Ricerca (inappagante) dell’olfatto, tradimento del gusto, tentazione della vista (e sua innocente soddisfazione) – mancata corrispondenza appetibilità/sazietà in un cervello goloso – glucofilia e carbofobia nel piatto
Che esista una qualche equipollenza tra ricerca, scelta ed istinto, come tra cibo e cultura, o sapore e sapere, lo si percepisce sottilmente, quasi anche nella formulazione linguistica. Difatti, a farci sentire di cosa “sa” un alimento è un insieme di molti messaggi cerebrali, che ci avvertono pure della necessità di continuare o meno a mangiare. In origine, era da questi sistemi che sarebbe dipesa la nostra stessa sopravvivenza. Oggi probabilmente sono invece una delle probabili cause di difficoltà nella gestione dell’equilibrio energetico.
Il profumo di un alimento è sufficiente a scatenare una serie di reazioni elettrochimiche che innescano il desiderio. Se queste vere e proprie tempeste di messaggi cerebrali avevano uno scopo nella ricerca del cibo dell’uomo preistorico, sono ora divenuti una fonte, a volte anche troppo raffinata, di brama di voluttà.
Il tubo digerente comunica i suoi bisogni alimentari al cervello, dove nasce lo stimolo dell’appetito che sprona il sistema motorio ad andare alla ricerca di cibo. Quando un pasto risulta abbastanza nutriente, la gratificazione che se ne riceve costituisce un netto “rinforzo” con cui il cervello assume come assolutamente vincente il comportamento motorio che l’ha prodotta. Ciò doveva essere essenziale in un ambiente, quale quello preistorico, in cui alimentarsi non era affatto facile. Adesso che il cibo è sempre disponibile, con l’aggravante della riduzione notevole dell’attività muscolare da impiegare per il suo reperimento, tale meccanismo cerebrale ha moltiplicato enormemente l’apporto calorico. Se prima occorreva approfittare di tutti i brevi periodi di abbondanza per immagazzinare risorse da destinare ai momenti biblici di “vacche magre”, accumulando grasso corporeo, oggi questa bilancia di “pagamenti” spende indubbiamente troppo poco. In un certo qual senso, si può dire che al momento “soffriamo” per una tirannia dei sensi a cui non attribuiamo l’importanza che le dovrebbe essere riconosciuta e che forse non siamo neppure disposti ad ammettere.
Se l’olfatto era utilissimo per la ricerca di cibo dei nostri antenati, il gusto si rivelava indispensabile per l’individuazione delle sostanze tossiche; allo stato attuale la loro prepotenza sensoriale, talvolta irresistibile, non costituisce un messaggio degno di fede per la distinzione tra ciò che fa bene e quello che ci nuoce, e, men che meno, ci informa circa una valutazione attendibile sul contenuto calorico o lipidico da osservare con una certa attenzione. Quei sensi, che non hanno mai smesso di funzionare, sembrano dichiaratamente orientati a segnalarci le evidenze di quanto va considerato delizioso, sollecitandoci ad ingerirlo, e solo raramente ci impongono il divieto del “disgusto” al fine di un eventuale “evitamento”.
Sui circuiti cerebrali che presiedono alla scelta alimentare ed alla decisione di mangiare esercitano un potere assoluto olfatto e gusto, molto più della vista, con cui molto presumibilmente potrebbero trovarsi, in certe circostanze, in qualche competizione. Ad esempio, l’esperimento di Floor M. Kroese (2009) di limitarsi a “guardare” una tentazione del palato, o l’abbondanza di una tavola imbandita, sembrerebbe appagante “quasi” quanto mangiare.
Gli stimoli più importanti sono quindi di natura biochimica, a cominciare dagli odori e dai sapori, seguiti dagli aromi che si sprigionano nel palato e risalgono quel tratto che collega la bocca alle cavità nasali, a parte poi ci sono le sensazioni rinfrescanti del mentolo e piccanti dei peperoncini. Quelli di natura biochimica si avvertono nel momento del contatto tra i recettori sensoriali e le molecole in cui si riducono in ultima analisi gli alimenti. Le molecole “volatili” raggiungono ben presto le cavità nasali e vengono catturate dai recettori olfattivi; le più “pesanti”, magari trattenute dai grassi o dai liquidi, vengono imprigionate dalle papille gustative della lingua e del palato.
