Contro le immagini – Iconoclastia, Iconofobia – La Strega e il Crocefisso – Iconofilia, Iconomania, Sindrome di Gerusalemme

Le immagini dicono più delle parole e, poiché più percepibili, concrete, immediate, chiare e visibili, sono soprattutto più comprensibili di qualsiasi testo. Una pessimistica interpretazione dell’immagine invece ravvisa in esse quasi come un deficit di comunicazione, oltre che d’informazione, una sorta di degrado intellettivo, di decadenza culturale, di anti-illuminismo, persino, a dar retta a Günther Anders o a Neil Postman, di istupidimento di massa, con un serpeggiante, malcelato tentativo di minare le fondamenta stesse della democrazia.

Le visioni suscitano ansia, tant’è che ogni teoria che le riguardi si lega indissolubilmente ad una “iconofobia”, né si può cercare di sintetizzare una tale teoria delle immagini “a prescindere da un confronto con l’iconoclastia” (Mitchell 1986), storicamente parte integrante della tradizione occidentale anche per David Michael Levin (1993), Martin Jay (1993) e Chris Jenks (1995), oltre che per William J. Thomas Mitchell (1986 e 1994). Nel suo libro “Iconology: Image, Text, Ideology”, quest’ultimo definisce l’iconofobia come l’ansia prodotta dall’ambigua capacità dell’immagine di essere, al tempo stesso, verità e illusione. Come risultato di questa duplicità le immagini vengono temute per il loro rappresentare magicamente “un luogo di potere speciale che deve essere contenuto o sfruttato” (Mitchell 1986).

“Iconofobia” e “iconoclastia” non possono essere considerate assimilabili, quasi come se fossero intercambiabili, poiché, se l’iconofobia indica uno stato generalizzato di inquietudine provocata dalle immagini, di paura cioè del rischio e del pericolo che esse possono rappresentare (una condizione sociale, o culturale, ed una psicologica), l’iconoclastia, più pragmaticamente, rappresenta il tentativo “attivo” di sopprimerle o di abolirle. L’atteggiamento iconofobico è quindi relativamente “passivo”, quello iconoclastico è il risultato di un’aggressione legata ad una “volontà” di controllare attivamente la visione e la cultura iconica, che potrebbe porsi ai limiti della paranoia.

La storia dell’iconoclastia è lunga e complessa, inestricabilmente intrecciata con la politica, i
movimenti religiosi e la filosofia, afferma Mitchell, in “Picture Theory: Essays on Verbal and Visual Representation” (1994), o almeno con quella filosofia in cui il paradigma razionalista ha privilegiato il “logos”, inteso come discorso testuale, lineare e deliberativo, lasciando ai margini ogni raffigurazione. In “The Violence of Public Art: Do The Right Thing” (1990), William J. Thomas Mitchell ha sostenuto addirittura che “la lunga storia della lotta politica e religiosa in occidente potrebbe essere perlopiù riscritta come storia dell’iconoclastia”. Ebbene, ciò che Martin Jay, in “Downcast Eyes: The Denigration of Vision in Twentieth-Century French Thought “ (1993), ha definito discorso “antivisuale”, pur potendo essere considerato alla stregua di un vero e proprio “fenomeno invasivo”, è stato generalmente ignorato dal pensiero occidentale del XX secolo.

Tra testo e immagine esistono delle imprescindibili relazioni oscillanti dall’iconofilico, iconomaniaco, all’ iconofobico, iconoclastico, secondo una contrapposizione tra ambito iconico e sfera “verbale” ed una radicata convinzione, appartenente alla sfera paranoide, che le rappresentazioni visive costituiscano di per sé (oppure possano venire vissute come) una minaccia.

Una prima rilevante espressione di questo lacerante conflitto andrebbe ravvisata nell’episodio biblico dell’Esodo, a cui ci si riferisce abitualmente come ad una primitiva lotta contro l’idolatria, sotto forma, nel caso specifico di “adorazione del vitello d’oro”. Gli ebrei inchinati dinanzi alle “immagini incise” di un vitello d’oro, vengono redarguiti da Mosé, appena disceso dal monte Sinai, con in mano le tavole dei dieci comandamenti che sintetizzano la “Parola” di Dio. Per Alain Besançon (“L’Image interdite: une histoire intellectuelle de l’iconoclasme”, 2000), è quello il momento in cui uno dei primi iconoclasti nella storia dell’umanità si scontra con adoratori di raffigurazioni scolpite, riconoscibili quali primitivi idolatri, iconomaniaci.

E’ abbastanza noto l’assoluto rifiuto (divieto) verso le rappresentazioni di esseri viventi culturalmente attestato in ambito religioso, a tal punto che il manifestarsi di una forte ostilità, da parte dei musulmani, sostenuti in questo anche dagli ebrei, nei confronti dei cristiani e dei loro simboli potrebbe essere motivo scatenante di periodiche crisi iconofobiche.

