Il mistero della percezione del tempo: perché, con l’età, gli anni passano più in fretta?

L’impatto sulla memoria, da parte del tempo, la costringe a dar forma a questa esperienza mediante le personali conoscenze. Una ricerca giapponese (Kogure et al., 2001) garantisce una maggiore facilità nel ricordare, per esempio, i nomi propri coinvolti in un determinato fatto che non la data dell’evento. Della qual cosa spesso neanche ci accorgiamo, perché la nostra percezione del passato presenta il difetto di venire bizzarramente deformata con il trascorrere degli anni. Forse uno studio più appropriato dovrebbe indirizzarsi sui meccanismi dell’oblio, in quanto di tutte le cose che ci accadono, di cui veniamo a conoscenza, che incontriamo, vediamo, sentiamo, ecc. riusciamo a trattenere ben poco.

Di solito, si classifica la memoria “autobiografica” in episodica e semantica, la prima più semplice, legata al singolo evento, l’altra arricchita da tutto ciò che vi ruota intorno. Molto quindi viene a dipendere dagli schemi cognitivi, che possono essere individuali, legati agli interessi personali che magari ci fanno focalizzare l’attenzione più su alcuni aspetti particolari e trascurare altri dettagli. Il tentativo di ricordare proprio tutto infatti potrebbe rivelarsi controproducente. Immagazzinare tutti gli accadimenti in assoluto significa pure non avere la disponibilità di rivederli secondo quanto accadrebbe in base al significato: “Written Once, Read Never” (una volta scritto, mai letto) dell’acronimo  Worn che vuol dire anche: usato, consunto, sfinito, e che fa il verso al dispositivo mnemonico: Worm. Il prezzo da pagare a un tale sforzo sarebbe quello di dover smettere, di punto in bianco, di registrare dell’altro, magari più interessante, e quindi rinunciare, in un certo qual senso, al futuro apprendimento.

Noi acquisiamo il senso del tempo andato grazie alla memoria autobiografica e ci affidiamo ai ricordi del passato con modalità talmente inconsapevoli del suo fluire nel presente che ne perdiamo il giudizio sulla velocità di quello già trascorso.

La sensazione che il tempo acceleri sembra abbastanza comune e potrebbe risiedere su di una spiegazione di tipo matematico. C’è una certa proporzionalità tra gli anni passati e il presente, poiché in base all’età anagrafica, quello che stiamo vivendo è man mano una parte sempre più piccola: un decimo a dieci anni, un ventesimo a venti… un sessantesimo a sessanta, ecc. “Fate ricordare a qualcuno i suoi  ultimi otto-dieci anni di scuola; durano un secondo. – diceva Paul Janet nel 1877 – Ora prendete gli ultimi otto-dieci anni di vita: durano un’ora”. Robert Lemlich (1975) provò a concepire una formula congruente a questa ipotesi, ma William J. Friedman e Steve M. J. Janssen (2010), non l’avrebbero confermata, proponendo invece la possibilità che, forse, a cambiare sia il ritmo della vita in generale, indipendentemente dall’età.

William James considerava la teoria della proporzionalità di Janet più una descrizione che una vera spiegazione del fenomeno, soprattutto perché non tiene in debito conto la notevole influenza dell’attenzione e delle emozioni sulla percezione temporale. “Lo stesso lasso di tempo sembra più breve quando invecchiamo, che siano giorni, mesi o anni; resta da vedere se anche le ore sembrino più brevi, e tutto fa pensare che minuti e secondi rimangano pressoché immutati”.

