Ne “L’Io e l’Es” (1923), ed ancor prima in “Psicologia delle masse ed analisi dell’Io” (1921), Freud descrisse l’Io come istanza centrale della soggettività, alla quale attribuire degli specifici compiti: quello di mediare tra le spinte pulsionali dell’Es (libido/aggressività) e la coscienza morale del Super-Io, nonché, allo scopo di bilanciare e frenare gli istinti con (e mediante) il principio di realtà, quello di presentare concretamente il mondo esterno all’inconscio “desiderante”, rendendone così sopportabili le inevitabili frustrazioni. L’Io così descritto dal padre della Psicoanalisi potrebbe allora sembrare un Arlecchino della Commedia dell’Arte, “servo di tre padroni”: Super-Io, realtà, pulsioni.
Ne “Il Disagio nella civiltà” (1929), Freud ammette che il processo di socializzazione, nell’attenuare i rischi autodistruttivi del consorzio umano, per proteggere dalle estreme conseguenze dell’aggressività incondizionata verso le fasce più deboli, quali donne, bambini, anziani, ha costretto alla rinunzia alle gratificazioni (attraverso il soddisfacimento immediato e diretto delle pulsioni), e ciò ha reso l’accesso al sentimento della felicità molto più tortuoso ed ovviamente meno praticabile. A causa (od, a seconda dei punti di vista, grazie) all’incivilimento, si costituisce quel primo “meccanismo di difesa” che sposta le pulsioni, sessuali o aggressive, verso la valorizzazione di obiettivi socialmente accettabili, e quindi non sessuali e non aggressivi. Le gratificazioni vengono quindi procrastinate e ricercate in mete più impegnative, che costituiscono traguardi culturali nell’ambito delle professioni, della ricerca o dell’attività artistica, ovvero in finalità relazionali, quali l’amore, l’affetto, l’amicizia, la solidarietà.
Quest’operazione non può essere condotta alle estreme conseguenze dell’eccessiva inibizione degli istinti, senza pregiudicare l’equilibrio psicofisico, ed, attraverso la plasmabile massificazione che tende verso l’omogeneità, l’uniformità ed il livellamento, nel porgere il fianco all’espropriazione indebita ed all’accettazione incondizionata, approdare alla capitolazione ed all’annullamento della propria individualità. Presso alcune comunità primitive, la rinuncia del singolo alla funzione critica, per una maggiore aderenza alle esigenze del gruppo, in cambio della soddisfazione di un senso di protezione, mantiene la regressione emotiva alle fasi iniziali del rapporto parentale. Si organizza pertanto una situazione paranoide che tende a sviluppare ideologie fondamentaliste, intolleranti, le quali temono e combattono ogni diversità, sino all’eccesso di xenofobia. All’estremità opposta, con la totale rinuncia ad ogni specificità caratterizzante, ritroviamo una passività di fronte ogni pretesa, pur non priva di umanitaria autenticità.
Un fallimento nella composizione degli equilibri tra Io, Es e Super-Io condurrebbe a quelle manifestazioni patologiche che si potrebbero far rientrare in una qualche forma di “disturbo del rapporto con l’altro”, affiancando espressioni psicopatologiche nosograficamente inquadrate nello spettro dell’ansia (fobia sociale, agorafobia), nell’alterazione della personalità (narcisismo), del pensiero (paranoia e deliri di trasformazione o di duplicazione), o del continuum psiche-soma (disturbi del comportamento alimentare).
La paranoia (soprattutto nelle tematiche persecutorie e di gelosia) si impianta sul sospetto, un sospetto che riguarda la fiducia malriposta, nel partner come nell’amico e nel socio, potenziali rivali. A guidare le scelte di affidabilità sarebbe l’ossitocina, l’ormone maggiormente coinvolto nello sviluppo dell’attaccamento, tipo formazione dei legami, siano essi di coppia a fini riproduttivi (scelta del partner, concepimento, parto ed allattamento), o semplicemente parentali relazioni di alleanza.
