Umberto Pasti, in “Giardini e No” (Bompiani, Milano 2010), racconta di come l’arredatrice Elsie de Woolf (Lady Mendl), giungendo per la prima volta davanti al Partenone, esclamasse: “Beige! Just my colour!”. Beige sarebbe quel colore naturale che avrebbero i tessuti qualora non ricevessero alcuna colorazione artificiale, quello del filato grezzo cioè, in origine probabilmente bigio, cinereo, cupo, triste, per nulla appariscente, anzi facilmente mimetizzabile, come si dice dei gatti al buio, ne “Il paese dei campanelli”. Anche l’ecru, sfumatura di giallo tendente al grigio pallido, molto simile alla varietà “pastello” del marrone, indica etimologicamente un qualcosa di grezzo non candeggiato.
Ocra è la tonalità che varia dal giallo oro al rosso. Il color “rame” tende al rosso, come il “mogano”, appunto, peculiare di quel legno, mentre il tono “ruggine” è un rossiccio più bruno. Cachi deriva dal persiano Khak, che significa polvere; il cachi chiaro è la gradazione “catrame”. A richiamare il terreno durante la rotazione delle colture è il “fallow” (terra a maggese). “Tronco” indica la vecchia rappresentazione dell’albero; mentre “grano” è precipuo del frumento. Bistro è quella varietà cromatica giallo bruno della fuliggine stemperata, molto usata sia dal Guercino che da Rembrandt. Il “bruno Van Dyck”, impiegato dal ritrattista fiammingo, è più antico, intenso, profondo, scurissimo, tende al nerastro. “Terra d’ombra” appartiene alla categoria dei bruni, come il bruno di Marte o l’asfalto; se “bruciata” vira al rossiccio brunito; “terra di Cassel” è il cosiddetto “nero avorio” (nero di Colonia o nero di velluto) della terra naturale calcinata; “terra d’Umbria” ha una tonalità molto più rossa; “terra di Siena” invece è un marrone chiarissimo. “Testa di moro” denota la tinta scura caratteristica della pelle trattata. “Borgogna” una sfumatura di porpora, mentre il bordeaux possiede una tonalità scura di rosso. “Russet” è il rossastro tipico di una particolare varietà di patate.
Già da sola la gradazione talpa può andare dal pallido al medio, dal rosa al malva (a sua volta pure “pallido” o “malva talpa”), e dalla sabbia al porpora o al grigio. “Camoscio” è una gradazione molto chiara ai confini del giallo, come il pelo dei bufali. Il “fegato” si riscontra in alcuni manti di cani e di cavalli. Il “foca” designa la tonalità profonda e scura del manto del pinnipede. “Seppia” invece una variazione sul grigio, analogo al pigmento che fuoriesce dalla sacca d’inchiostro del cefalopode marino.
Le tonalità che la moda attribuisce al marrone sono avana chiaro, fulvo, lionato, nocciola, tortora, baio; avana chiaro, dal colore del sigaro cubano, il cui tabacco è bruno nocciola; fulvo si dice di un giallo rossiccio, quale il mantello del leone (lionato); nocciola è una sfumatura di marrone chiaro che ricorda quella del guscio del frutto maturo del nocciolo; tortora è il piumaggio castano dell’uccello dell’ordine dei colombi; baio è quel rosso cupo proprio del manto dei cavalli. Castano scuro e bruno rossiccio si definiscono tanè per via della concia delle pelli eseguita grazie alla corteccia dell’ontano (alnetànus).
Il marrone non sembra un colore netto, deciso, tanto che si potrebbe considerare come il colore dell’invisibilità e del mimetismo, perché si confonde con la terra, e per ciò stesso indica concretezza, riservatezza, discrezione. Marrone era il mantello ampio e avvolgente che rendeva invisibile Sigfrido. Coprire qualcuno con il proprio manto equivale a proteggere od a conferire potere. Eliseo eredita il manto di Elia, in segno di continuità nella missione profetica.