Nel rivedere contrapposte le cosiddette religioni del Libro, e quindi della Parola, con la successiva civiltà cattolica, l’antico conflitto, generatosi nello sviluppo della cultura giudeo-cristiana, si è ripresentato più volte a ricoprire un ruolo importantissimo, benché gradualmente privato delle connotazioni strettamente religiose e fortemente secolarizzato, sino a diventare un potente strumento concettuale: la convinzione cioè che, in un modo o nell’altro, parole ed immagini siano opposte o addirittura ostili e che l’uomo abbia bisogno di essere protetto dall’invadente potere ora delle une ora delle altre.

La recente querelle circa la presenza del crocifisso nei luoghi pubblici non è nuova, e non è neppure un fatto che riguarda lo scontro tra cultura laica e credo religioso, perché spesso arriva a svelare problematiche identitarie di personalità ed induce una sorta di spaesamento psicologico.

In genere ci sono delle cause ben circostanziate nel fondo della psiche, ma, trattandosi di fobie e manie che non menomano particolarmente le attività quotidiane, il problema si porrebbe semmai allorquando si visitano le opere d’arte nei musei oppure in quelle circostanze relative all’ambito strettamente religioso. Il rifiuto potrebbe riguardare ogni organizzazione clericale gerarchica e statica, e di conseguenza tutto ciò che la promuove o la rappresenta. Un’associazione mentale tra una tale religione, interpretata nel senso di una dottrina del terrore, ed i suoi simboli, spesso inquietanti, fornirebbe delle sensazioni decisamente sgradevoli, vissute con ansia e timore, a mo’ di iconofobia, od agiofobia. Per contro, quando l’influenza di immagini e concetti religiosi è troppo forte, può avere certi effetti sulla psiche (magari già precaria) di alcuni, in modo da provocare crisi mistiche e improvvise “illuminazioni”.

Ad esempio, la cosiddetta “sindrome di Gerusalemme” consiste nella manifestazione di appassionati sentimenti religiosi e di un impulso a proferire espressioni visionarie da parte del visitatore della città santa, alla stessa stregua di quanto osservato a Firenze, ed a Parigi, durante la visita alle bellezze artistiche di quelle città (rispettivamente: “sindrome di Stendhal” e “sindrome di Notre-Dame”).

Secondo Moshe Kalian ed Eliezer Witztum, spesso si tratta di soggetti con sintomi psichiatrici già manifesti prima dell’arrivo a Gerusalemme. Per cui il loro pellegrinaggio è stato intrapreso proprio perché avevano un’idea “fissa” di religiosità, oppure si sentivano investiti di un incarico profetico, o di una missione mistica da compiere, ovvero influenzati fortemente dall’idea messianica della seconda venuta sulla terra di Gesù, o ancora ritenendo di incarnare un’importante figura di particolare santità. Altri soggetti sarebbero poi culturalmente ossessionati dall’importanza della città di Gerusalemme nella storia delle religioni occidentali. In altri ancora sarebbe prevalente una forte avversione nei confronti di qualche riferimento culturale o religioso, e qui si tornerebbe probabilmente ad avere una coincidenza con l’atteggiamento di tipo fobico.

Yair Bar-El ed altri (Bar-el Y, Durst R, Katz G, Zislin J, Strauss Z, Knobler HY., 2000) ritengono che i soggetti in questione è dopo il loro arrivo a Gerusalemme che evidenzino sintomi psicotici, a cominciare da: agitazione, o nervosismo; esigenza ossessiva di pulizia ed igiene (rupofobia), esplicata in continui lavaggi di mani e corpo (ablutomania); dichiarata manifestazione di separarsi dal resto del gruppo o dalla famiglia per continuare da soli il pellegrinaggio; desiderio irrefrenabile di eseguire processioni o marce verso luoghi caratteristici, di declamare versi o salmi religiosi, di cantare inni sacri o di improvvisare sermoni, dal contenuto, abitualmente, confuso, o semplicemente improntato ad una moralità piuttosto scontata…

Come nel caso dell’insofferenza per le opinioni diverse dalle proprie (Allodoxafobia), anche nell’iconofobia, come nell’iconomania, ci troviamo di fronte ad una condizione psicopatologica ricollegabile ad un nucleo paranoide piuttosto profondo, e quindi, proprio per questo, abbastanza mascherato da atteggiamenti preconcetti, convinzioni rigide, pregiudizi intellettuali, credenze religiose di cui non si accettano critiche.