Un altrettanto basso livello di fiducia sia verso i consanguinei che gli estranei potrebbe riproporsi per quelle particolari forme di delirio in cui, per il timore dell’Altro, si dubita fortemente della riconoscibilità dei familiari, che sarebbero stati sostituiti con sconosciuti dalle intenzioni malevole (sindrome di Capgras, o “illusione del sosia”).
Un’altra formula delirante concerne il convincimento circa subdoli travestimenti da parte del(l’altro) persecutore, il quale potrebbe nascondersi sotto le mentite spoglie di chiunque (illusione di Fregoli). Il dispositivo del familiare non riconoscibile (alius) perché sostituito, e dell’estraneo ignoto (Alios alii deinceps excipiebant), ma abile nel camuffamento, e pertanto ancora più pericoloso, accosta queste ideazioni alterate al deficit percettivo della prosopoagnosia, ed un po’ anche ai meccanismi psicologici dell’iconofobia.
Per molti versi, strumento di preservazione dell’autostima, nel proiettare parti ideali del Sé nel totalmente altro di un dato animale totemico, sarebbe il delirio di trasformazione. La licantropia venne a lungo considerata il riflesso di arcaiche pratiche sciamaniche, anche se l’illusione rivelerebbe un intoppo nella disposizione cognitiva abilitata a riconoscere quell’intenzionalità ad entità oggettuali (agency), disposizione che, di fatto, precede la percezione della loro vitalità (animacy). La difficoltà nell’interazione con l’Altro rende deficitaria la percezione della propria intenzionalità (self-agency); l’ammissione di responsabilità come causa di un dato evento non riscuote gli esiti delle proprie azioni, cogliendole estranee al Sé, ed attraverso il meccanismo proiettivo, le attribuisce a temuti poteri idealizzati in animali terrifici, poiché inaccettabili, come
aggressività o sessualità disinibite.
Unitamente ad un decremento di autostima ed ad una scarsa assertività, a fronte di un eccesso di sensibilità nei confronti di critica ed eventuali dinieghi, è il codice della vergogna, in cui l’Altro suscita l’imbarazzo, a fornire substrato alla fobia sociale. Una variante assai nota di questa paura di manifestare le proprie emozioni è rappresentata dall’eritrofobia, o ereutofobia, mentre tipica della cultura giapponese sembra essersi rivelata una forma di antropofobia (taijinkyofusho), considerata, insieme con una peculiare configurazione di neurastenia costituzionale, denominata “shinkeishitsu”, una sindrome “culture-bound” e pertanto trattata con una terapia (Morita Therapy) ispirata ad una particolare branca di psicologia clinica fortemente influenzata dal Buddhismo Zen e predisposta ad hoc da Morita Masatake (Morita Shoma), già in epoca contemporanea a quella di Sigmund Freud. Taijinkyofusho viene suddiviso in semplice ereutofobia (Sekimen-kyofu), in osmofobia, o bromidrosifobia (Jikoshu-kyofu), nel timore del contatto visivo (Jikoshisen-kyofu), fino a comprendere la dismorfofobia (Shubo-kyofu).
La distorsione della visione che si ha del proprio corpo si ripresenta come timore di essere, o diventare, “grassi”, specifico dei disturbi del comportamento alimentare. Questa preoccupazione potrebbe venire sostenuta da una strategia competitiva nella scelta di partner sessuali maggiormente attratti dalle caratteristiche somatiche della giovinezza, della freschezza e snellezza, del nubilato, o della verginità, assimilate ad assenza di deformazioni dovute a gravidanze pregresse, e quindi a magrezza. Nei disturbi del comportamento alimentare, una tale ipotesi di “selezione sessuale”, imposta la relazione con l’Altro, se del proprio sesso, nel senso della rivalità, e, se del sesso opposto, in un potenziale giudizio di merito.
