboldi.
“Se i Cardi ti paresser troppo cari,/ non li lasciar perché non è onesto,/ che patiscano i ghiotti per gli avari./ Lascia più presto star l’olio e l’agresto,/ il pane, il vin, la carne, il sale e’l lardo,/ poni da parte tutto quanto il resto,/ e per l’amor di Dio dacci del Cardo”.
I frutti del proverbio de “il formaggio…” rientrano in un processo di conoscenza, allorquando ad esso si faccia riferimento come al “sa-pere” a cui tutti aneliamo. La trasgressione del nostro progenitore ebbe modo di consumarsi con un albero da frutto che il Buonarroti, nel “Peccato originale e cacciata dal Paradiso Terrestre”, come ci rammenta Gian Luigi Beccaria, in “Misticanze, parole del gusto, linguaggi del cibo” (Garzanti, Milano 2009), non esitò a dipingere come un fico, che, data l’esclusiva controparte femminile di Adamo, non lascia niente di velato, sicuramente più di quanto avrebbe potuto suggerire il semplice melo.
Negare l’istruzione ricalca la primordiale proibizione di cibarsi del frutto dell’albero dell’Eden, che apriva gli occhi agli ingenui e conferiva loro un potere che, grazie al discernimento del bene e del male, si sarebbe sostanziato in una volontà, la quale a sua volta si poteva autoalimentare in quanto “volere è potere” (anche se paronomasia minore rispetto a “volere volare”).
L’associazione fructocasearia equivarrebbe ad un co-interessamento nella gestione dei terreni, da parte del mondo agricolo e di quello pastorale, praticamente perseguibile in quella conduzione a rotazione che alterna alle colture cerealicole le piante foraggere, ed alle produzioni orticole quelle da reddito? Se ci si può sfamare di solo cacio, pane e pere non ci sarà bisogno d’altro!
Quanto è di dominio pubblico è causa di pregiudizio ed inquietudine, per paura che di ciò che si sa qualcuno se ne possa approfittare a scapito di altri. Un’acquisizione culturale potrebbe trovarsi all’origine di un deficit di altro genere, ad esempio, di tipo socio-economico. Il bifolco, che si è arricchito, probabilmente ha esercitato un’astuzia che gli ha consentito di usufruire di tutti quei mezzi atti ad accumulare ciò che adesso manca alle sue incaute vittime. Chi è allora in grado di imparare e trarre vantaggio, a danno dei “signori”, è anche colui il quale non dovrebbe sapere. E qui si appalesa la tradizionale reticenza calabrese che identifica con la malizia la furbizia contadina: “Non ci ddiri o viddanu saggiu quant’è bbella la pira c’u formaggiu”. Questo perché, acquisito il dato, il “villano” astuto eserciterebbe la sua malevola “villania”, mentre il cavaliere, il signore, inteso come persona leale e uomo d’onore, pur essendone a conoscenza, non se ne approfitterebbe, secondo l’adagio del letterato fiorentino Francesco Serdonati (1540-1603) che al “cittadino” attribuisce una più sobria “cortesia”.
L’astuzia sconfina a volte nell’ingordigia, se un altro proverbio recita: “Al villan che mai si sazia non gli far torto, ne grazia”. Il “signore” è meno soggetto alle tentazioni, comprese quelle della gola ed avrebbe un maggior senso del dovere e della misura, infatti “il villano venderà il podere per mangiare cacio, pane e pere”. Gli sprovveduti, quindi, per correre dietro ai piaceri, trascurerebbero qualsiasi compito.
“Colonus ergo fur”, “importuna rusticorum voracitas”o differenziazione tra cibo da signori ed alimentazione da “villani”, che insieme con “i cani non chiudono le porte con le mani”, e quindi non riescono neppure a cogliere la frutta dagli alberi e devono accontentarsi degli ortaggi più umili, in base ad una catena di corrispondenze, connaturata al ciclo della vita?
A rivoltare il calzino si occupa l’altra campana, che, in termini equipollenti, ma non del tutto speculari, formula l’invito iberico a non condividere il cibo, più che il “sapere”, col proprio padrone: “Ni en burla ni en veras con tu señor no partas peras”, per un motivo molto semplice quanto temibile: “darte ha las duras y comerse ha las maduras”; ulteriore spiegazione la fornisce il detto d’oltralpe: “celui qui partage les poires avec son seigneur n’a pas les plus belles”, che in italiano diventa: “chi divide la pera coll’orso, n’ha sempre men che parte”. “Chi si mette in affari con chi è più forte e prepotente rischia di rimetterci tutto quello che ha investito”, commenta Carlo Lapucci nel suo “Dizionario”.
