Dromomania e Pulsione viatoria – filosofia del viaggio e del camminare – I Miti del nostro tempo – “Solvitur ambulando” – natura come cura

“La casa dell’anima non è in paradiso, è nella strada aperta, né fuori né dentro. L’anima è un viandante lungo una strada aperta. Non è nella meditazione, o nel digiuno, o nell’esplorazione di un paradiso dopo l’altro (alla maniera dei grandi mistici) o nell’esaltazione, nell’estasi che l’anima può ritrovare se stessa. L’unica cosa da farsi è mettersi liberamente in cammino. Non è neppure con la carità, col sacrificio, con l’amore, con le buone azioni che l’anima può giungere a perfezione: è solo con un viaggio per una strada aperta. Il viaggiare per una strada aperta, esposti ad ogni contatto, incontrando chiunque venga per via, accompagnandosi a coloro che sono sospinti nello stesso senso, senza scopo, su due lenti piedi, per la strada aperta…” (D. H. Lawrence)
In “Mad Travellers. Reflexions on the Reality of Transient Mental Illness” (1998), Ian Hacking ha posto a confronto le conoscenze di psicologi e psichiatri con il comportamento degli individui etichettati “malati di mente”, interessandosi innanzitutto dello “strano caso” di Albert Dadas, giovanissimo impiegato presso la compagnia del gas di Bordeaux, che improvvisamente, e senza alcun apparente motivo, abbandona il lavoro, scappa di casa e rompe la sua quotidiana routine per intraprendere un lunghissimo viaggio, il cui itinerario lo condurrà dalle sponde dell’Algeria a Costantinopoli, e poi nel cuore della Russia, a Mosca.
Camminava a piedi, Albert Dadas, in maniera ossessiva, in totale straniamento da tutto e da tutti, mantenendo delle tappe prefissate in settanta chilometri al giorno. Privo di consapevolezza del suo daffare, delle motivazioni che lo sollecitavano ad andare e della sua stessa identità, completamente ed esclusivamente concentrato sulla meta giornaliera da raggiungere. Trovato senza documenti, venne recluso con l’accusa di vagabondaggio, per poi essere estradato in patria. Interrogato, non riuscì a dare alcuna spiegazione dell’accaduto, dimostrando persino di non avere la minima idea di dove era stato. Ricoverato a Bordeaux e sottoposto ad ipnosi, poté rivivere però ogni tappa del suo peregrinare nel reparto del dr. Pitres, dove Philippe-Auguste Tissié era in procinto di preparare la sua tesi di laurea, che si decise venisse incentrata minuziosamente su questo caso singolare, per essere pubblicata nel 1887 con il titolo: “Les aliénés voyageurs”. L’accurata descrizione consente quindi anche ad altri psichiatri di riconoscere situazioni simili, di osservarne le analogie più o meno reali, di ipotizzarne l’etiologia, allo scopo di approntarne un adeguato trattamento.
Il grande intuito clinico di Charcot predispone molto pragmaticamente una diagnostica differenziale improntata sul criterio “ex-adiuvantibus”, per cui, se ai fini terapeutici si rivela utile la cura anticonvulsiva, a base di bromuro di potassio, si presumerà una “crisi epilettica”, altrimenti, in caso di condizione ipnotizzabile, la psicopatologia verrà orientata sul fenomeno “isterico”, che nell’Europa della fine dell’800 ed il primo 900 addirittura spopolava.
“E’ scomparsa una malattia, o è scomparsa semplicemente una definizione psichiatrica?”. Per Umberto Galimberti, autore de “I Miti del nostro tempo” (Feltrinelli, Milano 2009), la storia di Albert Dadas è un’ulteriore conferma, se ce ne fosse ancora bisogno, di quanto la psichiatria debba mantenere elevate attenzione e sensibilità per le trasformazioni sociali. “Ma per questo occorre una cultura umanistica, perché è difficilmente contestabile il fatto che non è possibile curare la mente, che è l’organo che sintetizza cultura, prescindendo dalla cultura che è il lavoro della mente”.

