Gentile Giorgia,
proverò di seguito a riformulare quanto ha scritto nel suo commento, perseguendo in tal modo un duplice intento: il primo, offrirle qualche semplice spunto su cui riflettere perché lei possa “liberarsi dalla prigione” che la vedrebbe richiusa in solitudine nel proprio disagio; il secondo, manifestarle una forma umile di comprensione di quanto starebbe vivendo, al fine di normalizzare esperienze che, se non condivise all’esterno, potrebbero facilmente portarla a convincersi di essere la sola ed unica alle prese con simili vissuti.
Il primo aspetto che potremmo sottolineare è l’ansia che starebbe vivendo a seguito dell’aspettativa negativa di essere costretta da qui in avanti a vivere una vita monotona, fatta di routine che non sentisse come proprie. Tale stato mentale, attestante una condizione di normalità psicologica, è informativo di un bisogno di rinnovamento e di ridefinizione dei propri scopi e dei propri interessi personali. In breve, si tratterebbe della classica fase di transizione verso l’adultità, ossia un percorso di individuazione e definizione della propria personalità, caratterizzato dall’abbandono progressivo di tutte quelle modalità stereotipate di comportamento e di pensiero che erano state progressivamente acquisite nell’adolescenza per emanciparsi dal proprio contesto familiare. Immaginando un percorso per stadi di sviluppo, potremmo così ritenere l’adesione a regole e principi di comportamento convenzionali – quali sarebbero quelli appartenenti al gruppo dei coetanei - come una fase necessaria per svincolare la sua persona, fattasi nel tempo sempre più autonoma ed indipendente, dall’attività protettiva e plasmante dei genitori. Acquisita una prima forma di autonomia di giudizio e di pensiero, il passo successivo in questo percorso di sviluppo consisterebbe proprio nello spogliare le parti della propria persona da tutti quei sistemi di convinzioni che sarebbero stati adottati in precedenza per gli scopi di individualizzazione sopra descritti, ed ora non rientranti appieno all’interno dell’idea di persona che sentisse di stare diventando. E’ proprio in tale fase del processo di crescita, infatti, che si verrebbero a scoprire le motivazioni e gli scopi più profondi che nel corso nel tempo andrebbero a strutturare la nostra personalità. Data la sua passione per la filosofia, potremmo così riconoscere che, per coloro che osservano dal di fuori le peripezie che starebbe affrontando in questo suo difficile percorso di trasformazione di sé, non potrebbe esserci aforisma migliore che quello taoista di Lao Tze:
<< Ciò che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla >>
In questo primo caso, essendo una tappa pressoché obbligatoria del percorso di crescita, potremmo così ritrovare nel tempo e nelle diverse esperienze che da qui in avanti le capiterà di vivere la soluzione a questo prima problema (più semplice) da lei riportato. Delle volte, infatti, anche la semplice lettura di un libro, la visione di un film, o la conoscenza di persone recettive e sensibili a questo nostro bisogno trasformativo potrebbero di per sé aiutarci a vedere questo processo in una nuova luce, più caratterizzato da ottimismo e voglia di (ri)scoprirsi, piuttosto che dalla paura di perdere quel che di sé si dava ormai per scontato. Va da sé che, se il vecchio detto recita “Occorre perdersi per ritrovarsi”, vagare nell’oscurità lascia spesso confusi e disorientati lungo il cammino. Ne sa qualcosa il povero Moscarda, protagonista del celebre romanzo di Pirandello “Uno, nessuno e cento mila”, che, a ben vedere, detiene dei punti in comune con quanto da lei scritto poco sopra:
<< Non mi conoscevo affatto, non avevo per me alcuna realtà mia propria, ero in uno stato come di illusione continua, quasi fluido, malleabile; mi conoscevano gli altri, ciascuno a suo modo, secondo la realtà che m'avevano data; cioé vedevano in me ciascuno un Moscarda che non ero io non essendo io propriamente nessuno per me: tanti Moscarda quanti essi erano >>.