I lipidi non vengono riconosciuti dal gusto, ma soltanto per l’odore delle sostanze volatili che contengono e per la loro consistenza “untuosa” o “cremosa”. Questa deficitaria possibilità di identificazione rende i lipidi estremamente pericolosi, soprattutto per quanti “avventori” si trovino già in sovrappeso.
Fondamentale per determinare, da parte del tubo digerente, il segnale di sazietà, a difesa dal pericolo di accumulare peso, è la biochimica del gusto, ma questo vale per la stragrande maggioranza degli alimenti, mentre per i lipidi c’è solo la meccanica della distensione delle pareti gastriche. In tal caso, il segnale di sazietà, gestito dal nucleo del fascicolo solitario, resta rallentato nella nostra percezione, al punto di ingannarci e costringerci a mangiare più grassi di quanto in realtà dovremmo.
Come se ciò non bastasse, a complicare ulteriormente le cose, si è impegnata l’industria alimentare intenta a creare sempre nuovi prodotti dalle malcelate capacità di modificare le nostre connessioni neuronali. Si tratta di cibi “iperappetibili”, “supersapidi”, come li definisce David A. Kessler (2009), caratterizzati da alte dosi di zuccheri, grassi, sale ed additivi vari. Sono alimenti questi che agiscono alla stessa stregua di “droghe”, in quanto, ad ogni assunzione, anche quando non si ha fame, inducono quella medesima reazione euforizzante della dopamina, la quale, attraverso le alte dosi liberate nei circuiti cerebrali, provoca un’eccessiva focalizzazione dell’attenzione solo e sempre su di un singolo stimolo gratificante. Un “attentional bias” che si traduce in “acquolina in bocca” per una qualche prelibatezza.
L’alimento più appetibile, specialmente per le ragazze, secondo alcuni ricercatori come Dana Small (citata da André Holley A.: “Il Cervello Goloso“, Bollati Boringhieri, Torino 2009), sarebbe il cioccolato, verso il quale però dimostrano un desiderio frenetico anche molti maschi, con il quale tendono a manifestare il proprio amore (celeberrime le scatole di cioccolatini a forma di cuore da regalare per San Valentino). I fichi, che i francesi prediligono, non hanno mai avuto la stessa considerazione, anzi il detto “festeggiare con i fichi secchi” segnala una patente inadeguatezza. Tantomeno nessuno si permetterebbe di offrire, al posto di un fascio di fiori, un mazzetto di asparagi, di cui sono moltissimi ad andare ghiotti.
Insomma, il cioccolato ispira una “passione” che supera ogni considerazione, di solito riservata a cose ben più rilevanti. A consumarne di più sono sicuramente le donne, specialmente nei giorni prossimi al ciclo mestruale. Ma questo è sufficiente ad eleggere il cioccolato ad alimento puramente “femminile”?
Il sospetto della sua azione antidepressiva, paragonabile a quella dei farmaci serotoninergici, lo allinea alle droghe attive sui recettori oppiacei endogeni? E’ da pensare sia più presumibile l’apprezzamento procurato dalle sue qualità sensoriali.
Gli atti motori relativi all’ingestione, come la natura degli stimoli e la loro intensità, sembrano rimanere costanti con il passaggio dello stato interno dell’organismo dalla fame alla sazietà, mentre lo stato nutrizionale, il valore di gratificazione della barretta di cioccolato ed il desiderio di continuare a mangiarne cambiano proprio in quanto effetti del suo consumo. Emerge cioè come una sorta di dissociazione tra desiderio di nutrirsi di un determinato alimento e piacere procurato dal suo consumo.
Nonostante l’elevato apprezzamento edonico per un cibo, è possibile quindi che la voglia di mangiarlo vada progressivamente scemando. Tra le capacità di gratificazione dei messaggi sensoriali e la decisione di mangiare o meno esistono dei rapporti complessi, e spesso ambigui. In quanto la rappresentazione cerebrale del valore affettivo positivo, associata al comportamento di “avvicinamento” e quella del valore di segno opposto (negativo), responsabile del comportamento di “evitamento”, sembrano viaggiare separatamente su due distinti sistemi neuronali.