Dimesso dall’ospedale, Albert Dadas si rimette in viaggio, ripetendo più volte le stesse esperienze di “fuga”, reclusione, ricovero. “Non sappiamo che fine abbia fatto. – scrive Umberto Galimberti, in “I Miti del nostro tempo” (Feltrinelli, Milano 2009) – Disponiamo di due sue fotografie: una da sveglio ed una in ipnosi, delle carte geografiche con l’itinerario dei suoi viaggi, e nulla più. In fondo per la psichiatria (dell’epoca?) non era un ‘uomo’, ma solo un ‘caso’. Si sa che sua moglie morì giovane di tubercolosi e che sua figlia, nel tentativo di ottenere un posto di lavoro come sarta, fu violentata ed indotta alla prostituzione”.
La sindrome della “follia escursionistica” viene inseguita per decenni dagli psichiatri, ed esportata con successo, ma solo nel vecchio continente; tenderà ad estinguersi, quasi per inerzia, all’inizio degli anni venti del secolo scorso.
All’epoca, evidenzia Ian Hacking, il turismo di massa, così come lo conosciamo oggi, era ancora di là da venire. Solo le classi agiate si potevano permettere delle rinfrescanti villeggiature o dei “tours” romantici. Il girovagare dei meno abbienti poteva inquadrarsi, qualche volta, se presente un substrato religioso, come “pellegrinaggio”, più spesso invece veniva etichettato sommariamente come un vagabondare dai risvolti, se non di vera e propria criminalità, quanto meno di accattonaggio. Tutti coloro i quali non potevano affrontare le spese di una vacanza, non appartenendo ai ceti più alti, né potevano farsi nomadi, e neppure osavano trasgredire, per via di quel profondo attaccamento alle convenzioni sociali che caratterizza la classe media, si rifugiavano anacronisticamente nella “fuga”, una partenza che si rivelava incomprensibile e pertanto patologica.
“Tassonomia medica (isteria ed epilessia), polarità culturale (il viaggio dei ricchi e quello criminale dei poveri), osservabilità (più accentuata sulle classi medie che su quelle agiate) ed evasione (da uno stile di vita che non concede deroghe) compongono quella che Ian Hacking definisce ‘nicchia ecologica’… – conclude Umberto Galimberti – Il criterio della ‘nicchia ecologica’, che Ian Hacking prudentemente limita alle malattie ‘transitorie’, potrebbe forse essere esteso a malattie ora considerate ‘non transitorie’, come il disturbo dissociativo dell’identità, come oggi si chiama la personalità multipla (dove viene da chiedersi se in questa diagnosi rientrino anche quelli che oggi cambiano sesso), l’anoressia (dove i fattori culturali diffusi dai media sembrano avere una significativa incidenza), il gruppo delle schizofrenie, che già nel nome affastella una quantità tale di sintomi da rendere la classificazione poco credibile, ed infine la depressione…”.
Alain Ehrenberg, in “La fatigue d’être soi. Dépression et société” (1998), evidenzia l’attuale caratterizzazione del disturbo dell’umore, che nella nostra civiltà dell’efficienza, risulta dominato dal senso d’inadeguatezza per ciò che si potrebbe fare e non si riesce a fare, e non più dal senso di colpa, come avveniva fino a poco meno di mezzo secolo fa, all’epoca in cui era in auge, nella società occidentale, una più ferrea disciplina. Lapidaria suona perciò l’affermazione di Ludwig Wittgenstein: “Es bestehen nämlich, in der Psychologie, experimentelle Methoden und Begriffsverwirrung” (nella psicologia ci sono tanti metodi sperimentali per altrettanta confusione concettuale”)!

Non avere una fissa dimora, a quel tempo, non era considerato cosmopolitismo, ma vagabondaggio; l’essere esuli e nomadi si poteva inquadrare in una degenerazione della mente prossima alle tendenze criminali di lombrosiana memoria. La leva obbligatoria poi, che nel meridione d’Italia aveva contribuito ad incrementare il brigantaggio, altrove, attraverso il serrato controllo dei documenti di riconoscimento inchiodava i giovani maschi a quelle che sarebbero dovute essere le loro responsabilità.