L’eccesso di autostima procurato dal disturbo narcisistico di personalità, amplifica le qualità proprie a scapito delle altrui necessità, neppure ammesse. Si tratta di un deficit di empatia e della funzione speculare del Sé, in cui arroganza, presunzione, invidia, e gelosie non lasciano all’Altro alcun diritto di critica, senza che questa venga avvertita come minacciosa e lesiva.
Ancora più frustrante della mancanza di empatia sembra risultare l’assenza di possibilità di immedesimazione. “Non essere amati è grave, – scrive Richard David Precht in “Ma io, chi sono? (ed eventualmente, quanti sono?)” (Garzanti, Milano 2009) – non avere nessuno da amare è ancora peggio”.
In questo senso si possono spiegare i benefici procurati dalla Pet Therapy o dalla passione per l’ambiente naturale, il giardinaggio, e qualunque altra cosa susciti dell’interesse. Dedicare molta attenzione a qualcuno od a qualcosa è indubbiamente salutare, mentre amare potrebbe rappresentare un percorso obbligato lungo l’indispensabile tragitto alla ricerca della felicità. E la solitudine potrebbe costituire motivo di sofferenza proprio per il fatto della mancata condivisione dei sentimenti. “Ciò non toglie che vi siano uomini più o meno socievoli, ma chi non ama assolutamente la compagnia soffre di seri disturbi comportamentali, o ha vissuto esperienze frustranti o deludenti che possono averlo amareggiato… – aggiunge Richard David Precht citando “Loneliness. The Experience of Emotional and Social Isolation” di Robert Weiss – Infatti, la vita di una persona chiusa nel suo piccolo mondo conduce inesorabilmente ad un deperimento psicologico. Molte persone sole sono soggette, nel corso della propria vita, ad una sorta di agorafobia. Danno al loro piccolo mondo una forma angusta, diventano rigide ed inflessibili e faticano a gestire le influenze esterne. Poiché manca loro la possibilità di confrontarsi con i sentimenti altrui, giudicano male molte cose non solo negli altri, ma anche in se stesse. Essere disponibili ad immedesimarsi negli altri e prendersi cura di loro permette di uscire dai propri limiti… La gioia di donare e la gioia di fare del bene hanno radici molto antiche, risalgono all’origine dell’umanità.” Ed è in questo senso che diviene lecito parlare di una “pulsione primaria” che spinge all’aggregazione.
La traduzione del testo originale di “Das Unbehagen in der Kultur” offre l’opportunità di formulare delle considerazioni di carattere linguistico. In primo luogo quel “Kultur” utilizzato dal nostro mai troppo osannato Autore contiene un significato più ampio del semplice corrispettivo italiano “cultura”, alludendo a tutto quell’insieme di agi esistenziali, progresso sociale ed evoluzione intellettuale che il processo di civilizzazione comporta. Eppure “cultura” (“Kultur”) e “civiltà” (“Zivilisation”) non sono affatto sovrapponibili, ma anzi costituiscono dei termini ben distinti, in tedesco addirittura antitetici per il Thomas Mann delle “Considerazioni di un impolitico” e per lo stesso Freud di “L’Avvenire di un’illusione” e di “Perché la guerra?”. Ciò viene correttamente annotato dal traduttore Enrico Ganni a giustificazione della scelta del titolo “Il disagio nella civiltà” (con introduzione di Stefano Mistura, Einaudi, Torino 2010). Ma allora quell’”Unbehagen”, che indica una banale deficienza di comodità, poteva essere riportato con “malessere”, od ancor meglio con insoddisfazione, e la preposizione articolata “nella” essere sostituita con “dalla” o “della”, per accentuarne causa o provenienza, piuttosto che limitare il senso alla sola locazione?