Il color castano appare come il colore del tempo, perché dà l’annuncio dell’autunno, ma anche quello della transizione tra la stagione fredda e la primavera, periodi in cui il sole tramonta più ad occidente. Castagno è il colore del suo frutto, nonché della sobrietà che nega ogni ostentazione. Colore terreno, grezzo, ruvido, è quello del saio monacale col significato della povertà, calma, trasformazione ascetica, fuga eremitica dalle tentazioni, rito spirituale monastico, donazione di se stessi. San Martino divide il suo mantello, confermando il marrone come colore della generosità. Questa spiccata “magnanimità” metaforica viene confermata, in ambito precipuamente cromatico, e riscontrata nella percezione degli abbinamenti e delle sovrapposizioni di colori: quello accostato, o aggiunto, che sia il nero, il blu, oppure il verde o il grigio, avrà modo di emergere, valorizzato com’è dall’umiltà di questo modesto bigio che si mantiene sempre in secondo piano.
Il bruno nocciola evoca pazienza, prudenza, previdenza, come pure oculatezza, riflessione, sicurezza. L’indecisione di fronte a colori più azzardati, indurrebbe a ripiegare le scelte definitive sui toni bruni. Tale incertezza nei confronti dei primi verrebbe ricomposta dalla rassicurazione da parte dei secondi, che non lascia spazio ad eventuali pentimenti.
“Basta aprire un armadio, dal più ricco al più modesto, ed ecco il nostro colore affacciarsi in tutte le sue gradazioni: dalla gamma dei bruciati, al castano, cammello, al beige, ai sabbia, caffè, caffelatte, cioccolato, tabacco, legno… “. In “Colori, simboli, storia, corrispondenze” (Marsilio, Venezia 2009), Luciana Boccardi aggiunge : “Marrone – superfluo ricordarlo – è il colore degli escrementi di bestie e di umani: ma anche qui la funzione di prezioso recupero con la destinazione a concime che rafforzerà e rinvigorirà la terra e le messi, conferma per questo colore declinazioni di assoluta, inconfondibile concretezza”.
Questo colore assume il significato simbolico dell’albero a collegamento della terra al cielo, del concime e dei frutti, della morte e della rinascita: con le radici scava in profondità e si stringe fortemente alla realtà; con il tronco si struttura solidamente, si conserva e resiste indifferente al vento; con i rami si protende verso l’alto in un anelito di trascendenza.
“Dalla gradazione più profonda che associa il marrone alla terra e quindi a tutta la simbologia legata a questo elemento: la capacità di nutrire i semi, conservarli durante la stagione fredda, farli germogliare, insomma la continuità della vita, il marrone ci porta lungo una serie di sfumature e gradazioni diverse sui sentieri cromatici che compongono il suo spessore. – spiega Luciana Boccardi, sempre in “Colori, simboli, storia, corrispondenze” (Marsilio, Venezia 2009) – Dai toni del bruciato che annunciano le caratteristiche psicologiche della forza, della passione controllata, della sensualità compressa, approdano alle sfumature chiare, ai colori, sabbia e cammello, legati all’immagine del deserto che costituisce uno dei paesaggi più significativi della serie marrone: quello della duplicità.”
Il colore della sabbia è la più tenue tra le sfumature del marrone, il color cammello deriva dal manto di quegli animali prudenti e parsimoniosi che si mimetizzano nel deserto.
Ebbene, il deserto sembra la negazione del giardino, rimandando all’indifferenziazione originaria, come pure a quell’estensione sterile e superficiale che suole ricoprire la verità. Il giardino ha invece un che di concluso, definito che accoglie, è un’oasi contornata dall’assenza di vegetazione e di vita. In questo senso, forse non può esistere giardino senza un deserto materiale o simbolico che lo delimiti.