Con i proverbi si può dire tutto ed il contrario di tutto, a seconda dell’uso che se ne fa, del contesto di provenienza e di davvero tante teorie di equivoci che si rincorrono nei diversi significati in cui si possono adoperare, per cui il Bertoldo, nell’opera di Giulio Cesare Croce, viene rimproverato da Alboino di interpretare “ogni cosa alla rovescia”. Difatti “massima polivalente” è la definizione a cui fa ricorso Monique Rouch, nel suo saggio su “Les communautés rurales de la campagne bolonaise et l’image du paysan dans l’oeuvre de Giulio Cesare Croce (1550-1609)” (1984). Il proverbio sarebbe così sempre pronto ad assecondare le intenzioni di chi lo potrà pure citare in situazioni del tutto differenti.
Per Elisabeth Schulze-Busacker (“Éleménts de culture populaire dans la letterature courtoise”, 1979), si tratta di un “prefabbricato”, con la finalità di porre barriere difensive, oppure di un “fuori testo”, allo scopo di spersonalizzare il discorso, e trovare punti di vista in comune con l’interlocutore, dai quali dedurre modalità percettive conformi.
Il codice espressivo è abbastanza tipico e per lo più chiuso e vincolato ad un contesto, al di fuori del quale si perde il senso che si vuol evidenziare. Steven Shapin ne ha sottolineato una motivazione epistemologica in “Proverbial Economies: how an understanding of some linguistic and social features of common sense can throw light on more prestigious bodies of knowledge, science for example” (2001). Ma tra apodittico e dialettico c’è la stessa differenziazione che contraddistingue la consapevolezza dalla comprensione di ciò che si ritiene buon senso?
“La semplice verità che porta al fallimento di qualsiasi tentativo di creare una lingua di precisione sta nel fatto che il significato di una frase deriva dall’uso delle parole” – Richard David Precht: “Ma io, chi sono? (ed eventualmente, quanti sono?)”, Garzanti, Milano 2009 –
Essendo privo di contesto, il proverbio non rientrerebbe nel discorso principale, se non in maniera esplicativa, quale nota a margine. A margine, come ad illustrare il concetto con modalità figurative, tanto da indurre Lillian Randall (“Images in the Margins of Gothic Manuscripts”, 1966) a rintracciare nei proverbi lo spunto per molta iconografia medievale. Andrew Otwell, in “Medieval Manuscrpt Marginalia and Proverbs” (1995), aggiunge l’osservazione della reciprocità della funzione del proverbio, che, nel discorso verbale, rivestirebbe quella medesima dell’illustrazione a margine delle raffigurazioni iconografiche. “Marginalia” e proverbi risulterebbero incompleti senza il testo di riferimento, dal quale è come se fossero vitalizzati. L’illustrazione è un suggerimento per l’occhio di chi guarda, pensando alla lettura, mentre il modo di dire sarebbe un’allusione a qualcos’altro, per chi ascolta dovendo percepire anche il non detto. Michael Camille, in “Image on the Edge: The Margins of Medieval Art”(1992), nel sottolineare l’instabilità di significato precipua delle “marginalità” raffigurate, come di quelle verbali, attribuisce ai proverbi la consistenza di “speech without a speaker”, con la conclusione dell’intercambiabilità di significato a seconda di chi vi fa ricorso, nonostante l’intenzione evidente di spersonalizzazione del senso, alla ricerca di autorevolezza oggettiva e di conferma delle proprie opinioni, grazie a sentenze universali consolidate dalla consuetudine.