Anche la più fluida traduzione inglese di “Civilization and its Discontents”, che maggiormente sottolinea i rapporti esistenti tra civiltà ed angustia, risolvendoli con un accostamento collegato dalla congiunzione, non chiarisce la sottigliezza di “Kultur”. Allorquando Freud si pone il problema di spiegare ciò che intende, si esprime dicendo letteralmente di metterne in dubbio il valore al fine del raggiungimento della felicità, e, nel citare il suo precedente “Die Zukunft einer Illusion” del 1927, ne fissa la descrizione ne “l’insieme delle opere e delle istituzioni che differenziano la nostra vita da quella dei nostri progenitori animali e che servono a due scopi: a proteggere gli esseri umani dalla natura ed a regolamentare i rapporti degli uomini fra loro… Ci lasceremo guidare senza esitazioni dall’uso comune della lingua, da quella che si è soliti chiamare la nostra sensibilità linguistica, confidando di comprendere così nei giusti termini convinzioni interiori che per il momento ancora si oppongono ad essere espresse con parole astratte”. Entrando in dettaglio il padre della psicoanalisi dà per scontato che appartenga alle funzioni “civili” tutto ciò che contribuisce a sottomettere la natura, nel senso di una protezione da quanto di selvaggio essa esprime, ed a trarre vantaggio dalla produttività della terra. I primi manufatti culturali furono così le abitazioni e gli utensili con i quali lavorare.
All’addomesticamento del fuoco dà risalto, contrassegnandolo come “conquista straordinaria e senza precedenti”. L’ipotesi che avanza ricompone un infantile abbinamento tra fuoco ed urolagnia. Il primitivo getto della minzione che sfida la fiamma il cui guizzo va verso l’alto, in modo da essere interpretata in senso fallico, assumerebbe significato virile nel godimento della potenza ed, allo stesso tempo, soddisferebbe una curiosità competitiva di carattere omosessuale. Solo un maturo superamento di questa fase infantile di eccitazione fornisce l’accesso all’impiego della forza naturale del fuoco, ormai domata dal rispetto riconosciutole. Ad una rinuncia pulsionale viene offerto in premio una “conquista straordinaria e senza precedenti”. Fedele custode del focolare domestico non poteva che divenire se non chi, per struttura anatomica, nello spegnimento della fiamma, non è in grado di coltivare un’analoga ambizione. L’urolagnia sembrerebbe così alla base di quelle arcaiche forme religiose legate a rituali di fertilità, che avrebbero successivamente dato vita al culto latino delle vestali.
Nel VII capitolo di “Das Unbehagen in der Kultur”, Freud, intendendo la capacità da parte del Super-Io di distinguere il bene dal male, parla di “Gewissen”, che viene tradotto con “coscienza morale” (conscience), in modo da essere nettamente distinta da quella “consapevolezza del sé e del mondo esterno”, suggerita dal termine “Bewu?tsein” (consciousness), a cui si manifesta il rimorso, che, nel capitolo successivo gli consente di distinguere “Schuldgefühl” (sentimento di colpa) da “Schuldbewu?tsein” (consapevolezza della colpa), reso in italiano con “senso di colpa”. “Rimorso è il termine generico che definisce la reazione dell’Io in presenza del sentimento di colpa; contiene, pressoché immutato, il materiale delle sensazioni di angoscia che agisce dietro al sentimento di colpa stesso, è a sua volta una punizione e può includere il bisogno di punizione; anche il rimorso può quindi essere più antico della coscienza… Una volta il sentimento di colpa doveva essere conseguenza di aggressioni non compiute, un’altra, ed in particolare in occasione del parricidio, suo esordio storico, conseguenza invece di un’aggressione attuata… Non c’è dubbio che l’aver istituito l’autorità interna, il Super-Io, ha profondamente modificato la situazione. In precedenza, sentimento di colpa e rimorso coincidevano; da notare che il termine rimorso va riservato alla reazione conseguente ad un’aggressione effettivamente messa in atto…”
Il sentimento di colpa si impone alla coscienza nella “nevrosi ossessiva”, altrimenti rimane inconscio quale subdolo bisogno di punizione. “Schuldgefühl” Freud lo descrive come una varietà “topica” dell’angoscia, da collocare nell’ambito del Super-Io. Potenzialmente l’angoscia si nasconde dietro tutti i sintomi, spesso in modo da restare inconscia, tanto da poter emergere sotto forma di malessere generale; sarebbe il caso del “disagio” procurato dalla civilizzazione, l’altro è quello del “peccato” generato in un contesto religioso (esplicitamente cristiano). “Il sentimento di colpa, l’asprezza del Super-Io, equivale quindi alla severità della coscienza, è la percezione attribuita all’Io di essere sottoposto a questi controlli, è la valutazione della tensione esistente fra le sue aspirazioni e le esigenze del super-Io, mentre il bisogno di punizione, ossia l’angoscia – che sta alla base di tutto il rapporto – di fronte a questa istanza critica, è una manifestazione pulsionale dell’Io divenuto masochistico sotto l’influsso di un Super-Io sadico, detto altrimenti dell’Io che per formare un legame erotico con il Super-Io utilizza una parte della pulsione alla distruzione interna presente in lui.”