Il giardino è come una casa “esigente, difficile. Bisogna imparare a dominarla. – scrive Tomas Espedal in “Camminare” (Ponte alle Grazie, Milano 2009) – Bisogna imparare ad abitarla”. Non c’è casa senza una scorciatoia che vi si diparta. Espedal cita la poesia di Walt Whitman, che conferisce colore ad ogni via: “A piedi e con cuore leggero m’avvio per libera strada/ In piena salute e fiducia, il mondo offertomi innanzi,/ Il lungo sentiero marrone pronto a condurmi ove voglia…” (Canto della Strada).
In “Natura come cura” (Einaudi, Torino 2010), Richard Mabey rileva come in inglese dire “stare in giro” equivalga ad esprimere l’essere aggiornato, inserito nel mondo, pur contenendo una valenza significativa di non allontanarsi da “un luogo protetto naturale e culturale”. Si tratta di un ossimoro : “Cosa rende un ambiente un rifugio, un posto dove vivere?… Ogni casa, anche provvisoria, è un costrutto culturale”.
Henry David Thoreau appuntò nei suoi diari che, nei momenti in cui si sentiva intorpidito e pressante si faceva la necessità di rigenerarsi, indirizzava il suo cammino verso sud-ovest, perché gli sembrava che il futuro stesse da quelle parti, dove “la terra appare più ricca, ancora non esausta”. L’ovest sarebbe la direzione eletta dalla natura per mostrare i suoi portenti. “Lo scorrere delle stagioni è accompagnato dal mutamento e dalla migrazione”. E’ il sole a muoversi in questo senso, uomini ed animali lo seguirebbero per via di un istinto primordiale, “un moto generale della razza”.
Il deserto corrisponde alle esteriorità, quella del corpo, quella del mondo, a dei “percorsi – dice sempre Luciana Boccardi – vissuti ciecamente senza percepire l’essere divino nascosto dietro le apparenze”. Eppure questa terra arida e desolata, “luogo nemico dell’uomo”, mondo inospitale, distante, consente la comunicazione con Dio.
Ma, dove il deserto occulta, il giardino mostra. Per interpretare l’esistente occorre cercare e per cogliere l’essenza dell’essere non ci si può fermare, ma bisogna andare oltre, al di là della sedentarietà ed intraprendere un qualche viaggio, nella realtà o nella fantasia.
“Al centro del viaggio, non individuiamo nient’altro che l’io…. E l’epicentro di questa identità è il corpo… Intorno, il mondo si organizza, dà spettacolo di sé, si mostra e si racconta, ma come i pianeti in gravitazione attorno ad un astro che occupa il centro, come un re. – asserisce Michel Onfray in “Filosofia del Viaggio” (Ponte alle Grazie, Milano 2010) – Evidentemente, non evitiamo la nostra stessa compagnia. Per alcuni, la peggiore. Ciò che l’anima imbarca alla partenza ritrova, decuplicato all’arrivo… Non troviamo guarigione facendo il giro del mondo, al contrario, esacerbiamo i nostri malesseri, scaviamo i nostri abissi. Lungi dall’essere una terapia, il viaggio definisce un’ontologia, un’arte dell’essere, una poetica in sé… L’io non si dissolve nel mondo, lo colora… Il reale non esiste in sé, in maniera assoluta, ma solo in quanto percepito”.
In ogni caso, il viaggio si compie alla ricerca di ciò che non si conosce, del nostro stesso io che ci rimane ignoto.
”Ciò che è nascosto va tolto dalle tenebre dell’invisibile e portato alla luce. – scrive Roberto Peregalli in “La Corazza ricamata” (Bompiani, Milano 2010) – La distanza che separa e tiene unito questo spazio genera la possibilità stessa della conoscenza. E, come tale, è per sua propria essenza ‘tragica’, in quanto presuppone che due mondi incommensurabili, quello del visibile e quello dell’invisibile, entrino in comunicazione tra loro.”