“L’assenza di dimora, di terra, di suolo presuppone, a monte, un gesto fuori posto, una pena arrecata a Dio. Da secoli, questo schema impregna l’anima degli uomini: gli ebrei, gli zigani, i romani?el, i gitani, i boemi, gli zingari e tutti i popoli viaggiatori sanno che tutti noi, un giorno o l’altro, li abbiamo voluti costringere alla sedentarietà, quando non abbiamo negato loro il diritto di esistere. Il viaggiatore non piace al Dio dei cristiani, ed indispone allo stesso modo i principi, i re, i potenti desiderosi di realizzare la comunità, da cui fuggono sempre i vagabondi impenitenti, asociali ed inaccessibili ai gruppi radicati… – scrive Michel Onfray in “Filosofia del Viaggio” (Ponte alle Grazie, Milano 2010) – Viaggiare presuppone quindi il rifiuto di utilizzare il tempo lavorativo della civiltà a vantaggio del piacere inventivo e gioioso. L’arte del viaggio induce un’etica ludica, una dichiarazione di guerra alla quadrettatura ed al cronometraggio dell’esistenza. La città obbliga alla sedentarietà leggibile grazie ad un’ascissa spaziale ed ad un’ordinata temporale: essere sempre in un luogo determinato, in un momento preciso… Partire, seguire le orme dei pastori, significa sperimentare un genere di panteismo estremamente pagano e ritrovare la traccia di antiche divinità (divinità dei crocevia e della fortuna, del fato e dell’ebbrezza, della fecondità e della gioia, divinità delle strade e della comunicazione, della natura e della fatalità) e tagliare i ponti con le pastoie e le servitù della vita moderna.”
Indubbiamente, la libertà è esigenza tipicamente umana, un’aspirazione che spesso si coniuga nella volontà di cambiare, nel desiderio di viaggiare, anche qualora ciò dovesse significare rompere con i legami familiari  e contrapporsi agli schemi della società. Si addita Odisseo come antesignano di questo modello, sia pur giustificato dalla persecuzione di Poseidone.
In quel periodo, della fine del XIX secolo, sembra ci fosse quasi un’epidemia di “anancasmo a camminare”, divenuta ben presto molto diffusa in Francia, per poi contagiare altri paesi, come la Germania e l’Italia, cosicché la denominazione che assunse questa sindrome fu dapprima un raffinato latinismo d’oltralpe che risentiva delle influenze di De Clérambault, “Automatisme ambulatoire”, per tradursi in tedesco in un termine proto-psicoanalitico, “Wandertrieb” (pulsione migratoria), ed approdare al grecismo più consono alla tradizione medica italiana di poriomania o dromomania.

Questa “nevrosi” da vagabondaggio si poteva esprimere sia come incoercibile necessità di allontanamento dalla propria dimora abituale, sia come insopprimibile tendenza a girovagare da una località ad un’altra. Non si tratta di gironzolare o bighellonare, come dicono gli inglesi: “stroll about”, e neppure di quello “stare in giro”, a cui Richard Mabey, in “Natura come cura” (Einaudi, Torino 2010), attribuisce il significato di essere aggiornato, inserito nel mondo, con il risvolto terapeutico del trattamento peripatetico avvalorato dalla prescrizione latina “solvitur ambulando”, quale rimedio per ogni male. Cosicché per guadagnare finalità taumaturgiche poteva essere bastevole effettuare quei viaggi a piedi tipici dei pellegrinaggi medievali che ai luoghi della meraviglia univano la ricerca del miracolo della guarigione, il quale comunque cominciava a rivelarsi già lungo il percorso dietro la spinta della forte volontà di averlo intrapreso.
