Esiste un falso convincimento circa le normali relazioni tra salute, prevenzione, cura, e le “manières de table“, ma non quelle intese dalle raccomandazioni familiari sul comportamento, tipo: “Ne mets pas tes coudes sur la table...”, bensì un corretto rapportarsi con quegli alimenti che forse, se tutto va bene, ci si può concedere “semel in anno”!
E qui l’elenco potrebbe essere lungo, dall’alcol al caffè, dal glutine agli zuccheri aggiunti.
Ci si deve chiedere poi, in che modo eventualmente affrontare vari tipi di “diete”, e soprattutto “perché”?
Differente il caso di chi “deve” dimagrire da quello di chi vuole semplicemente mantenersi in forma, di chi ha scoperto d’essere intollerante a un certo ingrediente e di chi invece vuol prevenire una tendenza genetica già accertata in famiglia.
E dove li mettiamo i preparati cosiddetti “light”, gli integratori, l’olio di pesce, la cioccolata, la gomma da masticare, l’aspirina, le uova, la carne?
I vegetariani non si nutrono di cadaveri animali, terrestri , acquatici o aerei che siano, e non perché la carne faccia proprio male (ma forse un po’ sì!), piuttosto perché maiali, tacchini, polpi e salmoni sono esseri viventi come noi, e addirittura persino pensanti, che soffrono a venire abbattuti o tolti scelleratamente dal loro ambiente per allestire quella “table” sulla quale esercitare le nostre “manières”, che da piccoli ci raccomandavano che dovevano essere “bonnes”!
Il tacchino selvatico, al contrario di quello da allevamento, veniva considerato una bestia agile e scaltra, che non si faceva ingannare facilmente dagli stratagemmi venatori che lo prendevano come bersaglio. I tacchini selvatici s’arrampicavano sugli alberi e si dedicavano ad attività ludiche, per cui godevano di molto rispetto fra gli altri volatili, tanto da essere considerati, incarnando resilienza e doti adattive, tipiche dei padri pellegrini, fondatori dell’America moderna, uccelli di classe, araldicamente in grado di competere con l’Haliaeetus leucocephalus, dal 1782 simbolo degli United States, rapace austero senz’altro, ma troppo altezzoso per via di quella testa bianca che lo fa sembrare un’aquila calva, e quindi più consono al carattere francese, contraddistinto da un’Aigle de drapeau, o da Le Coq Gaulois (in un gioco di parole tutto nostrano “gallico gallo”).
La domesticazione ha trasformato il tacchino come tutti gli altri animali d’allevamento in pezzi di carne ambulanti, mentre, anche addomesticato, il corpulento suino rosa, ha conservato tutta la sua intelligenza, superiore addirittura a quella degli scimpanzé addestrati, e di cui hanno pari capacità d’apprendimento: insomma, facoltà intellettive analoghe a quelle d’un bambino sui tre anni.
In “Animal Farm” (1945) di George Orwell, pseudonimo di Eric Arthur Blair (1903-1950), i maiali detengono il potere, ma gli ordini li fanno eseguire ai cani, perché in effetti sono ben capaci di ragionare in autonomia e riuscire a risolvere problemi, mentre la fidélité è point d’honneur dei lupi addomesticati.
Per uno che scriveva “contro il totalitarismo e a favore del socialismo democratico” (“Why I Write”, 1946), guardare “il maiale e poi l’uomo, poi l’uomo e ancora il maiale: ma era ormai impossibile dire chi era l’uno e chi l’altro”, eppure con la consapevolezza d’essere impegnato “in un gioco in cui non possiamo vincere. Alcuni fallimenti sono migliori di altri, questo è tutto”! (“Nineteen Eighty-Four”, 1948).
Da grandi, molti di noi hanno imparato a utilizzare sapientemente “couverts et ustensiles sophistiqués”, in un approccio “à l’aise” di degustazione d’un menu, più o meno raffinato, ma non per questo più salutare o nutriente. I meno numerosi si sono abituati a padroneggiare senza impaccio quelle complesse regole del protocollo, che nella contemporaneità ci appare quanto meno “un peu dépassé”: colazioni di lavoro, pranzi aziendali, convivi sociali, agapi fraterne, “grands dîners” e “autres réceptions officielles”.
In queste particolari circostanze, ci saranno sempre dei commensali, nostri vicini un po’ sadici, a godere d’una particolare “schadenfreude” (e che pertanto non meritano di passarla franca, e non essere, in proporzione, puntualmente ricambiati alla prima occasione), i quali vorranno mettere alla prova la nostra disinvoltura nello sbucciare la frutta con “fourchette et couteau”, o nell’affrontare le difficoltà “à décortiquer les langoustines” (e anche questa, almeno, potrebbe rientrare nelle possibilità di motivare una dieta vegetariana, in specie se si è convinti che le aragoste non siano intellettualmente alla medesima altezza degli altri crostacei!).