Se quindi un periodo di transizione si accompagna spesso a vissuti più o meno intensi di ansia e stress, è pur vero che esperienze di depersonalizzazione e derealizzazione potrebbero essere più facilmente esperibili durante questo normale di crescita. Malgrado venga vissuta con grande spavento da parte della persona che la esperisce, la depersonalizzazione di per sé non rappresenta una condizione patologica, benché sia presente trasversalmente in molti disturbi mentali. Le sarà sufficiente sapere che in molte culture religiose orientali tale vissuto esprime una condizione desiderata, autoindotta intenzionalmente durante la meditazione attraverso una modificazione della respirazione. Solitamente è associato a situazioni fortemente stressanti come pure all'utilizzo di sostanze psicotrope (es., cannabis) e a condizioni molto intense di paura, dove si pensa sia conseguente all’iperventilazione emozionale; non a caso rientra tra i sintomi dell’episodio di panico (intensa emozione di paura):
1. Tachicardia con intense palpitazioni
2. Sudorazione
3. Tremori o mioclonie
4. Dispnea o sensazione di soffocamento
5. Sensazione di asfissia (iperventilazione)
6. Dolore o fastidio al petto
7. Nausea o dolore addominale
8. Vertigini, sensazione di svenimento o di avere la testa leggera
9. Brividi o sensazione di calore
10. Parestesie (es., intorpidimento dei muscoli, formicolio, etc.)
11. Derealizzazione (sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (sensazione di essere distaccati)
12. Paura di perdere il controllo o “impazzire”
13. Paura di morire
Si manifesta con una generale alterazione della percezione di se stessi. Più nello specifico, la maggior parte delle persone che ha avuto esperienza diretta di questa condizione riporta di essersi sentita distaccata dalle proprie emozioni (es., ”Non riesco a provare niente”), dai propri pensieri (es., “Ho la testa ovattata”, “Mi sembra che i pensieri che mi passano per la mente non siano i miei”), o dalle sensazioni del proprio corpo (“Ho l’impressione che il corpo non sia il mio”). È comune la sensazione di sentirsi spettatori in terza persona di se stessi, come se la propria volontà si limitasse ad una pura osservazione passiva di un corpo dotato di vita propria (“Ho la sensazione di non avere controllo dei miei movimenti e del mio eloquio”), aspetto quest’ultimo che spiega la natura dissociativa di questa condizione. Anche la percezione del tempo può apparire alterata, lasciando colui che sperimenta la depersonalizzazione in uno spazio temporale globalmente rallentato. Nel complesso, tali alterazioni percettive vengono vissute in modo episodico, perdurando fino ad un massimo di qualche giorno. Ciononostante, il forte timore con cui si presenta può di fatto incrementare la permanenza della sintomatologia, specialmente laddove si presentasse un’attività rimuginativa eccessiva per la presenza di tali alterazioni percettive (es., “Sto per impazzire!”, “È sicuramente il campanello d’allarme di un danno cerebrale irreversibile!”, “Sto perdendo il controllo!”).
Nel caso da lei descritto, tuttavia, sembrerebbe che la depersonalizzazione, che potremmo ipotizzare stia vivendo anche in questo momento della sua vita, la stia allarmando non direttamente, a seguito della sua presenza, bensì indirettamente, a motivo di alcuni pensieri “insoliti” che le starebbe capitando di percepire attualmente. Data la forte indole all’introspezione e al costante monitoraggio del proprio mondo interiore a cui accenna nel post, potremmo così supporre che, in preda ad uno stato prolungato di depersonalizzazione non riconosciuto come tale, l’allarmismo sia dato non tanto dallo stato di depersonalizzazione in quanto tale, ma bensì dai normali pensieri di instabilità della sua autenticità e personalità che caratterizzerebbero la transizione all’età adulta. Questo timore emergerebbe nei passi del suo post in cui descrive la paura che percepisce all’idea (pensiero) che la parte di sé più interna non esista se non in relazione all’attività giudicante di un ipotetico osservatore esterno, sia che quest’ultimo fosse una persona esterna in carne ed ossa, sia che invece fosse lei stessa ad osservare in terza persona i propri stati interni (monitoraggio cognitivo amplificato ulteriormente dallo stato di depersonalizzazione che starebbe vivendo). Come a dire che in questa fase della sua vita fosse tormentata in maniera ossessiva dall’idea che la propria autenticità fosse sempre e soltanto una funzione di colui che la osserva, risultando in tal modo instabile per sua stessa definizione. Detto in altri termini, sembrerebbe che il semplice cambiamento di pensiero circa se stessi coincida a suo giudizio con la perdita della propria soggettività e/o di quella parte della propria personalità più intima ed “interna” di cui accennava di sopra, aspetto quest’ultimo che spiegherebbe la difficoltà a slegarsi da un’idea su di sé che non vorrebbe perdere per timore di perdere con essa la totalità della propria individualità e personalità. Sarebbe quindi un simile convincimento che la starebbe portando a non riuscire in tutto e per tutto a compiere quella transizione che invece le sarebbe richiesta nel suo normale percorso di crescita personale, come pure a mantenere sfortunatamente lo stato di depersonalizzazione/derealizzazione.