“Walk about”, che letteralmente vuol dire “andare in giro”, in Australia, designa una particolare forma di allontanamento, dalle rilevanze tradizionali di tipo iniziatico, tali da meritare attente osservazioni etno-antropologiche. Il prof. Goffredo Bartocci in un suo saggio sugli “Elementi di valore terapeutico nelle psicoterapie transculturali” (in “Il processo terapeutico in psicoterapia”, a cura di Lalli N., Cavaggioni G., Fiori Nastro P., Roma  1994), così descrive il fenomeno che si verifica tra le popolazioni aborigene: “Un uomo, un giorno qualsiasi, può raccogliere i suoi pochi strumenti di sopravvivenza e andare. Si incammina verso gli spazi sconfinati che circondano tutt’intorno il suo villaggio, sicuro della sua conoscenza e capacità di procurarsi mezzi di sostentamento, e sicuro di possedere una sua forza personale, del tutto indipendente da illusioni, di essere protetto da enti benevoli esterni o da prospettive di entrare in contatto con divinità. All’Aborigeno è concesso di non dare alcuna motivazione al suo andare, né alcuno mai domanderà quando il suo ritorno. Tutti i legami strettissimi che lo legano alla tribù da cui di fatto dipende come identità tribale inscindibile da quella personale, vengono sciolti sulla scorta di una esigenza personale. A volte l’Aborigeno motiva l’andare con ‘mi chiamano’ e parte alla volta di altre comunità dove sono presenti dei consanguinei che necessitano della sua presenza, altre volte nemmeno una parola. A volte l’andare corrisponde ad un concentrarsi sul mondo delle intenzioni; un andare per attivare le sue intenzioni, per ‘cantare’ la donna amata o raccogliere il suo Dreamtime”.
Il protagonista del “walk about” dimostra di essere consapevole di ciò che fa e per cui si sente votato, al contrario del “dissociato” che recupera ricordi e fors’anche le motivazioni del suo viaggio solo se sottoposto ad ipnosi. Amnesia, perdita di identità, mancanza di scopo appartengono all’affaccendamento, relativamente afinalistico, della “fuga”, mentre un vissuto verso il quale si nutre un religioso rispetto, condiviso dai membri del proprio gruppo, caratterizza il ritmo e le esigenze di quel mondo interiore che si esprime nella singolare mitologia del Dreamtime.
In una cultura che non condivide una determinata manifestazione comportamentale, il soggetto non in grado di assumersene la responsabilità o di reprimerne l’impulso, deve necessariamente fare ricorso ad un meccanismo di tipo “dissociativo”, procurato dall’emergere di una dinamica intrinseca ad una situazione fortemente conflittuale, sia in termini intrapsichici che interpersonali, sui quali ultimi influiscono i fattori culturali, ma il cui impatto per il singolo può rivelarsi devastante proprio per l’impossibilità di trovare una soluzione accettabile e condivisa.

La cultura statunitense conoscerà il fenomeno della “fuga”, etichettandola patologica in termini completamente diversi, per cui sarà necessario coniare un altro neologismo: drapetomania. Samuel Cartwright (1793-1863) bollerà in questo modo quegli schiavi di colore, di origine africana, che, non rassegnati alle imposizioni ed alle violenze, tendono a fuggire ripetutamente dalle piantagioni. La struttura culturale americana si occupava con preoccupazione, per le evidenti ricadute economiche, delle fughe reiterate degli schiavi, e molto meno dell’impulso all’escursionismo ed all’esplorazione, che aveva caratterizzato la nascita della nazione, e che continuava ad essere valorizzato anche attraverso il fascino mitico del Far West.
Allontanarsi volontariamente e far perdere le proprie tracce, per i bianchi, non era insolito, come persino poteva essere considerato normale cambiare identità, sempre però che non si sconfinasse apertamente nella patologia delle “personalità multiple”.
In Francia, come in Germania ed in Italia, la civiltà si è maggiormente incentrata sulla storia individuale di ogni personalità e su di un rapporto molto più stretto con il territorio e con il modo di abitarlo.
A sintetizzare questo aspetto qualificante della cultura europea il prof. Giuseppe Scaraffia, in ”Torri d’Avorio” (Excelsior 1881, Milano 2010), cita l’invito del simbolista Georges Rodenbach (1855-1898): “Sii te stesso, restando chiuso nella tua casa!”, invito complementare alla massima armena, ricordata da Marc Alain in “Essere se stessi, ogni giorno” (Armenia, Milano 2010), che recita: ”Bisogna camminare e pensare, non sedersi e pensare”.