“En revanche”, hanno ragione, e “à juste titre”, a vituperare un comportamento agito come se loro non esistessero affatto. “Là, comme ailleurs”, e questo vale sia per chi, in società, riceve, sia per gli invitati, è assolutamente essenziale tener desta l’attenzione verso gli altri al mero scopo di “profiter au maximum des plaisirs de la table”, pure qualora non dovesse essere proprio “à la française“.
In ogni caso, tranne rare eccezioni, si mangia in compagnia!
Cosicché, se già si ha un familiare, commensale, che lo è, ragionare e, di conseguenza, comportarsi come un diabetico, aiuta a prevenire l’insorgenza di questa malattia.
Prim’ancora che la glicemia dichiari che si è varcata la soglia del “prediabete” (cioè della fase in cui i valori glicemici s’attestano fra 100 e 124), occorre in proposito cambiare modo di ragionare e nutrirsi.
Si cominci, dice David DiSalvo, in “Il Cervello in Cucina” (pubblicato dall’editore Boringhieri, di Torino, che, nell’occuparsi di gastronomia, potrebbe far precedere il secondo nome da un eloquente “Bolliti”!) col ridurre “il consumo di tutto ciò che contiene troppo amido oppure che è stato trattato o processato al punto da assomigliare ormai poco a un alimento”.
E si allude allora alla lista dei cibi “raffinati”, e non nel senso “sophistiqués” (di cui sopra!), bensì di quasi “sofisticazione”. Poiché pane bianco, riso brillato, pasta, patate e mais sottoposti a procedure industriali (per non parlare di biscotti, torte, dolciumi e succhi), hanno subito delle alterazioni che li hanno defraudati dell’originaria naturalità. Ci si accorge di questa contraffazione della genuinità, allorquando ci si sottopone a un “trattamento” di vera e propria “disintossicazione” da tali alimenti e dopo poche settimane, la smania di assumerli con voracità viene meno.
Per quanto riguarda i succhi, hanno decisamente perduto la primitiva porzione di fibre, sostituita dall’aggiunta di zuccheri, in quantità decisamente eccessiva (e questo per tralasciare le bibite gassate!).
Le “bonnes manières” di alimentarsi, cioè “dans la nourriture”, consigliano di privilegiare la frutta fresca, decisamente non sotto forma di succo, la frutta secca, le verdure, le proteine magre, pane, pasta e riso integrali, lo yogurt vero, come il greco, oppure il kefyr, preparato con i granuli formati da quel complesso di polisaccaridi (Kefiran) ricco di fermenti lattici e probiotici.
Si aggiunga a questa ricetta un “q. b.” (quanto basta) di esercizio fisico, in specie di tonificazione muscolare, con il vantaggio di rendere l’organismo più sensibile all’insulina che produce, oltre che aiutare a mantenere il giusto peso.
Lo “snake oil” degli americani, tra le altre etimologie, ne avrebbe una popolare, anche se priva di prova storica. William S. Haubrich nel suo libro “Medical meanings: a glossary of word origins” (1997), sostiene che il nome è nato sulla costa orientale, dove i nativi delle regioni di New York e Pennsylvania avevano l’abitudine di strofinare tagli e graffi con il petrolio raccolto da quegli affioramenti che si verificavano nella zona. I coloni europei hanno osservato questa usanza e hanno iniziato l’imbottigliamento e la vendita della panacea, ancor prima d’individuare il suo utilizzo come carburante. A metà del XIX secolo, invece che con la definizione delle altre tribù locali, tipo Oneida (dall’endonimo Onyota’a:ka, che vuol dire: “Popolo della pietra eretta“), con cui si confondevano, la preparazione è stata venduta con quella della nazione più occidentale tra le Sei Nazioni della Lega irochese, quindi come “Sen-ake-a oil”, olio dei Seneca (dal loro villaggio principale, Osinika, troppo simile alla parola anishinaabe: Asinikaa, che significa “[quelli nel luogo] Pieno di pietre”), successivamente storpiata in “snake”, serpente.
Per noi, equivale a rimedio portentoso, che abbia del miracoloso o del ciarlatanesco, in ogni caso non superiore a un effetto placebo. La composizione del cosiddetto olio di serpente, prodotto da Clark Stanley, detto il “Rattlesnake King“, si basava su dell’olio minerale, grasso animale, canfora, trementina, peperoncino rosso. Eppure, il vero olio di serpente, ricavato da un rettile acquatico cinese, possiede delle effettive proprietà, contenendo una maggiore quantità di acidi grassi polinsaturi omega-3 del tipo EPA (acido eicosapentaenoico), anche rispetto al salmone.
L’efedrina, estratta dalle piante del genere Ephedra, rientra tra gli ingredienti principali di molte pillole ad azione dimagrante fin quando non fu messa al bando e sostituita con una pseudoefedrina, che si continua a impiegare anche ora che il divieto è stato rimosso. Un primo motivo per cui la vera efedrina provoca dimagrimento lo si deve all’accelerazione del metabolismo, con conseguente maggior consumo di calorie. Ma accelerare forzatamente il metabolismo corporeo per un periodo prolungato produce danni ai vasi sanguigni, innalzando i livelli di ansia, che va smaltita incrementando l’esercizio fisico.