I sapori non possono essere separati dagli odori, che sono altrettanto partecipi della scelta alimentare, fungendo spesso da stimoli inconsci. Le emanazioni trasmesse nell’aria e percepite dall’apparato olfattivo, anzi, agirebbero ancor prima comunicando informazioni classificate come “puzzolenti” (delle solanacee), “agliacee” (dell’aglio), “caprine” (dei formaggi “forti”), “eteree” (della frutta matura), “aromatiche” (dell’alloro), “fragranti” (del tiglio, o del gelsomino), “empireumatiche” (determinate dalla tostatura del pane o dalla torrefazione del caffè), d’”ambrosia” (tipiche del muschio e dell’ambra)…
I sapori principali, nettamente riconoscibili, sono il “salato” (del sale), il “dolce” (del latte, del riso, dell’olio…), l’”aspro, agro, o acido” (del limone, dello yogurt, del tamarindo…), l’”amaro” (della cicoria, del rabarbaro…); “umami” in giapponese significa “saporito” ed indica il glutammato delle proteine. A questi sapori potremmo aggiungere altre sensazioni, come di “piccante” (di pepe, peperoncino, zenzero, aglio, cipolla…), gelatinoso, cremoso, croccante…
La caratteristica sensoriale fornita a un determinato alimento si compie infine nella tipizzazione “aromatica”. Il conferimento dell’aroma avviene da parte di specifiche sostanze chimiche: disolfuro di allilpropile (cipolla), aldeide benzoica (mandorla e amarena), eugenolo (cannella), amil-acetato isovalerianato isoamile (banana), fencone (finocchio), apiolo (prezzemolo), cinnamato di etile (ciliegia), furaneol (fragola) …
Nella frequente e varia combinazione dei sapori, ci si accorge che il dolce smorza l’amaro e l’aspro, mentre equilibra il salato. Non esiste però una relazione biunivoca dei sapori: il dolce non viene infatti, a sua volta, armonizzato dall’amaro, ma dal salato. Per cui, ad esempio, se si vuole equilibrare l’amaro di un caffè si aggiunge zucchero, mentre se si vuole armonizzare un sapore troppo dolce si aggiunge sale. Quest’aggiunta è comunque in quantità inferiore rispetto al gusto di partenza e va in “crescendo”: mentre all’amaro per ottenere un equilibrio simile occorrerebbe una quantità molto maggiore.
In quest’ambito, il ruolo fondamentale viene svolto da caratteristiche individuali, come dall’abitudine, come pure ci si potrebbero ritenere correlati alcuni dei più frequenti errori nutrizionali. Basti pensare come, quasi automaticamente, il sapore del dolce inneschi il sapore del salato, cosicché la consuetudine ad eccedere con il dolce, inevitabilmente condurrà ad una correzione di quelle fonti piuttosto insipide di carboidrati, con un maggiore quantitativo di sale, ormai acquisito quale “esaltatore di sapidità”. Ne sono esempi: patatine, pop corn e corn flakes, in cui il dolce è accompagnato a sproporzionate quantità di sale al solo scopo di fornire gusto ad un alimento altrimenti insipido (anche a causa dalle alte temperature di cottura), con il risultato finale di un definitivo annullamento dei due sapori, e contemporaneo apporto degli effetti collaterali negativi di entrambi.
Ebbene, tenendo conto di questi meccanismi, il sale potrebbe essere sostituito dall’amaro e dall’aspro delle spezie, che combinano i sapori principali con sostanze leggermente irritanti. Infatti, nel caso in cui dovesse rivelarsi necessario non eccedere con il sale, sarebbe opportuno, per esempio, preparare un’eventuale “insalata” con pomodori non del tutto maturi, un po’ più acerbi ed aspri, conditi con limone o aceto, altrettanto agri, ed appena un filo d’olio che, essendo leggermente dolce, potrebbe richiedere un’ulteriore compensazione da parte del gusto salato.
Addirittura, forse si potrebbe anche azzardare qualche corrispondenza caratterologica, ma senza per questo essere in grado di dimostrarne una netta evidenza.
Ad esempio, l’attrazione per il sapore “salato” potrebbe rivelare una predisposizione della personalità verso la sperimentazione di forti emozioni, pur ammettendo di non essere in grado di viverle appieno, con il frequente risultato di un evitamento della prova, e la conseguente preferenza per ciò che non costituisce in definitiva un reale pericolo, secondo un consueto razionale di opportuna prudenza.