Nell’interrogarsi sul senso del passeggiare, nelle sue “Confessioni”, Jean-Jacques Rousseau metteva in relazione la marcia con l’ideazione: “Non ho mai tanto pensato, tanto vissuto, non sono mai tanto esistito, stato tanto me stesso, se così oso dire, quanto in quei (viaggi) che ho compiuto solo e a piedi. La marcia ha qualcosa che anima e ravviva le mie idee: non posso quasi pensare quando resto fermo; bisogna che il mio corpo sia in moto perché io vi metta il mio spirito. La vista della campagna, il susseguirsi degli aspetti piacevoli, l’aria aperta, il grande appetito, la buona salute che acquisto camminando, la libertà della locanda, la lontananza da tutto quel che mi fa sentire la mia dipendenza, da tutto quel che mi richiama alla mia situazione, tutto ciò libera il mio animo, conferisce più audacia al mio pensiero.”
Nelle “Fantasticherie del passeggiatore solitario” fornisce una spiegazione alle sue annotazioni: “Avendo quindi concepito il progetto di descrivere lo stato abituale della mia anima nella più strana situazione in cui possa trovarsi un mortale, non ho visto modo più semplice e sicuro per attuare questa impresa che tenere un registro fedele delle mie passeggiate solitarie e delle fantasticherie che le accompagnano quando lascio che la mente sia del tutto libera, e che le idee segnino il loro corso senza resistenze né imbarazzi. Queste ore di solitudine e di meditazione sono le sole della giornata in cui io sono pienamente me stesso, dispongo di me senza distrazioni né ostacoli, e posso dire veramente di essere ciò che la natura ha voluto”. Tra il serio ed il faceto Voltaire accoglieva la prescrizione del trattamento peripatetico di Rousseau, con l’invito ad un ritorno alla natura, richiamando quell’animalità sottintesa all’enigma della Sfinge: “Quando si legge la vostra opera, vien voglia di mettersi a quattro zampe”.

L’essenza dell’aforisma “Solvitur ambulando” venne descritta, e non solo in senso filosofico, da Søren Kierkegaard: “Soprattutto, non perdere la voglia di camminare: io, camminando ogni giorno, raggiungo uno stato di benessere e mi lascio alle spalle ogni malanno; i pensieri migliori li ho avuti mentre camminavo, e non conosco pensiero così gravoso da non poter essere lasciato alle spalle con una camminata. Ma stando fermi si arriva sempre più vicini a sentirsi malati… Perciò basta continuare a camminare, e andrà tutto bene”.
Il classico collegamento tra l’atto di camminare e quello di pensare appartiene alla tradizione greca. Socrate dialogava dentro e fuori le mura della città per fermarsi solo di fronte alle riflessioni più profonde ed impegnative. Da “peripatein” (passeggiare) la scuola di Aristotele fu chiamata “peripatetica”, poiché il filosofo insegnava gironzolando sotto i portici (stoa), a cui devono il loro nome gli stoici. Itineranti erano pure le cattedre di retorica dei sofisti.
Quella di camminare si potrebbe considerare la filosofia per eccellenza, visto che furono i filosofi greci a stabilire il primo legame tra cammino e pensiero, rafforzato successivamente da Immanuel Kant, il quale, non trascurava mai la sua quotidiana passeggiata, e sempre puntualmente alle 5 del pomeriggio, tanto che gli abitanti di Könisberg, si dice, regolassero i propri orologi quando lo incontravano. Hegel percorreva con altrettanta regolarità una strada di Heidelberg, divenuta perciò famosa col nome di Philosophenweg. Nietzsche dava la sua preferenza alle idee partorite all’aria aperta.
Bruce Chatwin fece notare che “travel”, il termine inglese per viaggiare, proviene dalla stessa radice del francese “travail”, lavorare, e dell’italiano travaglio, il quale offre il senso della fatica, della doglia, della pena, della preoccupazione.
