Del sentire degli odori, del sapere dei sapori – viaggio straordinario al centro del “senso orale” – abbronzatura, alimentazione, sessualità – il cibo come cultura – “strutture del gusto”

Si dice che a letto, dormendo, si sogni come dovrebbe essere la realtà che vorremmo vivere, mentre a tavola, masticando, si rifletta su come affrontarla concretamente. La masticazione spreme le meningi, mentre i molari triturano le granulosità e le croccantezze. Un vecchio adagio equipara l’atto di mangiare ad una tanatologogastrocosmomachia, una battaglia, come uno scontro tra le parole ed il mondo, combattuta con le armi della digestione contro la morte. Ed eventualmente l’allontanamento di quest’ultima, se non ringiovanisce, almeno non farebbe invecchiare.
Linguisticamente si distingue tra desiderio di un oggetto da cui ci si aspetta che procuri piacere (appetito) e bisogno ergonomico di energia d’immediato utilizzo (fame). La differenza fra i due potrebbe delimitare gli spazi del gusto. La regolamentazione nutritiva si verrebbe quindi a fondare su questa coppia: desiderio piacere. Valenza edonica dei cibi e loro desiderabilità sarebbero da attribuire a certi legami con la corteccia prefrontale da parte del nucleo paraventricolare dell’ipotalamo, costituito in parte da grosse cellule (sistema magno-cellulare) neurosecretrici di vasopressina ed ossitocina ed i cui assoni terminano nella neuroipofisi, e dall’altra parte da un sistema parvo-cellulare con diversi neuro peptidi destinati a varie strutture cerebrali. Nell’ipotalamo laterale sonno e regolazione termica, davanti, fanno pendant con vigilanza, appetito e sete, dietro.
Controllo della temperatura e sazietà nel nucleo dorso-mediale, nel ventro-mediale appetito e sesso. Nel nucleo arcuato del pavimento del ventricolo si secernono la luliberina a capo dell’asse riproduttore ipotalamoipofisogonadico, ma anche i regolatori della bilancia energetica Neuro Peptide Y e Pro-opiomelanocortina, dalla cui scissione deriva l’ormone alfaMSH (Melanocyte Stimulating Hormone). La grelina stimola l’appetito ma inibisce la funzione riproduttiva, viceversa fa la leptina. La kisspeptina, dietro lo stimolo determinato dall’aumento di peso, accende la funzione gonadica, dando direttamente avvio alla pubertà.
“A me piacere/ di giovani amanti/ le loro carezze/ i lor desideri!/ A me l’energia/ degli istanti possenti/ e la pazza orgia/ del cuore e dei sensi!/ Calda giovinezza,/ a me i desideri/ a me la tua ebbrezza/ a me i tuoi piaceri” (Gounod, Faust) 
Il piacere è un meccanismo messo a punto dalla natura per farci capire quali siano le attività che hanno una ricaduta positiva sulla nostra sopravvivenza. Spesso ci sentiamo bene e siamo contenti sol perché abbiamo mangiato, abbiamo fatto sesso o ci siamo sdraiati per farci scaldare dal sole. Tutto ciò ha un profondo significato biologico: il senso di soddisfazione avvertito dopo un lauto pasto, ad esempio, è il segnale che il corpo ci trasmette per farci capire che quanto abbiamo appena fatto non è stato vano, anzi è un bene per noi, perché ne avevamo bisogno. Se giudicato in senso evoluzionistico, si tratta del migliore strumento che potesse essere messo in funzione per la salvaguardia dell’individuo e la conservazione della specie. Anche prendere il sole fa bene, perché, oltre a farci guadagnare calore, abbronzarci e scandire i nostri bioritmi, permette la sintesi di vitamina D, indispensabile alla vita.
Dal punto di vista strettamente biologico, il piacere sessuale è fortemente legato al cibo ed al sole. Ed infatti non è casuale che le popolazioni latine, o caraibiche, siano quelle cui si attribuiscono le maggiori capacità amatorie. Non per nulla si dice appunto latin lover per indicare un talento erotico non indifferente. L’assenza di sole potrebbe contribuire a spiegare anche alcune dinamiche socio-politiche. Le popolazioni nordiche, meno fortunate, dal punto di vista climatico, di quelle mediterranee, sarebbero costrette a darsi da fare molto di più per raggiungere la felicità, e quindi sono più disponibili a lavorare sodo. Il successo nella vita comunque riequilibrerebbe la difficile ricerca della felicità, la quale, per forza di cose, non potrà che essere transitoria, altrimenti condurrebbe alla pigrizia.