L’orientamento verso un sapore “aspro” andrebbe collocato in una ricerca di meditata maturazione, quasi si avvertisse la sensazione di trovarsi di fronte ad un’opera ancora incompiuta, ma già predisposta per un luminoso ed imminente futuro. Una sorta di sfida verso gli inevitabili ostacoli che si incontrano quotidianamente.
La scelta di un sapore “agrodolce” si potrebbe accostare ad un forzato ottimistico compiacimento, a dispetto di una, sia pur sopita, sensazione di insoddisfazione, affinché la scotomizzazione di alcuni degli aspetti tra i meno favorevoli faciliti la creatività.
L’attrattiva per il sapore “dolce” denuncia il convinto bisogno di sapersi accontentare di quanto viene offerto, senza accaparrare eccessive pretese. Una certa nostalgia riemerge di tanto in tanto sotto forma di espressioni affettuose che mitigano la difficoltà di procrastinare le gratificazioni.
L’incapacità di resistere ai dolciumi, considerati quale naturale completamento del pasto costituisce la principale ragione dei fallimenti in numerosi e ripetuti tentativi di dimagrimento impostati sulla drastica diminuzione nell’apporto di carboidrati, diete cioè “carbofobiche“, come le definisce Michael Gregor (citato da Jeffrey Moussaieff Masson, autore di “Chi c’è nel tuo piatto? Tutta la verità su quello che mangi“, Cairo, Milano 2009). Ciò accade sostanzialmente perché non ci si accorge che, relativamente alle calorie introdotte, i dolci, a fronte di un’alta appetibilità, oppongono una sazietà bassissima. L’appetibilità dei dolci è alta proprio per il gusto tipico, e nostalgico del latte materno, che possiedono; la sazietà è bassa invece proprio per la dipendenza che si instaura nei confronti di questo gusto. La panna, ad esempio, se non fosse zuccherata, si dimostrerebbe molto saziante ed altrettanto appetibile. Succede invece che la panna dei dolci viene ulteriormente addolcita, con il risultato di un abbassamento notevole del grado di sazietà, ed un ulteriore innalzamento dell’appetibilità.
Ad andare demonizzato dovrebbe essere innanzitutto questo zucchero “aggiunto”, il saccarosio, il dolcificante, ecc. Chi è stato correttamente educato al gusto del dolce, per costituzione, cultura, o forse semplicemente buon senso, nel dimostrare apertamente un maggiore equilibrio nella propria alimentazione, riuscirà ad evitare spiacevoli fenomeni di “dipendenza”, raggiungendo un’adeguata sensazione di sazietà senza dover rinunciare del tutto all’appetibilità, tant’è che, fra due ricette di uno stesso dolce, tenderà naturalmente a manifestare la sua preferenza per quella che si dimostrerà più leale nei confronti del suo palato, senza quindi farsi propinare troppo zucchero aggiunto, né altri dolcificanti.
Bisogna, inoltre, tener presente che il gusto del dolce è come se “resettasse” la sensazione dell’appetito. Gran parte dei meccanismi che ci fanno sentire sazi, dopo la somministrazione del gusto dolce, verrebbero, almeno in parte, quasi “azzerati”. Se si è golosi di dolci, anche dopo aver introdotto un sufficiente quantitativo di calorie, si lascia sempre un po’ di “spazio” per il dessert. Un’eventuale sostituzione dello zucchero con dolcificanti ipocalorici, non solo andrebbe considerata banale, ma, alla fin fine, si rivelerebbe inconcludente ed ingiustificata, soprattutto perché non elimina la “causa” principale, la “dipendenza dal dolce”. E comunque concludere il pasto con un dessert e come se si “spiazzasse” la sensazione di sazietà, predisponendo l’organismo ad avvertire di lì a poco un innaturale appetito.
Se, del tutto spontaneamente, ci si sente attratti da: bibite (anche di quelle solo dolcificate, invece di accontentarsi della normale acqua), yogurt alla frutta (piuttosto che da quello bianco, e da quello addolcito piuttosto che dallo yogurt naturale), cereali per la prima colazione dolcificati), nonché pure marmellate sature di zucchero, beh, allora si potrà facilmente dedurre l’enorme difficoltà di intraprendere una qualsiasi “dieta”, senza che venga accompagnata da un preoccupante, sia pure inconsapevole, “vissuto” punitivo, proprio perché questa accertata “glucofilia” sarebbe estremamente incompatibile con qualsiasi regime restrittivo “carbofobico”.
Giuseppe M. S. Ierace
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