Tragica è la relazione dei mortali con il mondo, poiché fondata su ciò che si vede e quindi su di una verità che non si manifesta, in quanto vi rimane nascosta se non viene svelata. Ciò che è invisibile si percepisce come inganno, maschera, corazza, ostacolo alla conoscenza perché sapere equivale ad aver visto.
Le scintillanti armi, “splendenti più che la vampa del fuoco” (Iliade XVIII, 609), forgiate da Efesto per Achille, su cui era scolpito tutto un universo, avrebbero fatto impazzire il Telamonio ed accecato lo stesso Omero. Il vate voleva ammirarle e perse la vista, acquisendo in cambio saggezza. L’elmo luccicante, i meravigliosi schinieri, lo scudo scolpito, la corazza ricamata si posero così all’origine del pensiero greco e della filosofia della conoscenza. Le armi di Achille, rifiutate ad Aiace, su cui il dio malfermo sulle gambe, ma abile artigiano, avrebbe raffigurato “la terra, il cielo ed il mare, l’infaticabile sole e la luna piena e tutti quanti i segni che incoronano il cielo” (Iliade XVIII, 483-5), rappresentano ciò che si sa del visibile, come ritennero Erodoto, Ippocrate od i presocratici, quella verità cioè da svelare in ciò che in realtà è già manifesto.
La storia greca ci racconta anche di un arcaico sapere legato alle tragedie ed ai misteri, come ai miti, quale quello delle Sirene, ad esempio, o della Sfinge, della Gorgone, di Orfeo, di Zas, di Dioniso, di Narciso, oppure di Tiresia, di Demodoco, o di Edipo, in cui si ripresenta il tema dell’enigma e quello della cecità, proposto dalla leggenda sulla vita di Omero, o di Democrito.
Che si tratti di un’evidenza che nasconde, di una superficie che copre, di un inganno apparente, di una realtà invisibile, di una verità incredibile?
In lingua greca il significato di “invisibile” viene fornito da termini differenti: àdelon, aphanés, aòraton, aidés, che sottolineano, quale più quale meno, i rapporti con lo sguardo, la luce, la chiarezza, l’esplicito, la manifestazione, l’evidenza, l’apparire, l’aspetto, la forma, le tenebre, la conoscenza, la concezione, l’idea, la morte. Nel “Cratilo”, Platone, discetta di etimologia: “Quanto ad Aides, i più mi sembra, intendano che con questo nome venga espresso l’invisibile tò aides, ed avendo paura del nome lo chiamano Plutone (403 a)… Invece il nome Aides, o Ermogene, è molto lontano dall’essere denominato dall’invisibile (tou aidoùs), bensì piuttosto dal sapere (eidénai) tutte le cose belle…” (404 b). Platone ricollega l’invisibilità alla conoscenza, al sapere eidénai e quindi al pensiero ed all’ideazione eìdos.
“Felice chi entra nel mondo di sotto terra dopo aver visto quelle cose: conosce la fine della vita, conosce anche il principio dato da Zeus” proclama Pindaro (137). La visione profonda è una visione notturna che rappresenta la possibilità estrema di superare il destino di mortali, vincendone il buio e ricongiungendolo alla luce. Alcmeone infatti riconosceva la causa della precarietà umana giusto nell’incapacità di “unire il principio con la fine”. Questa è una realtà destinata a rimanere sconosciuta al linguaggio perché questi riti sono “belli, santi, non si possono trasgredire, né apprendere, né proferire” (Inno a Demetra 478).
Con la luna calante, di primavera e d’autunno, si svolgevano i mustéria, che vuol dire iniziazioni, da muéo, inizio, proveniente però a sua volta da mùo, che significa chiudere gli occhi, cioè non guardare il visibile per vedere ciò che non è manifesto. La definizione di àrreton, indicibile, rimanda ad una sorta di perplesso ammutolire, mentre invece più semplicemente sembra si trattasse di una cerimonia, quasi banale, durante la quale gli occhi sarebbero dovuti restare chiusi. I reperti archeologici ci mostrano Herakles seduto con la testa completamente velata.