Linguisticamente l’idea della temperatura si ritrova intrecciata, nel momento di rifocillarsi alle nostre latitudini, a quella della ristorazione, allorquando si parla di “rinfresco” nel senso di riposo, soccorso, rifornimento, ma soprattutto offerta ed ospitalità.
La spiegazione di questo carrefour dove si incontrano cibo, sesso e tepore, sarebbe racchiusa in una sostanza che il nostro organismo produce in risposta all’irradiazione solare, proprio il Melanocyte Stimulating Hormone (Msh). Quest’ormone che stimola le cellule specializzate del derma (melanociti) a produrre il pigmento (melanina) che procura l’abbronzatura, se ci si espone al sole, risulta sessualmente molto eccitante.
L’ Msh agisce sui recettori che mediano la produzione di melanina, ma pure su altri recettori che, attraverso un complesso procedimento che avviene a livello dell’affollato ipotalamo, inducono la produzione della Pro-opiomelanocortina. Quest’ ultima, come la leptina, ha la capacità di far passare l’appetito, con l’effetto “collaterale”, in entrambi i casi, che, spegnendosi l’ appetito, si accende la sessualità.
Certe formosità ritratte nei dipinti rinascimentali, tenendo conto della felicità, e dell’opulenza di quel periodo, stanno a dimostrazione di magnificenza e di bellezza, oltre che di richiamo esplicitamente carnale. Siccome la leptina viene sintetizzata dalle cellule grasse, non si deve essere troppo magri affinché essa si produca, e se nello stesso tempo ci si espone al sole, secernendo anche Msh, molto probabilmente si avrà una sessualità più attiva. Inoltre, quando l’Msh viene degradato, attiva la produzione di beta-endorfine, gli ormoni endogeni della felicità. Che sia per questo che gli individui in sovrappeso vengano di solito considerati rubicondi e contenti (vedi Sancho Panza), mentre invece le persone eccessivamente magre (Don Chisciotte), che producono meno “felicità endogena”, vanno facilmente incontro a crisi deliranti, psicopatiche ed a dipendenza da droghe?

Il dolce, che si avverte sulla punta della lingua, è talmente implicato con il sistema del piacere da poter indurre dipendenza. Il sapore dolce trasmette il valore energetico dell’alimento, per cui un eventuale abuso provoca sovraccarico ponderale. La sensibilità dei recettori al dolce è piuttosto variabile, potendo così determinare un certo discrimine tra golosi e non. Il sapore dolce è assai meno ricco di sfumature, ma l’intensità cambia a seconda della natura dello zucchero, in quanto il potere dolcificante si associa alla sua massiccia presenza in natura, tipo saccarosio, ed al suo valore nutritivo in termini di calorie. Due recettori dimeri, D1R2 e D1R3, renderebbero conto della diversa sensibilità, visto che ad una forte concentrazione, la risposta ad un medesimo stimolo dolce, per effetto di saturazione da desensibilizzazione recettoriale, non soltanto diminuisce ma potrebbe persino trasformarsi in avversiva. Il dolce, in ogni caso, risponde ad una esigenza primaria, benché non soddisfi alcun appetito, alla stessa stregua dell’alcol che non placa la sete. Anche il potenziale attrattivo del dolce è simile al carving tossicomanico.
La dimerizzazione di due recettori al dolce, D1R1 e D1R3, ha formato un recettore composto che risponde al gusto per gli aminoacidi, in particolare per il glutammato, neuro mediatore eccitatore, che attiva alcuni recettori metabotropici, che sono proteine a sette domini membranari. Uno di essi è un GluR4 talmente poco sensibile che si attiva solamente ad alte concentrazioni affinché si possa riconoscere il gusto umami (“saporito”, in giapponese).
Il sapore salato, che sulla topografia linguale viene subito dopo il dolce, risponde al bisogno fisiologico, come il gusto per l’acido (aspro), di mantenere l’equilibrio idrominerale dell’organismo. Sapore di sale avvertiamo quando sono coinvolti canali di membrana specifici per ioni sodio, i quali canali possono essere bloccati dall’amiloride. Il sapore acido, che si avverte sui bordi della lingua, dipende invece da canali ionici dedicati agli ioni idrogeno.