A metà strada tra filosofia e psicologia del profondo si situa la poesia. Ed anche i poeti scrivevano passeggiando. “Nel mezzo del cammin…” si pone Dante per perdersi. “Solo e pensoso i più deserti campi” andava “misurando a passi tardi e lenti” Petrarca. Poi ci sono i viaggi a piedi di Hölderlin, le fughe di Rimbaud, le passeggiate di Wordsworth…
Tomas Espedal, in “Camminare” (Ponte alle Grazie, Milano 2009), riporta come William Hazlitt riferisce, nel suo saggio “My First Acquaintance with Poets”, di aver imparato a pensare e camminare: “Coleridge mi ha raccontato che preferiva comporre versi camminando su terreni sconnessi e facendosi strada tra i rami appuntiti del bosco ceduo, Wordsworth al contrario scriveva sempre (se possibile) mentre passeggiava per una strada sterrata dritta o in una zona dove lo scorrere libero dei pensieri non incontrava ostacoli nella natura”.

“Indipendentemente dal terreno, – aggiunge  Tomas Espedal (“Camminare”, Ponte alle Grazie, Milano 2009) – i poeti scrivevano mentre camminavano. William Hazlitt faceva le sue passeggiate con i libri di Rousseau nello zaino, prendeva appunti, scriveva saggi, ponendo così le basi per un sottogenere della letteratura di viaggio: la narrazione di viaggi a piedi.” E cita Robert Louis Stevenson che scrisse “Walking Tours” (1876), Leslie Stephen “In Praise of Walking”(1901), John Burroughs “The Exhilaration of the Road”(1904), Stephen Graham “The Gentle Art of Tramping” (1927).
A me vengono in mente altri titoli: “A Tour through the Southern Provinces in the Kingdom of Naples” del 1821, “A Pedestrian Tour in Calabria & Sicily” (1842), “Journals of a Landscape Painter in Southern Calabria” (1852), “L’Expédition des deux Sicile. Souvenirs personels” (1861), “By the Ionian sea : notes of a ramble in Southern Italy” (1901), “Old Calabria” (1915).
Sembra che il romantico “gran tour” fosse già passato di moda, e solo pochi intrepidi si erano avventurati alle estreme propaggini della penisola: Richard Keppel-Craven (1779-1851), Arthur John Strutt (1818-1888), Edward Lear  (1812-1888), Maxim du Camp (1822-1894), François Lenormant  (1837-1883), George Gissing  (1857-1903), Norman Douglas (1868-1952)… Questi ultimi avrebbero ripercorso pedissequamente il medesimo itinerario che l’archeologo francese aveva descritto nei tre tomi de “La Grande Grèce (vol. 1 et 2: Littoral de la mer Ionienne ; vol. 3: La Calabre)”, pubblicati nel 1881, a Parigi, dal libraire-editeur A. Levy. Un pioniere del turismo, come Nicola Marcone (1809-1890),  aveva già raccolto le sue “impressioni e ricordi” di “Un viaggio in Calabria” (1885) quando Luigi Vittorio Bertarelli (1859-1926) approntava le sue escursioni ciclistiche (“Calabria e Basilicata. 5 giorni di escursioni ciclistiche”, 1897) e Cesare Lombroso (1835-1909) dava alle stampe le sue critiche osservazioni “In Calabria” (1898). I fratelli Charles e Louis Fouchier  pubblicarono: “L’Italie meridionelle” nel 1911 da giornalisti e, quando fu la volta di Maurice Maeterlinck  (1862-1949), l’automobile era padrona dello scenario turistico (“En Sicile et en Calabre” 1927). E da  corrispondente de “L’Illustrazione Italiana” e del “Corriere d’Informazione”, nel  1948, Alberto Savinio (1891-1952), lungo le sponde ioniche, subiva la suggestione dell’infanzia trascorsa con il fratello Giorgio De Chirico in Attica e Tessaglia.

Henry David Thoreau interpretò pienamente lo spirito intraprendente che aleggiava in America e nel suo “Camminare” sbandiera: “Se sei pronto a lasciare il padre e la madre, ed il fratello e la sorella, e la moglie ed il figlio e gli amici, ed a non rivederli mai più; se hai pagato i tuoi debiti, e fatto testamento, se hai sistemato i tuoi affari, e se sei un uomo libero, allora sei pronto a metterti in cammino”.