Il senso di colpa non coincide con la concezione della responsabilità, poiché non riguarda le conseguenze di un’azione commessa. Il male intenzionale mai realizzato si accumula nell’inconscio come colpa, perché l’Io non discrimina tra buona e cattiva azione, bensì, a causa della sua fragilità e della dipendenza, teme di perdere l’amore. E’ l’angoscia procurata da questa prospettiva che rende obbedienti ai principi etici, per non esporsi al rischio di punizione da parte dei superiori (progenitori). Ciononostante, se la rinuncia al soddisfacimento pulsionale basta a placare l’autorità esterna, non è sufficiente per il Super-io. “La rinuncia pulsionale a questo punto non svolge più una funzione pienamente liberatoria, l’astinenza virtuosa non viene più ricompensata dalla certezza dell’amore, si è barattata una possibile infelicità esterna – perdita dell’amore e punizione da parte dell’autorità esterna – con un’infelicità permanente interna, e cioè la tensione del senso di colpa.”
Per superare questa posizione difficile dal punto di vista dell’economia psichica, si è fatto ricorso al meccanismo dell’identificazione, cedendo l’aggressività all’autorità assorbita, e rovesciandone il ruolo: “Se io fossi il padre e tu il figlio, io ti tratterei male”. “La relazione tra Super-Io ed Io è la riproposta, deformata dal desiderio, di relazioni reali tra l’Io non ancora diviso ed un oggetto esterno.”
La fondamentale dinamica del senso di colpa sta tutta nell’ambivalenza della sua filogenesi, l’inscindibilità dei due principi antitetici di Eros e Thanatos. “Davvero non è decisivo se abbiamo ucciso il padre o ci siamo astenuti dal farlo: ci si deve sentire colpevoli in entrambi i casi perché il sentimento di colpa è espressione del conflitto ambivalente, dell’eterna lotta fra Eros e pulsione distruttiva o di morte. Questo conflitto insorge nel momento stesso in cui l’essere umano si vede costretto ad affrontare l’incombenza del vivere insieme.”
In “Al di là del principio di piacere” (1919) l’odio viene individuato quale parte integrante del desiderio. E, nel concepire questa polarità dialettica, Freud impostava la sua visione del mondo in termini dottrinari, la psicoanalisi era così destinata ad imporsi come teoria generale della cultura, più che quale semplice ipotesi terapeutica.
A ben guardare, la genesi de “Il Disagio nella civiltà” (1929), è piuttosto lunga, essendo durata alcuni lustri, proprio perché la sua evoluzione sarebbe iniziata abbastanza presto, con lo spostamento della focalizzazione dall’analisi della psiche individuale ad una maggiore attenzione per la psicologia collettiva. Già al 1908 risale “La morale sessuale civile ed il nervosismo moderno”, al 1911 poi le “Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico”, in cui, viene concepita la coppia di opposti complementari “principio di piacere/principio di realtà”; nel 1915 Freud affronta direttamente l’indagine storico-politica con le “Considerazioni attuali sulla guerra e la morte”, mentre è del 1918 la dichiarazione dell’utilità sociale della sua dottrina (“Vie della terapia psicoanalitica”, pubblicata su “Zeitschrift” l’anno successivo).