Richard David Precht, in “Ma io, chi sono? (ed eventualmente, quanti sono?)” (Garzanti, Milano 2009), racconta di come Ludwig Wittgenstein sia pervenuto all’assioma: “Ogni filosofia è critica del linguaggio”, cioè in seguito alla lettura di un articolo di cronaca relativo al dibattito processuale davanti ad una corte giudiziaria, per un incidente stradale un po’ complicato. Per fare chiarezza sull’accaduto, viene costruito un plastico in miniatura, con case giocattolo, modellini di camion e automobiline, pupazzetti per pedoni, che vengono posizionati e poi spostati in base alle testimonianze. Nell’autunno del 1914, un incidente stradale complicato come quello era ancora un avvenimento straordinario, anche per le metropoli come Parigi, e poi il giovane Ludwig, impegnato sul fronte orientale austriaco, di vedetta sul fiume Weichsel, è ancora venticinquenne, e da poco, un ingegnere aeronautico, neppure tanto brillante. Non viene catturato dal nemico, forse dalla noia, ma resta senza dubbio affascinato da quella storia, perché gli permette di dedurre in che modo sia possibile rappresentare la realtà con qualcosa che ne faccia le veci, per via della somiglianza delle figure, come per i rapporti tra esse, che devono mantenere le medesime proporzioni. Gli è sufficiente sostituire il plastico di quell’accadimento, ed i modellini di riferimento all’incidente, con pensieri e parole per dedurre come si possa rappresentare linguisticamente, allo stesso modo della realtà, un’idea. “Nella frase si fa il tentativo di comporre un mondo”, concluse. “Wittgenstein pensò a quell’incidente automobilistico ed al modo in cui le figure ed il rapporto tra di loro avevano fornito un’immagine della realtà. – commenta Richard David Precht, in “Ma io, chi sono? (ed eventualmente, quanti sono?)” (2009) – La stessa cosa avviene in una frase: i sostantivi (“nomi”) corrispondono alle “cose” del mondo e, attraverso la loro composizione in un enunciato, acquisiscono un significato. Se i nomi e la sintassi corrispondono alle cose ed al rapporto tra le cose reali, allora la frase è vera. Questo, almeno, il principio. Perché un simile specchio della realtà possa davvero rispecchiare qualcosa bisogna eliminare tutti i difetti di costruzione.”
Il contadino potrebbe essere il protagonista dell’incidente, formaggio e pere le automobiline, il verbo starebbe all’incrocio dov’è avvenuto lo scontro, l’aggettivo indicherebbe il senso di marcia e qualche altro elemento condizionerebbe la segnaletica stradale della “frase” di Wittgenstein. I testimoni al processo stabiliscono il contesto che dovrà produrre senso. Avvocati e giudici, più dei vigili urbani, consentono la circolarità dei saperi con incostanti riferimenti a sapori e gusti relativi. Durante il dibattimento potrà così capitare che la situazione venga ribaltata sino alla proposta rovesciata di non far sapere ad altri che non sia il contadino, anzi quest’ultimo diviene il soggetto principale ed è lui che non deve far sapere. La riformulazione potrebbe addirittura acquisire un’appendice rivendicativa che libera definitivamente la vittima dalla sua condizione di subordine: “… Ma il contadino, che non era coglione,/ lo sapeva prima del padrone”, come a ribadire il concetto che non si deve coltivare la presunzione di “voler insegnare a nuotare ai pesci”.
Molti proverbi sono stati impostati, ed eventualmente modificati, ad uso e consumo di certe categorie, ed, una volta ribaltati, utilizzati da altre classi, anche se non mancano casi di antologie composte, ad esempio, da chierici, dedicate e commissionate da nobili, rivolte al popolino, come “Li proverbes au vilain” del XII secolo. Consigli oculati con invito alla moderazione, divenuti adagi comuni, provengono da aforismi della tradizione sanitaria. La celebre asserzione: “una rondine non fa primavera” ci giunge addirittura dalla lettura di Esopo (248, “Il giovane prodigo e la rondine”), attraverso la riflessione aristotelica dell’Etica Nicomachea. Buon senso, considerazioni sul clima, annotazioni stagionali, precetti salutari per l’agricoltura e la coltivazione dei campi hanno da sempre fatto parte del bagaglio sapienziale contadino.
Natalie Zamon Davis (“Le culture del popolo. Sapere, rituali e resistenze nella Francia del Cinquecento”, 1980) si sofferma sul dato incontrovertibile che la produzione di determinate forme espressive rappresenta uno snodo tra la rinuncia (o la perdita) di un monopolio dottrinario e l’elevazione a sentenza di un motto comune, quindi “vox populi vox dei”. All’affermazione della Zamon Davis sui proverbi che enunciano “una parte della verità”, fa eco l’anastrofe di Massimo Montanari, in “Il Formaggio con le pere” (Laterza, Bari 2008), quale gioco di parole circa il relativismo dell’eventuale professione di “una verità di parte”.
Giuseppe M. S. Ierace
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