Emergerebbe quindi una certa difficoltà ad abbandonare alcuni degli schemi mentali pregressi, informativi di chi si pensava di essere o di come si riteneva funzionasse il mondo, per abbracciare di sé un’immagine certamente meno stabile, come d’altro canto lo sarebbero tutti i pensieri che normalmente insorgono nella nostra mente, ma più adattabile alle scoperte di cui starebbe facendo esperienza a seguito di un’attenta attività di riflessione personale su se stessa e sulla vita nella fattispecie. Importante segnalare come, al di là che, come è stato accennato, tali convinzioni siano plausibilmente poco adattibili alla portata di ciò che starebbe scoprendo grazie alla propria attività di ragionamento, queste ultime hanno avuto (ed in parte lo hanno tutt’ora) una funzione stabilizzante il suo equilibrio psico-emotivo. Detto diversamente, sapere (credere) di essere una certa persona le ha permesso e le permette ancora oggi di rendere più prevedibile il suo ambiente esterno (es., sapere come approcciarsi agli altri) ed interno (es., sapere come gestire la propria attività di pensiero), offrendole un maggiore senso di padronanza dei propri vissuti.
Al di là delle disquisizioni che potrebbero essere compiute circa il reale grado di veridicità di tale convinzione, l’aspetto di rilievo appare piuttosto il fatto che lei viva in modo molto pericoloso non avere di se stessa un’idea che risulti stabile e coerente nel tempo. Questa aspetto non dovrebbe essere trascurato, in quanto informativo di un aspetto caratterizzante la sua persona. Se infatti accettassimo l’assunto dello stoicismo greco su cui poggia tutta la psicologica cognitivista, secondo cui “Non sono i fatti in sé che turbano gli uomini, ma i giudizi che gli uomini formulano sui fatti” (Epitteto), allora potremmo altresì affermare che la difficoltà che tutti noi avremmo nel definire la nostra persona nei suoi aspetti più intimi e nucleari non comporti necessariamente un vissuto di paura o apprensione, quale è quello da lei dichiarato. Più semplicemente, potremmo riassumere il tutto ipotizzando che questa condizione di incertezza circa se stessi venga da lei vissuta in modo più negativo e catastrofico di come invece verrebbe vissuta da molte altre persone alle prese con il loro processo di crescita personale, forse in quanto meno interessate a questi temi o a possedere di sé la conoscenza esplicita che lei vorrebbe per contro acquisire. Il motivo andrebbe analizzato più nello specifico, in quanto avente a che fare con temi relativi alla propria individualità. Alcune persone, ad esempio, nutrono un bisogno intenso di avere tutto sotto controllo in quanto convinte di non possedere le giuste risorse per poter fronteggiare possibili imprevisti, seguendo in tal modo un funzionamento mentale che avrebbe al suo centro un convincimento profondo di inadeguatezza ed incapacità personale. Altri invece nutrono un forte bisogno di certezza per timore di compiere un errore o uno sbaglio, segno ad esempio della presenza di un eccessivo senso del dovere e della responsabilità individuale. Altri ancora necessitano di sentirsi certi circa il proprio controllo sugli eventi in quanto convinti di poter perdere il controllo di se stessi e/o di impazzire laddove contenuti mentali insoliti affiorassero nella propria mente.
Pertanto, ben lontana da me l’intenzione di assumere una posizione giudicante nei suoi confronti e di quanto starebbe vivendo attualmente, potrei al contrario invitarla a riflettere circa il significato che per lei avrebbe il non riuscire ad avere un pensiero stabile e coerente circa la propria autenticità.
Riassumendo: in presenza di un periodo di grande cambiamento e di ridefinizione di se stessa (transizione all’età adulta), lo stress la starebbe rendendo più suscettibile a vivere momenti di paura e di ansia, culminanti nella loro manifestazione più intensa in vissuti di depersonalizzazione/derealizzazione. La sua spiccata capacità di riflessione sui propri pensieri e, più in generale, sulla propria vita interiore la renderebbe così esposta a pensieri di instabilità del sé, tema che evidentemente per lei acquisisce un grande significato personale, in quanto incarnante una funzione protettiva e stabilizzante il suo equilibrio psico-emotivo per motivi non chiaramente deducibili dal post, su cui si invita la riflessione personale e/o il consulto esterno con uno specialista.