Grazie al nervo trigemino si riesce a valutare la struttura di un alimento, distinguerne la parte solida da quella liquida, la vischiosità, la fibrosità, la granulosità. Il senso di sabbioso, se non è attribuibile ad intrusioni sgradevoli, può essere dato dalla vellutata di parmigiano. Granuloso è il risotto. E poi c’è il gelatinoso ed il grasso, il caldo ed il freddo, l’irritante ed il doloroso. La capsaicina di peperoncini, peperoni e pepe è chimicamente simile alla sostanza P, che in natura stimola le radici nervose dolorifiche.
Il mentolo si avverte come freschezza che aggredisce anche l’olfatto. In una sorta di confusione sinestesica persino i colori si abbinano ai sapori, cosicché ad accentuare quest’acida freschezza è il verde. Il blu ricorda lo zucchero, il nero l’amarezza, il bianco il salato, il porpora l’umami, ed il rosso appare astringente come e forse più del giallo. Nel denaturare le proteine della saliva, i tannini del vino provocano la sensazione di astringenza, che va perdendosi con l’invecchiamento, fino a cedere il posto ad una vellutata morbidezza.

“Per quanto mi riguarda, non solo sono convinto che senza la partecipazione dell’odorato non vi sia degustazione completa, ma sono anche tentato di credere che l’odorato ed il gusto formino un unico senso, di cui la bocca è il laboratorio ed il naso il camino; o, con maggior precisione, che l’uno serva alla degustazione dei corpi tattili, e l’altro alla degustazione dei gas” (Brillat-Savarin).
Il gesto, considerato fondante per la civilizzazione, di porre la carne sul fuoco ce ne dà atto. Gli aromi sprigionati dalla grigliata primordiale o dal moderno barbecue provengono dalle pirazine liberate dalla reazione di Maillard che definisce la combinazione chimica tra zuccheri e proteine della carne.
Oggi siamo più convinti di Brillat-Savarin che il senso del gusto e quello dell’odorato costituiscano un unico insieme funzionale, il “senso orale” come lo chiamò Edinger, poiché, fondendosi, si riuniscono nella bocca.
All’origine della fusione tra sapori e odori v’è l’olfatto retro-nasale, o retro-olfazione, e per designare meglio l’insieme di queste sensazioni gustative ed olfattive si fa ricorso ai termini flavor (inglese), o flaveur (francese), che rendono meglio la plurivocità del senso orale.
“L’ordine che mi sono imposto mi ha pian piano condotto al momento di restituire all’odorato i diritti che gli competono e di riconoscere gli importanti servigi ch’esso rende all’apprezzamento dei sapori” (Brillat-Savarin).
L’odorato esplica una “funzione ontologica… che si riflette molto bene anche nella polisemicità del verbo sentire- scrive Jean-Didier Vincent in “Viaggio straordinario al centro del cervello” (Ponte alle Grazie, Milano 2008) – In primo luogo, va sottolineato il carattere ad un tempo transitivo ed intransitivo di questo verbo. L’uomo sente grazie al carattere recettivo (transitivo) dell’olfatto, ma contemporaneamente sente buono o cattivo in senso emanativo (intransitivo) ”.
Il più delle volte gli aromi sono strutturati in maniera assai complessa, perché composti di elementi inseparabili senza compromettere il risultato d’insieme. Il profumo del gelsomino si compone, ad esempio, di ben duecento molecole, delle quali nessuna può assentarsi.
Assieme al tatto, l’olfatto è un senso immediato, diretto, intimo, sensibile, ma proprio per questo impreciso. Lo stimolo è rappresentato da una particolare combinazione “sterica” di raggruppamenti atomici (odotopi). Sterico significa che un composto chimico può esistere in configurazioni spaziali che sono l’una la forma speculare dell’altra, identiche quindi, eppure non sovrapponibili, come immagini riflesse. Non solo a seconda della concentrazione, ma pure a seconda della configurazione isomerica, una stessa molecola produrrà odori differenti, così D-carvone saprà di menta, L-carvone di cumino.
La percezione degli aromi ha carattere polimodale, connessa com’è all’affettività, all’emotività, al piacere, e pertanto a rischio dipendenza. L’assone che esce dal bulbo olfattivo termina nella corteccia piriforme, prima di penetrare nell’ippocampo, attraverso la corteccia entorinale, dove suscita emozioni e si imprime nella memoria, come insegna la madeleine di Marcel Proust (À la recherche du temps perdu). Difatti, l’attività elettrica dei neuroni della corteccia sopraorbitale, in risposta agli odori, – come sostiene E. T. Rolls (“Taste, olfactory and food texture processing in the brain and control of food intake” 2005) – si incrementa in funzione del piacere che essi preannunciano.
