“Nella vita quotidiana conviviamo con un ‘pregiudizio di verità’, in altre parole se non abbiamo un forte motivo per credere che qualcuno stia mentendo tendiamo a pensare che stia dicendo il vero. E perché dovrebbe essere altrimenti?”, si chiede Ian Leslie in “Bugiardi nati” (Bollati Boringhieri, Torino 2014).
Se si dovessero considerare non degne di fede tutte le parole che ci vengono proferite giornalmente, verrebbe implicitamente meno il “contratto” stipulato dall’individuo con l’intera collettività e prevarrebbe un’assoluta e paralizzante circospezione, ai limiti della paranoia.
Consiste proprio in questo il potenziale vantaggio di cui si impadroniscono immediatamente i bugiardi a scapito dei sinceri che, di conseguenza, per non venire sopraffatti, devono restare in maggiore allerta soprattutto verso i loro nuovi interlocutori, anche quand’essi non siano dichiaratamente sleali. E questo onde evitare che l’onestà venga scambiata per ingenuità e la mendacia per astuzia. Cosicché l’attenzione si cerca di spostarla su quei segnali che possano eventualmente rivelarsi più indicativi di altri in tema di veridicità di rapporti.
Eppure, saranno differenti anche le modalità in cui ci si tradisce di non esser stati franchi, poiché non si mente tutti alla stessa maniera, bensì con prassi diversa, e anche a seconda della bugia raccontata. Una menzogna troppo elaborata necessita di spiegazioni ridondanti, più lente, meno brevi, e con pause frequenti, invece con una semplice, e meglio concepita, si diventa più sbrigativi. Accanto poi a chi sbatte rapidamente le palpebre, ci potrà essere qualcun altro con lo sguardo innaturalmente fisso. Chi non è abituato a mentire soffre maggiormente il disagio e lo dimostra, mentre un simulatore consumato saprà meglio controllare la gesticolazione, non rendendola inadeguata ed esagerata.
In fin dei conti, bisogna ammettere che l’arte (sempre che sia lecito chiamarla così) di mentire sviluppa e raffina le capacità cognitive, relazionali ed emotive. Il bugiardo ha un suo fascino, perché sa giocare d’anticipo e risultare persino più empatico.
Per questi motivi, infatti, gli psichiatri che indagano sui progetti per il futuro dei depressi, potenziali suicidi, si dovrebbero maggiormente sforzare di scorgere nei loro occhi quel fugace lampo di disperazione che balena tanto rapidamente da risultare impercettibile persino alla moviola.
“There ain’t no way to hide your lyin’ eyes” cantavano gli Eagles nel 1975 in un celebre pezzo di successo, Lyin’ Eyes.
Se le emozioni non avessero che una trascurabile importanza nel comportamento umano, si potrebbe dedurre che pure le espressioni facciali siano in realtà delle maschere culturalmente costruiteci in volto, nell’assoluta privazione di qualsiasi diretto collegamento con i sentimenti e l’umore. Invece già Charles R. Darwin (1809-1882) s’era interessato dell’universalità della mimica facciale e, nel 1872, aveva licenziato alle stampe “The Expression of Emotions in Man and Animals”, concludendo che “il medesimo stato d’animo s’esprime in tutto il mondo con notevole uniformità”.
A distanza di quasi un secolo, Silvan Solomon Tomkins (1911- 1991), avrebbe prodotto una teoria generale delle emozioni nei quattro volumi di “Affect, Imagery, Consciousness” (1962, 1963, 1991, 1992), insistendo su delle “coppie” basilari (in cui due definizioni ne determinano l’intensità da mite a più forte: interesse-eccitazione, godimento-gioia, sorpresa-trasalimento, disagio-angoscia, rabbia-collera, paura-terrore) e su altre “evolute più tardi” (vergogna-umiliazione, disgusto-nausea), differenti dalle “unità” freudiane per mancanza di “oggetto”, ma che, pur in una certa complessità e qualche confusione, manifestano un patrimonio biologico sostanzialmente condiviso con gli animali.