L’iniziazione, allora, avviene nel momento in cui il mùstes si nega alla luce e ricade nella propria oscurità, ed è in quell’istante che si ha accesso alle latebre dell’inconscio. Entrata, “in itia”, traducevano i latini questa mùesis ovvero cecità provvisoria, che conduce ad un’uscita verso nuovi, altri mondi. Perché i misteri sono la raffigurazione di un “viaggio” in cui i luoghi di sempre si vedono con altri occhi: “Felice colui, tra gli uomini viventi sulla terra, che ha visto queste cose!” (Inno a Demetra).
Si vedevano oggetti sacri, immagini di divinità, rappresentazioni simboliche che tutti potevano avere sotto gli occhi o si ammiravano degli invisibili giardini, i “giardini di Adone”?
La “visione” al buio era interiore e mistica, quale simbolizzazione speculativa dell’atto cognitivo supremo. E la prova metteva a rischio sia la vista che la ragione, poiché le cose “terribili a vedersi” potevano accecare e far impazzire. Indicibile è la visione dell’invisibile, indicibile perché terribile, per cui diventa indispensabile chiudere gli occhi. E vedere ad occhi chiusi equivale a conoscere. Ecco l’insolubile enigma!
Quale conoscenza atterrisce? Quale parola si proferisce nel silenzio? Quale colore ci appare ad occhi chiusi?
Sembra che i “non vedenti” sognino nella stessa maniera di tutti quanti gli altri. I contenuti visuali onirici comprendono altrettanti paesaggi naturali, figure in movimento, soggetti colorati, rivelando un immaginario del tutto analogo. La possibilità di visualizzare scene mai osservate sarebbe sovrapponibile, sia per via di un’integrazione degli elementi dell’esperienza quotidiana a livello della corteccia visiva, sia grazie ad una sorta di “banca dati” specie specifica confermata dalle ricerche sui sogni in età fetale, quando si è ancora racchiusi nel grembo materno.
Poi , v’è la “cromatopsia fantasma”, descritta da Semir Zeki nel 1993 (“A vision of the Brain”), consistente nella possibilità, da parte di non vedenti, di “percepire” dei colori, quali il giallo oro ed il viola, che espandendosi occupano per intero il loro campo visivo. Ad essere implicata in questa sindrome sarebbe l’area cerebrale “V4 Complex”, specializzata nella percezione cromatica, la cui compromissione produce un’acromatopsia. In assenza di stimoli esterni appare possibile indurre la percezione di colori inesistenti in quelle particolari “sottoaree” autonomamente deputate ad uno specifico colore, quale può essere il viola. Se ne deduce come i colori non si trovino se non quale esito della percezione di caratteristiche fisiche del mondo esterno altrimenti inconoscibili.
A consentire a tutti di scambiare opinioni sulla realtà, sui sogni, sull’immaginario non può essere che il linguaggio. In proposito, Wittgenstein asseriva che “un cieco può dire che è cieco e che le persone intorno a lui vedono”, senza per questo intendere, con le definizioni di “cieco” e “vedente”, cose diverse da quelle intese da chi vede. Eppure, il linguaggio può sì essere un surrogato dell’esperienza concreta, come apparire privo di senso compiuto o configurarsi un’astrazione. Del resto nel pronunciare il termine viola non per questo compare il colore corrispondente!
Una tinta, il viola, espressione, comunque, dell’immaginario, della fantasia, del sogno, della magia, dell’occultismo, del misticismo esoterico.