L’azione di annusare è primordiale, partendo dalla prima inspirazione con le tenere narici da neonato, per passare all’assaggio con labbra protese, lingua curiosa, bocca sapiente, e proseguire infine con la vista. Sartre avrebbe sintetizzato questo processo in “L’essere e il nulla”, dichiarando: ” fare la conoscenza significa mangiare con gli occhi”.
Nel corso dell’evoluzione delle specie, con l’acquisizione della posizione eretta e dell’andatura bipede, l’organo dell’olfatto si sarebbe allontanato troppo dal suolo, campo privilegiato della sua azione, come ci dimostrano i cani alla ricerca di messaggi odorosi, cedendo il primato sensoriale alla vista. Forse per questo Kant lo definì una “facoltà cognitiva inferiore”. Gordon Shepherd , in “Smell images and the flavour system in the human brain” (2006), sostiene invece che il deficit recettoriale subìto dall’uomo sia stato abbondantemente ricompensato dal doppio olfatto retro ed ortodromico, più vantaggioso alla varietà dei nostri regimi alimentari.
Quello degli aromi è davvero un universo di finezze e di dettagli, mentre i sapori sono molto più limitati nel numero, anche se possiedono maggiore potenza emozionale.
La sensibilità all’amaro, relegata alla base linguale, rappresenta un campanello d’allarme, qualora dovesse essere insopportabile o repellente, altrimenti rientra nelle gradazioni soggettive del gusto.
In “Le cerveau gourmand” (2006), Holley ipotizza che ogni sapore abbia una linea dedicata di codifica combinatoria, la quale, a partire dalle papille, e attraverso la corda del timpano (VII, facciale), il glossofaringeo (IX) ed il vago (X), raggiunge il nucleo del tratto solitario. A riconoscere il gusto sarà il cervello, in grado pure di quantificare e classificare quel che, in qualche modo, ci risulta sapido. L’affinità di recezione necessita però di prossimità o di quantità. E’ così che l’amaro è in grado di renderci consapevoli di qualcosa che andrebbe valutata più attentamente, per via di una sua potenziale tossicità. I recettori per l’amaro geneticamente contraddistinti T2R , che esprimono un tipo di proteina G (gustducina), elevano questo sapore al rango di sentinella principale verso qualcosa di potenzialmente nocivo, il cui significato e riconoscibilità sono innati.

L’edibilità di un alimento è un fatto culturale. Ricercare ciò che è buono da mangiare è risultato di un apprendimento che da empirico tende a diventare abitudinario, tradizionale, accademico. Quello che non va bene invece viene sottoposto ad esami tossicologici oppure relegato nel campo dell’indifferenza nutrizionale o delle fobie ortoressiche. I criteri di valutazione insistono in un vasto contesto psico-socio-antropologico che vede il cervello anteporsi al palato, la mente al gusto, l’idea all’alimento, la reazione al sapore, il sapere all’appetito. Le influenze che delimitano l’azione dell’organo dell’intelletto possono comunque differire nello spazio e nel tempo, per cui la dimensione del disgusto e dell’appetibilià non sembrano ben definite, né del tutto circoscritte. Le predilezioni variano geograficamente e si modificano nel corso della storia di una certa località.
Il sapore è una sensazione individuale che produce un’esperienza soggettiva spesso sfuggente e quasi sempre incomunicabile, in ogni caso però sempre esperienza cognitiva, per cui il sapore si fa sapere, attraverso la valutazione sensoriale, la riflessione sul piacere, il “pensiero a bocca piena”, la comunicazione dei sentimenti provocati dalle sensazioni ed, infine, la condivisione delle emozioni con la collettività dei commensali, concorrendo ad assestare i valori del consorzio umano a proposito di una delle attività fondamentali della vita.