Non sappiamo se Tomkins abbia analizzato il capolavoro di Collodi, ma anche lui era infine arrivato alla conclusione che “la faccia è come […] un pene”.
Scandagliando smorfie e sogghigni, Paul Ekman e Wallace V. Friesen hanno catalogato tutt’un repertorio emozionale del volto umano (Facial Action Coding System).
Il tipico “sorriso felice e sentito” necessita d’una “coordinazione apicale”, con una contemporanea chiusura degli occhi proporzionata all’ampiezza della distensione della rima labiale. Più sono fluidi e brevi più i sorrisi sono schietti; la collera richiede invece uno spontaneo assottigliamento delle pieghe della bocca e una maggiormente imitabile scopertura dei denti.
La verità emotiva, non in linea con una menzogna di quel “viso falso”, apostrofato da Macbeth, può sfuggire al più abile dei mentitori, in piccole e fugaci incongruità concretizzantesi in involontarie “microespressioni”, da cui emerge un “conflitto” da cogliere, ma ancora sempre da interpretare. Accennare un sogghigno non costa nulla, ma se la posta in gioco si alza, aumentano contestualmente le probabilità di controllare un meccanismo mimico che agisce autonomamente.
La menzogna richiede un “carico cognitivo” non indifferente, associata a una tensione mentale che si ripercuote sul linguaggio del bugiardo.
Aldert Vrij ha notato che invece di interrompere la conversazione, accusando (il che fornisce risposte brevi e rafforza le difese di un sospettato), è preferibile dialogare di più e più a lungo per sottoporre a quello sforzo mentale dal quale potrà più facilmente fuoriuscire qualcosa di compromettente.
Il test del “racconto a ritroso”, per esempio, aumenta di quel tanto che basti il carico cognitivo da sfiancare la destrezza mentale e superare di molto altri metodi, come il Behavioural Analysis Interview, adottati dagli inquirenti. Nel “disegno della testimonianza” la straripante sovrabbondanza di dettagli, magari reali, ma poco significativi, e la trascuratezza degli elementi chiave, sembra dirimente al punto da rendere anche questa tecnica senz’altro affidabile.
Segnali di tipo visivo (irrequietezza, anche nel sostenere lo sguardo), o altre prove pregiudiziali potrebbero venire facilmente confutate nel corso dell’indagine, perché spesso, se non sono irrilevanti (come l’accento), potrebbero addirittura risultare controproducenti, quali l’apparenza, i lineamenti infantili, l’attrattiva, la disinvoltura nel relazionarsi, prevalenti tra i bugiardi piuttosto che tra gli onesti. Neanche confrontare i diversi linguaggi impiegati in diverse circostanze prima, durante e dopo un confronto, potrebbe costituire un metodo base attendibile. I bugiardi si mostrano più collaborativi, e addirittura meno nervosi degli altri, facendo crollare le certezze di qualsiasi ipotesi basate su mimica, comportamento o contegno (“demeanour assumption”).
“There’s no art to find the mind’s construction in the face.” (Non esiste un’arte che consenta di scoprire le costruzioni della mente nel volto di un uomo: Macbeth atto primo, scena quarta, vv. 12-13) sentenzia Duncan, confessando d’aver riposto male la propria fiducia, perché ogni approccio deve considerare la molteplicità di tanti fattori e li deve tra loro correlare integralmente e contestualizzarli, dagli schemi del discorso, e il tono di voce, alla postura e ai movimenti delle mani.
Ci sono delle regole sociali non scritte ma implicitamente concordate che stabiliscono quando è il caso di mentire e quando quello di dire la verità. Gli adulti possono trasmettere una sufficiente sensazione di fiducia nei confronti dei bambini che consenta loro di imparare cosa è sbagliato e in quale momento. Dimodoché le bugie verranno dette onde evitare guai o imbarazzo, piuttosto che per manipolare strumentalmente una qualche situazione a proprio vantaggio. Se ci si sente costantemente sotto attacco si ricorrerà più spesso alla menzogna a scopo meramente difensivo. Non solo, ma queste continue minacce rafforzeranno l’abilità di contrastarle con delle adeguate bugie.