Il funzionamento della memoria autobiografica continua a rimanere al centro del dibattito e delle ipotesi esplicative, dichiara Claudia Hammond, ne “Il mistero della percezione del tempo” (Einaudi, Torino 2013). L’errore più comune che si commette quando si prova a datare episodi del passato è di natura ingrandente (forward telescoping). E’ come se, guardando con un telescopio, il tempo fosse stato compresso e apparisse più vicino. All’opposto, l’altro errore, pare l’espansione temporale (backward o reverse telescoping) a effetto rimpicciolente. Il primo sbaglio si commette più frequentemente con i fatti remoti, il secondo con gli eventi recenti, cosicché il lontano passato si ricorda un po’ più vicino, il meno distante più discosto. La teoria che ci offre una spiegazione in questo caso è quella della nitidezza del ricordo di Norman Bradburn (1987). Essendo consapevoli che la memoria va sbiadendosi nel corso del tempo, ricorriamo alla sua maggiore o minore vividezza, o confusione, per farne misura di “spazio”.

Nell’esperimento di Alex Fradera e Jamie Ward (2006), la conoscenza di un evento, in termini di quantità, influiva sulla datazione tanto più era remoto, mentre, per datare fatti accaduti e di cui siamo magari testimoni, non ricorriamo alle informazioni che abbiamo, ma ai ricordi. Tra memoria e cognizione c’è quindi una netta differenza, eppure le due facoltà potrebbero considerarsi inversamente proporzionali. Per collocare nella giusta posizione un accadimento lontano abbiamo bisogno di più dati, mentre per inquadrare bene un avvenimento recente facciamo uno sforzo mnemonico.

Marigold R. Linton (1988), studiando il ruolo delle emozioni sulla memoria, ha verificato che molto  verosimilmente l’enumerazione mentale ci porta a ricordare meglio ciò che emotivamente ci colpisce di più, in misura del bias della dissolvenza dell’affetto. Man mano che il tempo passa le cose positive forniscono emozioni consone, quelle negative dovrebbero al contrario perdere mordente (Walker  et al. 2003), con qualche eccezione psicopatologica, il disturbo postraumatico da stress per esempio. Difatti gli incidenti stradali vengono dimenticati nella misura di un buon venticinque per cento (Maycock G. et al, 1991) e, se i successi ci appaiono più recenti dei momenti imbarazzanti, è un effetto di quella distorsione temporale utile a proteggere l’autostima (Ross M. and Wilson A. E., 2002). Questo meccanismo ci offre un escamotage per superare  brillantemente remore, disagi e impacci.

Sembra anche più facile ricordare il giorno della settimana che la data. I fine settimana addirittura hanno una valenza propria (Skowronski J. J. et al., 2003). L’inquadramento d’un evento non sarebbe quindi una delle priorità dell’abilità mnemonica. Delle “Five Ws and one H” (Who, What, When, Where, Why, and How?), che in parte riprendono le classiche sette “mòria peristàseos” di  Hermagoras di Temnos (Quis, quid, quando, ubi, cur, quem ad modum, quibus adminiculis), il “cosa”, “chi” e “dove”, Willem Albert Wagenaar ha sperimentato di persona, sono indubbiamente più facili da rammentare del “quando” (1986).

Indipendentemente dalla coloritura affettiva dell’episodio, se un certo fatto vien ricordato male, si tende a retrodatarlo, coerentemente con l’ipotesi della nitidezza del ricordo. Le teorie che si richiamano alla “forza della traccia”, non sono recenti e presentano il difetto di stimolare un qualche rigonfiamento di quanto ci è sembrato emotivamente saliente.

Ma se provassimo a riformulare le domande, inserendovi degli espliciti, e non generici, punti di riferimento temporale, la ricostruzione dei ricordi richiederebbe un maggiore sforzo cognitivo con un ulteriore e determinante confronto.

James McGaugh si è occupato della memoria autobiografica superiore, o ipertimesia, che potrebbe essere spiegata in base all’ipotesi della creazione di una speciale marca temporale da attaccare alla registrazione dei ricordi. Porre però nel giusto ordine gli accadimenti trascorsi non mette alla prova soltanto le capacità di rievocazione, ma in maniera specifica la percezione del tempo. La perdita di quella sorta di targhetta esplicativa di quando si è verificato un fatto si traduce nella difficoltà di ritrovare il posto da noi stessi occupato nel mondo, ma pure nell’impossibilità di dare un senso cronologico alla nostra intera esistenza.