Le “strutture del gusto” di Jean-Louis Flandrin (“Le gout et la nécéssité: sur l’usage des graisses dans les cuisines d’Europe occidentale”) ben trasmettono quest’anelito di socializzazione di un’esperienza soggettiva. Nella condivisione dei saperi originati dai sapori, la cucina moderna ha assunto una tipologia decisamente analitica, che vuol distinguere le fragranze e le impressioni del piccante, dell’agro, dell’amaro, del salato, del dolce, riservando loro spazi di autonomia e di sequenza nel corso di un intero pasto. Nel rispetto della naturalezza degli ingredienti base delle varie portate, il cui sapore si vuol spesso tenere separato da quello degli altri. “La zuppa di cavolo deve sapere di cavolo, il porro di porro, la rapa di rapa”. Se Nicolas de Bonnefois, intorno alla metà del XVII secolo, sentiva l’esigenza di specificarlo nella sua “Lettera ai maestri di casa”, c’è da presumere, con buona verosimiglianza, che allora la regola non fosse proprio questa e che la preparazione delle vivande venisse predisposta in modo da tenere insieme i vari ingredienti secondo delle modalità espressamente sintetiche, quanto sincretiche e, perché no, sincroniche, improntate semmai al mantenimento di un equilibrio tra qualità nutritive e sapori, allo scopo di offrire simultaneamente tutte le virtù tra loro confuse in questa alchimia. Dietro quell’impulso nacque certamente il gusto per l’agrodolce, con la mescolanza di zucchero agli agrumi, che, all’epoca dell’invasione araba, sostituisce la combinazione miele- aceto dei latini, oppure il “dolce-salato”, ad esempio, delle confetture di mirtilli a guarnizione di piatti “forti”, a base di cacciagione. I timballi di maccheroni (o il sartù di riso) sono preparati con pasta frolla dolce con dentro i farinacei salati ed aromatizzati. La mostarda cremonese unisce spezie piccanti (senape) al dolce del mosto. E poi c’è l’accostamento del pepe nero al miele, all’uva sultanina, ecc. nel panpepato.
Quella che ricerca l’equilibrio è una cucina di contrasti, proveniente dall’età medievale, epoca in cui si era soliti amalgamare sapori differenti. Altra caratteristica della cucina d’un tempo era costituita dal ricorso ad ingredienti “acidi” per il confezionamento delle salse magre: aceto, succo di limone, agresto (succo d’uva acerba fermentato e ridotto di un terzo, col calore del sole o della bollitura). La Besciamella, o Salsa bianca, a base di burro e farina cotti (roux) poi versati nel latte, deriverebbe dalla Salsa colla toscana “esportata” in Francia da Caterina de’ Medici. La maionese, ottenuta dall’emulsione stabile di olio vegetale frazionato in acqua, con tuorlo d’uovo, aromatizzata con aceto o succo di limone, risalirebbe ad un periodo storico forse a noi più vicino, anche se Jaume Fàbrega e altri ne teorizzano la derivazione dalla salsa mahonese, già conosciuta ai tempi di Annibale, perché preparata dai frombolieri delle Baleari, da cui il nome (maonesa, in catalano, per via della città spagnola di Maó nell’isola di Minorca).
Anche le tecniche di cottura potevano contribuire a sovrapporre i sapori tra loro. Lessare, arrostire, friggere, stufare, brasare, in fasi successive di una medesima preparazione, avrebbero accumulato i loro effetti quanto a consistenza del cibo, e di conseguenza a sapore, sensorialmente arricchito questo da un apporto tattile, in cui la manipolazione diretta affina e concretizza una sensibilità non mediata. L’uso della forchetta è posteriore e proviene, più che da dettati di costume o da imposizioni igieniche, dalla necessità di afferrare elementi scivolosi di pietanze bollenti, come i maccheroni napoletani che vanno arrotolati per non farseli sfuggire.
La struttura di un pranzo, l’ordine delle portate, la maniera di recarle e la loro disposizione sulla tavola designa il cosiddetto “servizio”. La letteratura gastronomica ottocentesca ce ne tramanda diverse tipologie: servizio all’ambigù, in cui i piatti vengono portati in tavola tutti insieme e offerti agli ospiti dai camerieri; servizio a mano (ovvero l’attuale buffet in piedi); servizio all’inglese (mise en place alla “francese” dei piatti freddi e alla “russa” di quelli caldi). Fu solo a partire dalla metà del XIX secolo che invalse l’usanza del servizio “alla russa”, introdotto in Francia dal diplomatico Alexander Borisovitch Kurakin ai tempi di Napoleone (1810), con la successione prefissata di portate in netto contrasto con il modello di offerta simultanea di piatto unico, o di molteplici vivande calde, di cucina, o fredde, di credenza (servizio alla francese), che ognuno sceglie a piacimento, secondo un desiderio rivelatore di esigenze fisiologiche o di aspettative comunicative.
Giuseppe M. S. Ierace

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