Il discorso non cambia molto per la fenilefrina, decongestionante nasale non spray, o i rimedi contro le allergie di tipo omeopatico. Il principio sottostante “simìlia simìlibus curentur” ha sì qualche analogia con l’immunoterapia, ma tutt’altra via di somministrazione. Anche la magnetoterapia viene proposta sul fatto che la fiducia in un prodotto dal costo elevato, rafforzata da una presupposta garanzia, alimenti l’effetto placebo.
Un eccesso di fiducia, questo (tipo negli antipertensivi, o nelle statine, che consentirebbero di strafogarsi, tanto al colesterolo LDL ci pensano loro), utile a fornire scuse per giustificare abitudini e scelte di vita errate. E molto spesso, le autogiustificazioni, soprattutto nella formula “excusatio non petita”, servono a mentire a se stessi. Insomma, la bugia non è esplicita, perché manifestata in un’apparente negazione d’una verità fondamentale che riguarda la propria salute (ossia che la vera ragione per cui s’assumono farmaci esprime la diretta conseguenza d’un comportamento a rischio), ma proditoriamente i difensori delle loro motivazioni la traducono in una sorta di presidio profilattico che appunto consente di perseverare ancor di più in quello stesso pericoloso comportamento.
Siamo tutti animati da buone intenzioni, almeno quanto ne è lastricato il pavimento dell’Inferno!
“Il cervello è un organo meraviglioso: comincia a lavorare dal momento in cui ti svegli al mattino, e non si ferma finché non arrivi in ufficio” è la citatissima considerazione di Robert Lee Frost (1874-1963), famosa quanto: “Due strade divergevano in un bosco, ed io —/ Io presi quella meno battuta,/ E questo ha fatto tutta la differenza” (The Road Not Taken, 1916), “La tua casa è quel posto dove, se ci devi andare, sono costretti a farti entrare” (da: The Death of the Hired Man), “Quand’ero giovane erano i vecchi i miei maestri./ […] Andavo a scuola dai vecchi per imparare il passato.// Ora che sono vecchio ho per maestri i giovani./ Quel che non può modellarsi dev’essere infranto o piegato./ Lezioni mi torturano che riaprono antiche suture./ Vado a scuola dai giovani per imparare il futuro”, oppure “That would be good both going and coming back./ One could do worse than be a swinger of birches” (da Birches, 1914).
Il successo di questo nostro cervello, ci dice Frost, lo dobbiamo a tutta una serie di adattamenti (“And that has made all the difference”!), che han fatto di noi quel che siamo, sentendoci accolti dove siamo entrati, insegnando ad altri la sopravvivenza, dopo aver imparato a riconoscere le minacce, nello stesso modo in cui inseguiamo le ricompense subito disponibili nell’ambiente che ci circonda.
Al giorno d’oggi, però, possiamo “far di peggio che altalenare tra una betulla e l’altra” e sarebbe bene ci fosse sia un’andata sia un ritorno (“both going and coming back”) nel futuro di un certo passato, come viceversa, se pensiamo che gli adattamenti di allora non siano più tanto vantaggiosi in una società consumistica come quella in cui viviamo. Dove non è più per niente facile distinguere fra informazione e marketing. Il cervello adesso si occupa di commerciare, pubblicizzare, fare promozione, convincere, altrettanto spesso di ingannare e circuire.
Dimenticavo… Il bon ton pretende che non si auguri ‘bon appétit‘, per più motivi: in primis, per non offendere gli interlocutori, commensali, in specie se sono stati invitati, che così, con questo permesso, verrebbero trattati non più alla pari, ma da inferiori; e poi, per non sottolineare proprio quell’esigenza di mangiare, evidenziando l’istinto animalesco e la voglia di satollarsi, a scapito del gusto di farlo e del desiderio di stare a tavola, in compagnia, per diletto, allegria e non per altri fini. In controtendenza alle norme che regolano il galateo, fanno eccezione, quando sono nel pieno esercizio delle loro funzioni, i camerieri, e soltanto i francesi e gli inglesi, questi ultimi con un più generico “enjoy“, equivalente all’invito di prendere “delight or pleasure in”, che è tutta un’altra cosa, quasi un felliniano: “gradisca!”, lo gusti, ne goda, buon pro le faccia!
Giuseppe M. S. Ierace
Bibliografia essenziale:
DiSalvo D. Il Cervello in Cucina, Bollati Boringhieri, Torino 2014
Haubrich W. S. Medical meanings: a glossary of word origins, American College of Physicians, Philadelphia (Pa) 1997
Ierace G. M. S. Contro l’invenzione delle malattie: primum non ostinarsi a curare chi è sano, https://www.nienteansia.it/articoli-di-psicologia/altri-argomenti/contro-l%E2%80%99invenzione-delle-malattie-primum-non-ostinarsi-a-curare-chi-e-sano/8655/