In Francia Erik Satie trascorreva la maggior parte del suo tempo passeggiando per strada, eppure definiva alcune sue composizioni “musica d’arredo”, ispirandosi a Matisse, il quale vagheggiava un’arte che non distraesse. Ed era perfettamente in linea con l’assunto: “L’arredamento è uno stato d’animo” di Robert de Montesquiou, di cui, ci dice Giuseppe Scaraffia (”Torri d’Avorio”, Excelsior 1881, Milano 2010), si favoleggiava abitasse in una casa senza porte apparenti, ma semmai dissimulate e senza maniglie.
“Era difficile indovinare la destinazione delle stanze, perché nulla tradiva il lavoro dello scrittore e lo stupendo, singolare servizio di piatti emergeva misteriosamente, al momento dei semplici, prelibati pranzi, dal ventre di un armadio ben nascosto. – scrive Scaraffia di Baudelaire – La sua penna d’oca rossa tornava spesso sugli stessi passaggi, per correggerli o cancellarli. Il lavoro scorreva lentamente, incagliandosi per ore su una parola. Allora, per uscire dalla secca, l’artista doveva uscire a passeggiare o a chiacchierare con qualcuno.”

Il viaggio potrebbe nascondere un’insidia comunicativa, in cui il “verbo” rischia una sorta di “demonetizzazione”, sfiorando l’equivocità di quella che Heidegger definiva la “chiacchiera”: “un genere di scadimento della parola, una pratica forse compensatoria dell’angoscia generata dall’abbandono della propria dimora, e dall’arrivo in un mondo senza punti di riferimento. – teme Michel Onfray in “Filosofia del Viaggio” (Ponte alle Grazie, Milano 2010) – In questo scambio di parole fini a se stesse, che sembra diventato una finalità e non un mezzo per comunicare, la superficie verbale prende il sopravvento sulla profondità intellettuale… la prossimità genera la chiacchiera ed i suoi soggetti di predilezione: le peripezie del viaggio, la confidenza banale, le considerazioni vaghe su come va il mondo, l’autobiografia trasfigurata in epopea.”
Coltivare la conoscenza di altre lingue, oltre a quella materna, rischia di perpetuare tanta superficialità. Difficilmente si possono cogliere quelle differenze socio-antropologiche e quelle etno-geografiche che hanno determinato un certo tipo di “parlare” in un luogo ed uno del tutto differente in un altro. Drasticamente Nietzsche, per riaffermare questa sensibilità, in “Morgenröte. Gedanken ?ber die moralischen Vorurteile” (1881), ricorreva all’espressione perentoria: “Chi sa le lingue è un imbecille”. Commenta Galimberti: “un’intelligenza linguistica non scopre una parola nella sua radice e nel suo spessore di significato, ma è molto abile nel trasporre un termine o una costruzione da una lingua all’altra”. Per farlo ci si deve rassegnare a non padroneggiarne completamente il senso, a non comprenderne pienamente tutti i significati, limitandosi a giostrare esclusivamente sui contesti. Per ampliare un orizzonte si tralascia l’altra dimensione, quella della verticalità.
Giuseppe M. S. IERACE
———————————————————————-

Bibliografia essenziale:
Alain M.: “Essere se stessi, ogni giorno”, Armenia, Milano 2010
Ehrenberg A.: “La fatigue d’être soi. Dépression et société”, trad. it.: “La fatica d’essere se stessi. Depressione e società”, Einaudi, Torino 1999
Espedal T.: “Camminare”, Ponte alle Grazie, Milano 2009
Galimberti U.: “I Miti del nostro tempo”, Feltrinelli, Milano 2009
Mabey R.: “Natura come cura”, Einaudi, Torino 2010
Onfray M.: “Filosofia del Viaggio”, Ponte alle Grazie, Milano 2010
Precht R. D.: “Ma io, chi sono? (ed eventualmente, quanti sono?)”, Garzanti, Milano 2009
Scaraffia G.: ”Torri d’Avorio”, Excelsior 1881, Milano 2010

I commenti sono chiusi.