Ne “Il Perturbante” (1919) esplora il riemergere del rimosso, correlando l’esperienza dell’angoscia al concetto di “coazione a ripetere”. Con “Al di là del principio di piacere” (1919) la teoria delle pulsioni assume una fisionomia ben definita. La riflessione freudiana si approfondisce in “Psicologia delle masse ed analisi dell’Io” (1921), “Due voci di enciclopedia” (1922), e “L’Io e l’Es” (1922), con cui porta allo scoperto quel conflitto ancora più arcaico tra libido e pulsione di morte. In particolare, “Psicologia delle masse ed analisi dell’Io” amplia il campo d’indagine dall’individuo alla collettività, soffermandosi specificatamente sulla forma primitiva di legame libidico (“identificazione”) con il leader, e “L’Io e l’Es” completa l’analisi dei rapporti tra l’Io e l’ideale dell’Io. La personalità è in fondo il risultato del tentativo di comporre le conflittualità inconsce.
Nel 1924 vanno in stampa “Il problema economico del masochismo” e “La perdita di realtà nella nevrosi e nella psicosi”. Ma il culmine della maturità sarebbe stato raggiunto nel 1927, con “L’avvenire di un’illusione”, che prosegue nel dialogo con Oskar Pfister (“L’Illusione di un Avvenire”); stimolato dagli interrogativi di Romain Rolland, Freud mette mano ad un saggio che verrà riconosciuto come “opera essenziale” dell’insieme delle esperienze inaugurate dalla psicoanalisi, appunto “Das Unbehagen in der Kultur”. Il padre della psicoanalisi aveva interpretato la religione cristiana quale forma infantile di “nevrosi ossessiva universale dell’umanità”. La fede proviene dalla rinuncia pulsionale, favorita dalle interdizioni e dalla richiesta di protezione dalle forze invincibili della natura, espressamente la morte, anche mediante la proiezione dei desideri individuali nell’illusione dell’immaginario collettivo.
Lo scopo dell’esistenza umana, identificato con la ricerca della felicità deve fare i conti con i conflitti inconsci, i sentimenti di colpa che ne derivano e con la conseguente aggressività distruttiva interna. La realtà esterna impedisce la soddisfazione del piacere, perché gli “altri” limitano la realizzazione dei desideri; le sofferenze corporee ed i conflitti interiori accrescono un malessere generale che non si giova se non di false promesse. La limitazione del godimento contribuisce ad inibire le innate tendenze aggressive, contenendo le espressioni di ostilità istillate dall’odio che proviene dall’istinto di morte. Cosicché la civiltà si costruisce sulla rinuncia pulsionale, grazie alla creazione di oggetti sostitutivi. Leggi civili, imperativi morali, progetti utopici sono le fondamenta stesse della società, della religione, e di tutte quelle ideologie che mirano all’emendamento dei singoli ed al miglioramento della convivenza. A peggiorare ulteriormente il senso di malessere degli individui sarà però quel sentimento di colpa che il Super-Io procura deviando verso l’interno le pulsioni distruttive rivolte contro gli “altri”. Anche le rare conquiste dell’Eros saranno ripagate da rimozioni. Sotto la cenere della quiete comunitaria ci sarà sempre qualcosa o qualcuno che fungerà da capro espiatorio, allo scopo di assorbire tutto quel carico di odio pronto a riversarsi, a seconda dei casi, all’interno dell’individuo o contro il proprio gruppo di appartenenza. L’aggressività sarà rivolta più lontano, verso altri, diversi, stranieri, potenziali nemici. La presenza di “terzi” renderà più coesa una comunità nella quale potersi identificare condividendone il “narcisismo delle piccole differenze”. Non si riuscirebbe a riconoscere nell’altro un medesimo, senza la presenza del terzo, “diverso”, su cui orientare la generica aggressività di cui ci fornisce la pulsione distruttiva. E’ come se la xenofobia facesse parte integrante di una fase, solo di rado intermedia, del processo di civilizzazione.