Non si tratta affatto di dettagli, perché una cosa è ricordare, altra la collocazione temporale delle tracce mnemoniche. L’affissione o meno di una marca calendariale non dipende dagli stessi processi che producono l’amnesia. Per cui, i pazienti con danno al proencefalo basale riuscirebbero ancora ad apprendere fatti nuovi, magari senza poterli mettere in sequenza.

Il ricordo insomma è molto più facile da rievocare quanto più la registrazione è stata all’inizio marcata, distinta e vivida, il coinvolgimento emotivo maggiore, ma pure in base al novero di richiami che l’hanno esumato da quel momento in poi.

 

Albert R. Roberts e Kenneth R. Yeager, in “Interventi sulla crisi” (Springer, Milano 2012) identificano una dozzina di indicatori di predisposizione alla crisi da parte di chi, per esempio, non è capace  di mantenere relazioni interpersonali significative, o addirittura non riesce a servirsi dei sistemi di supporto sociale di amici e familiari, continua a impiegare i medesimi metodi fallimentari di adattamento e mostra scarsa attitudine a imparare dagli avvenimenti passati, oppure è impulsivo, irritabile o mostra di avere scarsa autostima. All’inverso, un test di resilienza ha valutato l’influenza di un incidente traumatico sui gradi di pessimismo e il legame tra fiducia nel futuro e soggiacenti livelli di capacità di recupero, scoprendo che una maggiore resilienza determina persino un aumento dell’ottimismo (Frederickson et al., 2003).

Richard Gregory, nel 1958, ebbe l’opportunità di analizzare una situazione irriproducibile sperimentalmente. L’occasione veniva offerta da un cieco a cui veniva restituita la vista. Si sarebbe pertanto potuto rispondere finalmente al quesito se quest’ultima sia in grado da sola di “comprendere” ciò a cui la si sottopone, oppure se il cervello ha bisogno di “imparare” a capire gli input che gli provengono dall’esterno.

Fino ai sei anni i bambini fanno un notevole sforzo per astrarre il concetto calendariale di “mese”. Per ricostruire il passato, ricorriamo a informazioni frammentarie, che costituiscono indizi di cui siamo privi in molte circostanze. Elementi climatici di una certa situazione, possono indirettamente aiutarci, se è buio, o mattino, per azzeccare l’ora; la qual cosa sembra più facile di indovinare il giorno della settimana, specialmente se feriale, perché le festività risultano tanto importanti da essere ricordate molto meglio.

Disegnare due linee parallele, una in rappresentanza degli eventi vissuti, e l’altra in rapporto a episodi di cronaca, facilita dei collegamenti strategici per evidenziare maggiori dettagli. Se, su questo binario, ci si muove dal passato verso il presente è ancora meglio. L’accuratezza migliora ulteriormente, collocando man mano il fatto da ricordare in un lasso di tempo sempre più ristretto.

Due mesi sembrano il periodo cruciale per ottenere la maggiore approssimazione, per quanto riguarda i fatti personali. Allontanandosi da questo punto di interruzione si tenderà a ricorrere al telescopio. Per gli avvenimenti di cronaca, l’elaborazione e conservazione della data sembrano diverse e il punto critico si attesta attorno ai tre anni. Tra i tre anni e i due mesi pertanto si tende a sottostimare la datazione (reverse telescoping).

Con l’età, ci si aspetterebbe un impiego del telescopio ingrandente (forward telescoping), ma forse proprio per questo, gli anziani propendono a sovracompensare retrodatando (Crawley S. E. and Pring L., 2000).