Quando a un bambino si dice di possedere la capacità di discriminare la verità attraverso l’innocua menzogna di verificare l’allungamento del naso si mette in pratica un piccolo-grande e astuto test per riconoscere la sua tendenza a trasgredire la consegna di dover dire sempre la verità, senza peraltro mettere in discussione le sue qualità morali con modalità punitive. Tra la storiella terrificante di “Al lupo! Al lupo!”, in cui reiterate bugie perdono il pastore con tutto il suo gregge, e l’aneddoto in cui la confessione del piccolo George Washington circa la sua responsabilità d’aver procurato un danno viene accolta dal padre con un encomio, risulta maggiormente edificante la seconda che insegna a trarre coraggio nell’essere sinceri, e non la prima che più genericamente si limita a instillare la paura d’essere smascherati e puniti di conseguenza.
In un breve saggio, intitolato “Profilo d’un bambino”, pubblicato nel 1877da un Charles R. Darwin ormai quasi settantenne, si fa eco alla relazione del naturalista francese Hippolyte A. Taine (1828-1893) sullo sviluppo mentale infantile. I birichini inganni del suo primogenito non vennero mai contestati. “Poiché non era mai stato punito in alcun modo, il suo strano contegno non era certamente dovuto a paura e suppongo che si trattasse d’un piacevole stato di eccitamento in lotta con la coscienza… Dal momento che questo bambino fu educato esclusivamente facendo leva sui suoi buoni sentimenti, divenne presto tanto sincero, franco e affettuoso quanto si sarebbe potuto desiderare”.
Alcune circostanze sembrano smentire questa constatazione e sono relative allo stigma dell’infamia, in cui sorge un netto conflitto tra obblighi morali nei confronti di alcuni, per lo più superiori, e “fare la spia” nei confronti di altri, quasi sempre dei pari. Il rapporto più complicato con le bugie lo hanno infatti gli adolescenti, i quali potrebbero mentire nell’interesse immediato di preservare una certa immagine, o scansare una punizione, ovvero al fine di proteggere da eccessive preoccupazioni le persone che più amano. In alcuni casi usufruirebbero d’un tacito consenso da parte di chi preferisce non addentrarsi troppo in aree di privacy in cui sarebbe inopportuno indagare.
Se non si formulano domande che mettono in imbarazzo è più frequente sentirsi rispondere la verità. Difatti, normalmente, non si mente su tutto e le bugie si limitano di solito a ben pochi argomenti, piuttosto intimi e personali, come la vita sessuale, per esempio, o certe debolezze che non si tende a sbandierare ai quattro venti. Crescendo, insomma, s’impara quando è pur lecito ricorrere a quella particolare bugia che non lascia scoperto un punto sensibile. L’idea che, man mano, si riesce sempre più a gestire è che, pur essendo sbagliato dire bugie, a volte risulta necessario nascondere una verità. Di conseguenza s’adegua elasticamente il corrispondente comportamento.
Forse non c’è bisogno di consultare Silvan S. Tomkins per intuire il simbolismo sessuale del naso di pinocchio: un organo erettile che non riesce a dissimulare e nascondere la propria eccitazione. E nonostante tale implicito esibizionismo, l’opera di Collodi può essere definita un vero e proprio miracolo letterario dall’invidiabile profondità, e psicoanalitica ed esoterica. A dispetto della fama pedagogica, l’insegnamento fondamentale è quello di diffidare dell’autorità, eppure il “puer” viene avviato a un’iniziazione, né più né meno di quanto si proponeva Apuleio nelle sue Metamorfosi e sino all’epifania di Iside, fata dai capelli turchini, madre universale che abita i nostri sogni.