Nel caso in cui l’aggregazione sia finalizzata verso la sopravvivenza e la sicurezza, ogni tensione non muoverà verso la soddisfazione delle pulsioni e neppure procrastinerà le stesse in ragione di una posticipata felicità. L’individuo si sentirà deresponsabilizzato dal produrre un’ideazione autonoma, originale e creativa e sarà la paura dell’incognito e della propria impotenza, assieme ad un’etica impostata sul conformismo, a fungere da collante, intriso di complicità, con il gruppo di appartenenti alla medesima mentalità pre-individuale. A fornire senso all’esistenza saranno la personificazione del leader ed il dominio ideologico.
Per molti versi, si potrebbe affermare che un certo grado di sottomissione e di dipendenza sia insito alla socievolezza, almeno nella stessa misura in cui questa costituisca una “pulsione originaria dell’inconscio”, alla pari del desiderio di appagamento e della ricerca della felicità. Il tutto si giocherebbe all’interno della polarità tra Es e Super-Io, che comporta l’Io quale punto di equilibrio e forse anche, in qualche modo, di sintesi di tutta la struttura di personalità.
Quelli della nostra specie sono indubbiamente individui assolutamente “desideranti”, alla continua ricerca di un appagamento inestinguibile, in quanto ogni soddisfazione viene subito sostituita da un’ulteriore brama. Allo stesso tempo, in contrapposizione all’innegabile essenza di singoli apparentemente autonomi, tendono a raggrupparsi, a confrontarsi, proprio per rafforzare mediante il rapporto con gli altri, la costruzione di un proprio Io, figura psichica centrale che si struttura giusto sull’esistenza di “terzi” e sul bisogno di mantenere relazioni con essi. Identità, memoria, sentimenti e tutto ciò che comprende una mente riflessiva devono rispecchiarsi in altrettante espressioni di pensiero prodotte dai nostri simili. Senza queste forme di immedesimazione e di distacco, non saremmo in grado di riconoscerci, di creare immagini, di concepire idee, di riflettere su di loro e su di noi.
La struttura dell’Io nasce così in balia di un’irruenta irrazionalità propria dell’Es e dell’eccesso di zelo imposto dal Super-Io, allo scopo di consentire la convivenza sociale. E’ in questo snodo di contrasto tra moralità e desiderio che si determina la contraddizione dell’etica del sacrificio e della rassegnazione alla rinuncia. L’appagamento dell’Es non può non passare attraverso la ricerca della felicità, sotto forma di soddisfazione dell’Eros, la cui invadenza viene però contenuta dalla necessità (Ananke) di rispettare norme che, nonostante siano repressive e limitanti, ci qualifichino e responsabilizzino all’occhio vigile del Super-Io, agente su mandato della logica comunitaria. Freud ha posto alla base della civiltà moderna questa dinamica del contrasto fra pulsioni inconsce emergenti, nel comportamento individuale di ricerca di appagamento e di felicità, frenate dalla coercizione dei doveri sociali.
A partire dai “Tre saggi sulla teoria sessuale” (1905) fino a “Il problema economico del masochismo” (1924), il parallelismo socio-economico pone una tappa importante nella concezione della “Lebensnot” (Ananke), da quel punto di vista distributivo di perdite e guadagni che devono rispettare un equilibrio indispensabile all’interno di un sistema che vede la rinuncia del singolo in favore del gruppo sociale, attraverso la mediazione del processo culturale che l’ostacolo agli istinti da parte del mondo esterno riformula come adattamento alla realtà della convivenza. Come per Stuart Mill, l’utilitarismo freudiano coincide con l’aspirazione alla massima felicità possibile. Questa visione del fondamento della civilizzazione si è andata affiancando, in campo filosofico, al materialismo storico di Marx, proponendo la psicoanalisi quale scienza totale e non più esclusiva terapia delle nevrosi.
Giuseppe M. S. IERACE
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