Il colore dell’iniziazione, come del viaggio, è il bianco, legato al candore, all’innocenza, purezza, semplicità, castità, astinenza, sublimazione dell’Eros. Bianca è la colomba di Venere e dello spirito santo. Dalla metafora dell’astinenza proviene il modo di dire: “andare in bianco”, equivalente ad una pausa d’attività sessuale, un riposo carnale. Il bianco dell’abito da sposa sottolinea la purezza ed il momento di passaggio da un tipo di vita ad un altro, un’iniziazione ed un viaggio. Il velo trasparente, indossato davanti al volto, contrassegna la divisione tra l’innocenza della fanciullezza lasciata e la dimensione carnale della sessualità nuda e cruda.
Il bianco è un preludio al cambiamento, una condizione di transizione, quale quella dei rituali di passaggio di memoria etnografica. Candidati (da “candidi”) sono coloro che si propongono per una missione, la missione politica.
Nel cristianesimo è trascendenza, grazia ed illuminazione. Un abbagliante biancore aiuta a sfuggire agli attacchi passionali. L’acqua chiara è acqua cristallina.
Nell’alimentazione il bianco trasferisce elementi contraddittori, evidenziati dalla definizione : “mangiare in bianco”; l’aspetto positivo di ciò che è genuino, digestivo, disintossicante, equilibrato, terapeutico, ma pure quello negativo della deficienza, dell’appiattimento del sapore, della dieta priva di spezie ed intingoli, della cucina insipida.
Ancora, a dar gusto ed a render sapida una pietanza basta un po’ di sale, impiegato come conservante e simbolo d’intelletto: “Cum grano salis”. Il candore del sale diviene simbolo d’ospitalità, offerto assieme al pane. Elemento della sacralità del pasto religioso, indispensabile a tavola, anche il pane può essere bianco, se di farina di grano. Lo zucchero equivale a dolcezza. Una “caduta di zuccheri” procura obnubilamento, distrazione, confusione, abbandono dell’intelligenza. Il lindore del riso è abbondanza in funzione propiziatoria.
Il nitore lunare sarebbe all’origine dell’impatto dello spirito con la materia, qualificando ciò che è influenzabile, instabile, transitorio, e quindi l’immaginazione, la ricettività, la femminilità. Ed in effetti, la luna denota chimere, capricci e viaggi.
Il bianco potrebbe risultare il colore più impegnativo di tutti quanti gli altri, perché, come affermava Stendhal, “basterebbe solo una macchiolina per far cadere tutte le sicurezze costruite sull’abito impeccabile che apparirebbe impietosamente sciatto”.
Bianco è il colore della sospensione, dell’attesa, dei fantasmi nell’immaginario occulto, come le guance livide dei vampiri, dei fantasmi, degli spettri, delle apparizioni provenienti dall’oltretomba, come privazione dell’esistenza, come di tutto quanto si oppone alla vita. La simbologia positiva del bianco è quella della pulizia, dell’innocenza, dell’ingenuità, della beatitudine, ma in negativo acquista il significato di ignavia, accidia, vigliaccheria, sconfitta, opportunismo, avidità.
“Relegato nel limbo delle tinte non primarie né secondarie, catalogato tra i ‘non colori’, il bianco ha contrassegnato da sempre immagini caste, situazioni esaminate come testimonianze di fiducia, collocate in contesti etici e di costume che in parte sopravvivono ancora oggi. – sostiene Luciana Boccardi in “Colori, simboli, storia, corrispondenze” (Marsilio, Venezia 2009) – Il fatto stesso che il bianco sia il prodotto visivo della velocità con la quale viaggiano tutti i colori assieme, legato all’assenza di tutti i colori ma contemporaneamente alla somma degli stessi, può averne favorito nell’immaginario collettivo lo status simbolico di ‘non colore’”.
Max Lüscher suggeriva: ad ognuno il suo colore, ma si potrebbe completare quell’assioma, dicendo: ad ognuno un colore, un “non colore” oppure un mezzo colore?