Sullo scoglio del mare in tempesta appare una capra dal “pelo azzurro”, quale rappresentante dell’indistinzione tra animale e umano, e mediatrice tra i due mondi. Come il burattino di Carlo Lorenzini (1826-1890), il Lucio del mago di Madaura è un asino. Chiarificatore per entrambi è un passo di Marco Aurelio, in cui l’ammonimento diventa: “Ricordati che colui che tira i fili è questo Essere celato in noi, è Lui che suscita la nostra parola, la vita nostra, è Lui l’Uomo… Cosa ben più divina delle passioni che ci rendono simili a marionette e nient’altro“.
Il pezzetto di pino (pinocolus in latino) di cui è costituito il nostro simpatico burattino sfida l’inverno, perché è un albero sempreverde, mentre Lucignolo è un potenziale Lucifero, ancora allo stadio precedente l’iniziazione, anch’egli un “puer” dalle virtualità inespresse; il Gatto e la Volpe invece sembrano provenire dalla mitologia più arcaica, come i personaggi Legbà e Shù della religione yoruba, che si ritrovano anche nei culti sincretici a quella correlati di Vudù, Santeria e Candomblé.
Come questo particolare linguaggio vagamente allusivo, il naso di pinocchio ambiguamente proviene dal ritegno di chi sa di parlare di cose indicibili. Collodi lo inserisce in quel continuum di antichissima tradizione sotterranea in seno alla letteratura italiana, posta strettamente in rapporto alla ritualità esoterica, con la quale sola si può chiarire il significato sia della poesia medievale, da Dante e Cavalcanti a Federico II, sia quello della Rinascenza, in cui si avviò un’integrazione della tradizione bizantina nella cultura occidentale ai tempi del concilio di Ferrara e Firenze; intorno a quel grande gnostico che fu un Enea Silvio Piccolomini, in grado di indirizzare al sultano ottomano una lettera veramente ricolma di cultura iniziatica, e far rivivere a Pienza fastigi di neopaganesimo, l’intervento urbanistico di Bernardo di Matteo Gamberelli, detto Rossellino (1409-1464), riesce a rendere la piazza più grande, contrastando per la forma a trapezio storto la tendenza del nostro campo visivo a convergere su un punto, e più lunga la strada principale in leggera curvatura in modo che chi la percorre non ne veda la fine. Se dal culto di Iside deriva la Madonna, la leggenda dei magi, illustrata nei rilievi dell’architrave sul portale destro della pieve romanica dei Santi Vito e Modesto a Corsignano, proprio vicino Pienza, sta a testimoniare l’innesto dello zoroastrismo quale atto fondante della cristianità.
Allora, l’esibizionismo del naso di Pinocchio si allunga su questo occulto lignaggio isiaco, gnostico, e neopagano, nel senso più spirituale di tale definizione. Sottintendendo la più intima sostanza dell’uomo, mostra la bugia per affermare una verità. Pur venendo chiamata nel linguaggio dell’Alchimia con i nomi più degradanti, nella “materia prima” grezza, vile, e oscena, si cela la Pietra Filosofale. L’asino, come il pezzo di legno, modificano il proprio aspetto, certo con difficoltà, ma infine la Natura, mediante il Fuoco dell’arte, si tramuta in Spirito.
Giuseppe M. S. Ierace
Bibliografia essenziale:
Ekman P. and Friesen W. V. Nonverbal leakage and clues to deception, Psychiatry, 32, 88-106, 1969
Leslie I. Bugiardi nati, Bollati Boringhieri, Torino 2014
Nathanson D. L. Shame and Pride: Affect, Sex, and the Birth of the Self, W.W. Norton, London 1992
Sedgwick Kosofsky E. and Frank A. (eds.) Shame and Its Sisters: A Silvan Tomkins Reader, Duke University Press, Durham and London 1995
Vrij A. Detecting Lies and Deceit: The Psychology of Lying and the Implications for Professional Practice, John Wiley & Sons, Chichester 2002
Zolla E. Uscite dal mondo, Adelphi, Milano 1992