“Non possiamo non dirci cristiani”, nella seconda metà degli anni ottanta del secolo scorso fu come un manifesto sbandierato in difesa dell’esposizione della croce nelle aule, contro chi suggeriva di non imporre simboli religiosi, che potrebbero non essere condivisi, quanto meno in ambito laico (e le scuole pubbliche, i tribunali, gli uffici amministrativi… lo sono). La giustificazione politica, che maschera la paura di perdere un’identità più intima, si richiama alla vita sociale cristiana, in una società composta per stragrande maggioranza da fedeli alla religione cattolica.
Appunto, in questo caso, essendo “maggioranza”, non ci sarebbe allora necessità di dimostrarlo. Se si sente il bisogno di puntualizzare quest’aspetto, esiste un’insicurezza di fondo; evidentemente non si è del tutto certi di poter contare su questa maggioranza, in quanto si nutre il dubbio che si tratti forse più di un novero di tipo nominale, piuttosto che di un ben saldo gruppo affiatato di praticanti.

Quanto c’è di comune in una nazione, quella italiana, ed in una comunità, l’europea, sarebbe giusto questo “forte” legame ispirato al cristianesimo o c’è forse di mezzo la presenza di uno Stato pontificio?

La materia “affissione di simboli religiosi in pubblico”, ricorda Paolo Portone, in “La Strega e il Crocefisso” (Gruppo Editoriale Castel Negrino, Aicurzio 2008), non avrebbe avuto un quadro normativo ben definito che ne regolamentasse chiaramente l’esposizione in determinati luoghi. Una tale possibilità infatti non è mai stata disciplinata né dai Patti Lateranensi, né dal rinnovato Concordato del 1984. Troverebbe quindi una sua base giuridica solo nei decreti del 1924 e del 1928. L’oggetto delle nuove disposizioni concordatarie è espressamente relativo alla disciplina dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche; altro tema delicatissimo, se si tiene conto della presenza, sul territorio italiano, di chiese evangeliche ed ortodosse, nonché di comunità israelitiche ed islamiche.

La croce ha indubbiamente significato per i credenti, un valore simbolico per una civiltà, una valenza storica per una cultura, pertanto difficilmente potrebbe essere accettata universalmente. Senza contare che il suo utilizzo politico è sicuramente di dubbio gusto: l’Europa che il crocefisso richiama è quello di Goffredo di Buglione, mentre è soltanto la solidarietà civica ad essere appannaggio di tutti. Uno stato laico deve garantire un “regime di pluralismo confessionale e culturale” ed una pari tutela di qualunque convinzione, anche dell’ateismo, nel rispetto della “sfera intima della coscienza individuale”.

Per contro, la riduzione della croce a simbolo “universale”, indipendente da una specifica confessione religiosa, si potrebbe interpretare persino come una sorta di “profanazione”, affine, se non alla blasfemia, all’atto di nominare il nome di Dio “invano”, come vana sarebbe l’esposizione di un simbolo sacro in un contesto inidoneo.
“Idolatria, per gli antichi, non era solo l’adorazione prestata a cose che non sono dio, ma anche la costruzione di queste stesse cose, il ‘farsi come dio’ nel voler dare la vita. La religione ebraica e quella musulmana… – asserisce Maria Bettetini , in “Contro le Immagini – Le radici dell’Iconoclastia” (Laterza, Bari 2006)- hanno preso molto sul serio la possibile hybris insita nel farsi ‘creatori’, donatori di vita e forma”.

Il dibattito ideologico è stato complicato dalle massicce ondate migratorie e dalla insufficiente integrazione nel tessuto socio-culturale delle nazioni ospitanti di credenti in altre fedi religiose, in particolare l’islam, con cui lo scontro si è reso inevitabile dopo l’11 settembre 2001. Il patrimonio tradizionale ed identitario ne sono risultati grandemente rinforzati, ma già l’uso spregiudicato del fattore religioso in campo politico si era fatto sentire pure subito dopo la caduta del muro di Berlino, per non ritornare alle vicende descritte da Guareschi nella saga di Peppone e Don Camillo, o al periodo in cui le Madonne lacrimavano poco prima delle elezioni…

Si tratta forse di una lotta ingaggiata contro l’indifferenza liturgica ed il relativismo culturale, con i temi che vi stanno dietro: divorzio, aborto, eutanasia, procreazione assistita…?

Il pericolo intravisto dal “patriottismo occidentale” è quello del progressivo declino demografico e con esso la perdita di quella posizione egemonica esercitata sino ad ora. La guerra di civiltà deve necessariamente richiamare valori tradizionali e superiori principi morali per sferrare il suo attacco all’interno, contro l’ombra dell’indifferentismo illuminista, ed all’esterno contro l’Altro, l’immigrato sconosciuto, non familiare, inquietante e nemico. Il simbolo dell’identità è stato così nuovamente issato contro l’invasione islamica nella “crociata” del secondo millennio.

Eppure, a ribadire l’evangelico concetto che asserisce come a Cesare vada dato quel che gli spetta, il crocefisso quindi sta bene giusto nei luoghi di culto.

Giuseppe M. S. IERACE

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