Esiste probabilmente uno stretto rapporto tra il giudizio sul trascorrere (percezione) del tempo e l’immagine che ci siamo costruita di noi stessi (identità), cosicché quando quest’ultima ha subìto un cambiamento, la stima non ci impressiona più di tanto, ma un eventuale errore nella tempificazione sarebbe sostenuto proprio da questo ingarbugliato intreccio che ci fa incorporare gli eventi personali trasformandoli in una parte integrante della nostra storia e della nostra identità. Non riuscire a ricordare qualcosa di personale equivarrebbe a una perdita di controllo, a volte dolorosa, quanto meno sgradevole, come riferisce Willem Wagenaar.

Il picco di reminiscenza (reminiscence bump) riguarda gli avvenimenti intercorsi tra i quindici e i venticinque anni, giusto l’età in cui si struttura la personalità, per via della novità di un po’ tutte le esperienze che si affrontano tra adolescenza e giovinezza. La cosiddetta “prima volta”, in tutti i campi, ha un impatto fortissimo, tant’è che di quasi ogni cosa rammentiamo soprattutto l’inizio.

Nella tarda adolescenza ci si chiede per la prima volta chi siamo e chi vogliamo diventare ed è proprio per questo che ricordi legati a tale periodo di sviluppo restano vividi per affermare un’identità ancora in via di formazione. Negli anni successivi, soltanto una metamorfosi importante di questa entità (Conway M. A. and Haque S., 1999) ne consoliderebbe la memoria con un secondo picco di reminiscenza.

Il picco di reminiscenza viene spiegato grazie allo sviluppo cerebrale, alla novità delle esperienze, alla ricerca di identità, che, nella loro potente combinazione, fanno riferimento al sentimento della nostalgia, fatta di sensazioni forti, passioni, rimpianti, lutti… Nel 1938 si parlò apertamente di “psicosi dell’immigrato”, identificando a rischio soprattutto gli espatriati, i collegiali, e poi marinai e soldati. Nostalgia malinconica, da distinguere dalla nostalgia perversa del “tentativo di mantenere narcisisticamente introiettato – sussurra “Sottovoce agli Psichiatri” (Piccin, Padova 2010) Romolo Rossi –  e sempre introiettabile l’oggetto primario... fermi, in un’immobilità senza progressione, fermi dunque alla soglia al di qua della malinconia, senza possibilità di elaborare il lutto e di riconoscere la perdita originaria, arrestati all’illusione di permanenza perenne all’oggetto arcaico, magicamente e onnipotentemente ricreato a ogni colpo di bacchetta magica nel talismano della droga”.

Eppure, la capacità di “viaggiare” mentalmente nel proprio passato svolge una funzione di rilievo nel cementare l’identità e nell’assicurare significato a quanto ci apprestiamo a vivere nel presente, individualmente o come gruppo. Difatti, rafforzando il legame con altri, la nostalgia svolge un importante ruolo di socializzazione, perché avere nostalgia, alla fin fine, significa non sentirsi soli, condividendo impressioni e ricordi, anche se si dovesse trattare di obsolete ricette di cucina. L’aspetto più positivo della nostalgia, in tal caso, è semmai quello di rendere più tollerabile un presente sfortunato, grazie all’incremento della personale autostima, supportata comunque da un gruppo identitario a cui ci si sente appartenere. La stessa disperazione trova conforto nella nostalgia. Ad Auschwitz, Viktor E. Frankl (1946) si consolava pensando ai dettagli trascorsi per allontanare un futuro immediato nel quale era consapevole di non poter sperare.

Il periodo per cui si sente più nostalgia, e che siamo portati a rinvangare più spesso, corrisponde al picco di reminiscenza, quando cioè possiamo anche dare conferma alla nostra identità. Le novità contribuiscono a far sembrare più lunga e lenta la giovinezza trascorsa, mentre l’antitetica monotonia successiva, accompagnata da progressiva carenza di indicatori temporali, accelera in avanti il movimento cronologico, rimpicciolendone la durata.

 

Giuseppe M. S. Ierace

 

 

Bibliografia essenziale:

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