Nel nostro vissuto esistono i mezzi colori, ma non per questo sono meno importanti: i tanti grigi, beige, nocciola, lillà, pervinca, mauve… Il mezzo colore è ancora più debole dei cosiddetti non colori bianco e nero, anzi è come una mezza verità, dice e non dice. Un’affermazione che non chiarisce lascia dei sottintesi, ma, come disse Martin Luther King, citato da Jonathan Safran Foer in “Se niente importa” (Guanda, Parma 2010), “prima o poi arriva l’ora in cui bisogna prendere una posizione che non è né sicura, né conveniente, né popolare”. A volte, però, stabilire se siano più determinanti le somiglianze o le differenze richiede un travaglio psicologico non comune.
A qualificarsi decisamente sono i colori storici: rosso, verde, giallo, blu, viola. Alcuni di questi colori hanno acquisito determinati significati che li contraddistinguono nettamente. Il giallo indica allarme, pericolo, divieto; il blu viene abbinato al sentimento, all’umore, alla nostalgia, alla malinconia; il viola è dichiaratamente tabù… Altri colori sono entrati nel linguaggio parlato con valenza semantica di modi di dire: “vedere rosso”, “arrossire per la vergogna”, “diventare verde per la rabbia”, “restare al verde”, ma in quest’ambito il non colore la fa da padrone e ritorna con “andare in bianco”, “mangiare in bianco”, “di punto in bianco”…
Umberto Pasti, in “Giardini e No” (Bompiani, Milano 2010), riferisce di essere stato apostrofato con la drastica affermazione: “I colori sono così stancanti, così volgari…” e di essersi quindi ricordato della realizzazione, a Sissinghurst, negli anni venti del secolo scorso, di un giardino interamente bianco da parte di Vita Sackville-West. “Grandissima giardiniera, la Sackville-West decise di consacrare un piccolo spazio della sua proprietà unicamente a piante dalla fioritura bianca. Ma quella cameretta candida ha senso, e bellezza, e biancore, proprio perché è circondata da un giardino ricco come pochi altri di specie, di colori, che per contrasto le danno risalto. A causa di una moda analoga a quella che impone alle cosiddette ‘signore’ di vestirsi, la sera, di nero, da qualche anno il giardino ‘chic’ è bianco, o tutt’al più bianco con qualche tocco di azzurro. Probabilmente dietro questa scelta c’è la paura, la stessa paura di fare un errore – un errore di gusto – che impone alla signora il tubino nero. Se si pensa in termini di ‘gusto’ (e si considera il gusto ‘buono’ o ‘cattivo’, invece che espressione individuale di una personalità) dev’essere difficile mescolare il viola al porpora, l’azzurro al giallo ed al cedro, il celadon al carminio. Meglio non rischiare… La storia del giardino riflette quella dell’uomo che lo crea e lo coltiva. Mai come oggi, per colpa dell’irrealtà nella quale siamo precipitati, l’uomo si è avvicinato ad essere un fantasma senza bisogni (se non indotti), senza appetiti né desideri.”
Il bianco è nitore, integrità, pulizia, eppure opportunismo, ambiguità, ipocrisia, egoismo, incomunicabilità, necessità di nascondere.
L’effetto ottico ottenuto da Newton, facendo girare vorticosamente la ruota dei colori di lunghezza d’onda diversa, rappresenta una pausa di luce assoluta. Kandinskij sosteneva si trattasse di “una sorta di silenzio che potrebbe essere compreso”. Ma l’assenza dei colori dell’iride potrebbe anche rivelarsi molto ansiogena, procurando un insopportabile senso di insicurezza. Si tratta di un qualcosa che appare incontrollabile e rigido, mentre la duttilità dei colori varia di per se stessa, a seconda delle circostanze, ed il loro statuto mobile ci accompagna nel nostro procedere quotidiano, pur rispettandone il carattere e le prerogative di base.
Giuseppe M. S. IERACE
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,, ,, : “Nero come il sesso e la morte”, su “Kemi-Hathor”, XXIV, 118, pp 61-71, marzo 2005
,, ,, : “Contro le immagini…”, su www.nienteansia.it
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